Quando Bernard-Henri Levy arriva sul “luogo del delitto”, il colpevole – ci puoi scommettere – è in trappola e pronto alla galera. Così succede oggi per il labirintico affaire siriano. Nel suo intervento sul Corriere della sera, il filosofo-combattente accusa killer (il regime di Damasco)e mandante (la “tigre di carta” russa). Infine, proclama la necessità imperativa di “salvare l’onore dell’ Occidente”.
L’onore dell’Occidente – ahimè – è perduto ormai da generazioni, almeno da quando i caccia americani innaffiavano tonnellate di napalm e di Agente Orange sulle giungle del Laos e del Vietnam. Qualcuno dovrebbe avvertire questi nipotini del Generale Custer che non è più tempo di Crociate. Più semplicemente – per tornare all’argomento – dicono le cronache che per la Casa Bianca è arrivato il “Srebrenica moment”: il momento delle scelte, in memoria dell’episodio cruciale e insopportabile che diciotto anni fa convinse Bill Clinton a rompere gli indugi, intervenire nella guerra di Bosnia e bombardare gli aguzzini di Sarajevo.
Oggi, tuttavia, il “Srebrenica moment” è più un lugubre ammonimento che un ricordo eroico. Da quel lontano 1995, tutti gli interventi armati della superpotenza americana e dei suoi riluttanti alleati europei si sono risolti in affannosi, luttuosi, sanguinosi fallimenti. L’epopea bosniaca e kosovara ha generato una nidiata di “Stati falliti”, perpetuato odi mortali, e generato nuove pulizie etniche. Dopo l’11 settembre, il mondo porta ancora sulle spalle il bagaglio pesantissimo della guerra in Afghanistan, dove la palude della violenza, del degrado e dell’ oscurantismo è pronta a richiudersi su se stes-sa, appena sarà partito l’ultimo soldato occidentale. L’Iraq del dopo-Saddam, che secondo i falchi neo-com dell’Amministrazione Bush doveva risorgere come la Germania e il Giappone dopo la seconda guerra mondiale, è un Paese sciagurato che serve soltanto a pompare petrolio e ad aggiornare ogni mese il bilancio degli attentati e delle violenze diffuse di una interminabile “guerra a bassa intensità”.
Queste furono guerre con le fanfare, (ricordate lo “scontro di civiltà”?) poi arrivarono le guerre con le trombette. Dopo l’ubriacatura dello sceriffo texano, la Casa Bianca democratica divenne essa stessa “riluttante”.
Appassirono i gloriosi teoremi dell’impero, e ardite definizioni come “nation building” e “peace keeping” vennero chiuse in soffitta, insieme ai cimeli della moderna Sparta. Di fronte alle crisi, i leader occidentali impostarono complicate strategie aeree. La “guerra sicura” fu testata in Libia, con Wa-shington a rimorchio di Parigi. Risultato: la Libia di oggi – dopo aver fatto giustizia sommaria del suo carnefice – è un altro “Stato fallito”.
La Siria è il dilemma di oggi. Barak Obama colpirà – dice una scuola di pensiero – perchè l’Amministrazione americana ha tracciato la “linea rossa” delle armi chimiche. Questa delle armi chimiche è la traduzione un po’ sbrindellata della teoria delle “armi di distruzione di massa”.
In Iraq servì per rendere insopportabile all’Occidente Saddam Hussein. Oggi Al Assad è insopportabile, ma è parimenti insopportabile – agli occhi dell’Occidente – la galassia intraducibile e incontrollabile della rivolta.
Così nessuno si illude più di tanto. Due o tre giorni di attacchi mirati faranno altri lutti, indeboliranno (forse) il regime di Damasco, e soprattutto riempiranno le prime pagine dei giornali arabi e occidentali.
In definitiva le bombe intelligenti americane (e francesi, e inglesi) serviranno a Israele, la cui dirigenza ha scelto oggi e per le prossime generazioni la “linea della trincea”. Serviranno alla retorica anti-occidentale di Teheran e alla presa ferrea del regime degli Ayatollah sulla società iraniana, con buona pace delle ten-tazioni trattativiste del nuovo presidente. Due sassate nello stagno, niente di più. Una dose di “guerra omeopatica” che deve stare attenta a non incidere più di tanto sullo sta-tu quo della paura e del sangue. Per un Bernard-Henri Levy che invoca i bombardamenti con accenti da Savonarola(“la morale lo esige, la causa della pace lo richiede…”.) ecco che i leader occidentali indossano mezze maniche da ragionieri per salvare la faccia e prendere tempo. Del resto, è una strada obbligata.
È la strada che l’Occidente percorre da decenni in questa sciagurata regione: un nocciolo di inerzia, compromissione e impotenza, ben nascosto in un guscio di retorica umanitaria e guerresca.
Quanto all’Italia, il nostro governo (sorpresa!) si chiama fuori. Altro che armi chimiche, altro che stragi, altro che profughi! Il Paese ha di fronte ben altri e immani compiti. L’agibilità politica del Cavaliere, e – di conserva– un aiutino alle imprese del Cavaliere medesimo e della sua numerosa famiglia.
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