«Non saremo un boccone facile». Walid Mualem ieri a Damasco parlava con tono pacato di fronte ai giornalisti riuniti nell’ampia sala scelta per la conferenza stampa. Il ministro degli esteri siriano ha smentito ancora una volta che le forze armate governative abbiamo fatto uso di armi chimiche a Ghoutha. Allo stesso tempo è stato categorico quando ha affermato «Abbiamo mezzi di difesa che sorprenderanno il mondo…di fronte a noi ci sono solo due opzioni: arrenderci o difenderci e scegliamo la seconda». Mualem ha anche esortato la Giordania a non farsi coinvolgere nell’attuazione del possibile blitz militare. E da Amman hanno risposto che il regno hashemita non farà da «rampa di lancio» per l’intervento militare. Non farà da base di lancio ma da due anni la Giordania è un Paese centrale nella strategia americana di pressione sulla Siria. Ieri e lunedì ad Amman si è svolta la riunione dei capi di stato maggiore americani e di numerosi Paesi occidentali (Italia inclusa) e mediorentali che molti hanno descritto come un «consiglio di guerra» di cui si saprà ben poco perchè rigorosamente riservato.
Mualem ieri diceva anche di non essere certo che un attacco degli Stati Uniti contro la Siria ci sarà, «perchè non c’è una base logica che lo sostenga». Nelle strade di Damasco al contrario la guerra viene data per sicura. Attraverso radio, televisioni e internet tanti hanno appreso delle ultime dichiarazioni del capo del Pentagono, Chuck Hagel, che in un’intervista alla Bbc, a margine della sua visita nel Brunei, ha annunciato l’attacco in tempi stretti. Una questione di giorni. «Abbiamo schierato i nostri mezzi in maniera da adempiere e realizzare qualsiasi opzione il presidente (Obama) intenda adottare…Siamo pronti a partire, sul momento», ha spiegato Hagel. L’attacco ha ricevuto ieri anche il via libera, di fatto, della Lega araba – dominata dalle petromonarchie del Golfo sponsor dei ribelli – che ha puntato con forza l’indice contro il presidente siriano Bashar Assad. La missione degli esperti dell’Onu di indagine sulle armi chimiche a questo punto non ha più valore. Gli ispettori, presi di mira da cecchini due giorni fa, ieri hanno rinviato di almeno un giorno il proseguimento della loro inchiesta.
Così mentre il dollaro ieri perdeva valore sui mercati internazionali a causa dei venti di guerra che spirano in Medio Oriente, a Damasco al contrario era la valuta più ricercata. Chi ha la possibilità di acquistarli cerca di procurarsi un po’ di biglietti verdi, per i tempi ancora più difficili che, si prevede, attendono la Siria e segnalati dal continuo ribasso della valuta nazionale. Chi può permetterselo nel frattempo cerca di lasciare il Paese. Lo hanno farro ieri i cittadini russi e degli ex Stati dell’Urss che un Ilyushin-76 ha imbarcato all’aeroporto di Latakiya. E provano farlo i siriani ricchi e, pare, qualche familiare di funzionari del governo. Per queste persone il dopo-attacco presenta troppe incognite. «Le forze armate siriane hanno riconquistato terreno prezioso negli ultimi mesi – nota l’analista arabo Mouin Rabbani – ma se gli americani distruggeranno, come è molto probabile, le basi aeree, l’Esercito senza la copertura dell’aviazione farà fatica a mantenere le posizioni contro ribelli sempre più armati».
D’altronde il fine dell’attacco che Washington si prepara a lanciare non è volto, come afferma con toni messianici l’Amministrazione Obama, a punire il regime per l’uso «innegabile» delle armi chimiche. Piuttosto vuole creare le condizioni sul terreno che consentano ai qaedisti di «al Nusra» e dello «Stato Islamico in Iraq e nel Levante» e ai miliziani dell’Esercito libero siriano (che da qualche giorno si fa chiamare Esercito nazionale siriano), di ribaltare la situazione sul campo di battaglia e di mettere le forze lealiste sulla difensiva.
I primi segnali di cambiamenti sul terreno già si vedono. Rafforzati da ingenti quantitativi di armi – qualche giorno fa ne sono arrivate 400 tonnellate, comprate con soldi dei petromonarchi -, i ribelli nelle ultime ore hanno conquistato la località strategica di Khanasir, che permette alle opposizioni di controllare l’unica via d’accesso ad Aleppo e di tagliare i rifornimenti alle truppe governative nella storica città del nord della Siria. Inoltre ad Homs i ribelli stanno provando a riprendere il controllo Talkalakh, a pochi chilometri dal confine con il Libano, fondamentale per rifornimento di armi e viveri.
Se l’opposizione siriana e le milizie ribelli si preparano a raccogliere i frutti dell’attacco Usa, tanti altri siriani invece pregano affinchè il regime resti al potere. Tra questi ci sono molti cristiani, come i 50mila abitanti della Wadi al-Nassara, una valle nella Siria occidentale punteggiata di paesini, che hanno appeso nastri di seta bianca per piangere le vittime della guerra e per auspicare che l’Esercito sconfigga i suoi nemici. Non pochi residenti sono entrati nei Comitati di Difesa Popolare, una milizia filo-governativa. I cristiani sono il 5 per cento della popolazione in Siria e in prevalenza sono schierati con il regime perché temono la crescente forza tra i ribelli dei qaedisti e dei Fratelli musulmani (che dominano l’Els), che hanno per scopo dichiarato la costituzione di uno Stato islamico in Siria. Nel frattempo i cristiani, riferisce il sito d’informazione al Monitor, continuano a fuggire da Aleppo nel timore di una «pulizia etnica» sul modello iracheno, una volta che la città sarà tutta sotto il controllo delle opposizioni. Nena News