Il 6 aprile 1994 l’assassinio del capo di stato ruandese Juvénal Habyarimana diede inizio ad uno dei più sanguinosi massacri della storia. Cento giorni di follia omicida in cui vennero trucidate sistematicamente circa un milione di persone, soprattutto di etnia tutsi ma anche tanti hutu che si erano rifiutati di uccidere degli innocenti. A venti anni dal genocidio Marco Trovato in un articolo, pubblicato sulla rivista[url”Africa”]http://www.missionaridafrica.org[/url], fa il punto della situazione attuale del Paese: un Ruanda in forte crescita economica, che cerca di lasciarsi alla spalle i fantasmi della guerra e della povertà ma dove permangono profonde divisioni etniche che potrebbero essere i semi malati di un nuovo olocausto.
Il genocidio. L’attentato al presidente ruandese, probabilmente architettato dalle frange più radicali dello stesso regime, fu in realtà solo un pretesto. Gli estremisti hutu avevano pianificato lo sterminio da tempo. Alle prime luci dell’alba gli squadroni della morte cominciarono la caccia agli inyenzi, gli “scarafaggi” tutsi. “Radio televisione libera delle mille colline” incitava a non aver pietà per donne e bambini. E a questo appello risposero orde di cittadini armati di bastoni, pietre, machete, falci, lance, forconi, fucili… Un orrore senza fine. “Medici uccisero i propri pazienti, insegnanti uccisero i propri alunni, studenti uccisero i propri compagni, sacerdoti uccisero i propri parrocchiani – si legge nell’articolo”. Il genocidio ebbe termine a luglio, con la vittoria dei guerriglieri del Fronte patriottico ruandese (Fpr) sull’esercito hutu. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ha emesso una quarantina di sentenze contro i principali responsabili. Molti presunti assassini sono stati processati dai tribunali popolari, altri sono fuggiti in Zaire con la complicità dei soldati francesi. Pochissimi hanno mostrato segni di pentimento per le atrocità commesse. . .
Vent’anni dopo il Ruanda è costellato di ossari, cimiteri, fosse comuni. A inizio aprile il Paese si ferma per una settimana di commemorazioni in ricordo delle vittime e i sopravvissuti vanno nelle scuole a raccontare l’inferno. “In quei giorni – si legge nell’articolo – è vietato perfino macellare i polli nei villaggi: neppure una goccia di sangue deve profanare la sacralità del momento”. Oggi alla guida del Paese c’è Paul Kagame, ex miliziano del Fpt salito al potere all’indomani del genocidio. Il Ruanda è in piena espansione. L’economia corre: il Pil cresce per l’ottavo anno consecutivo del 6,5%. Dai paesi ricchi arrivano investitori e turisti. Ma si tratta di uno sviluppo sbilanciato che non ha cancellato i problemi della povera gente.
Critica è invece la situazione dei diritti umani. Secondo Human Rights watch “gli organi d’informazione sono intimoriti, i difensori dei diritti civili maltrattati, l’opposizione politica inesistente”. La memoria del genocidio è sotto il totale controllo dei tutsi e Anmesty international accusa i governanti di strumentalizzarla per zittire il dissenso e le critiche. Nonostante le barbarie siano state compiute da entrambi le fazioni, i vincitori hanno imposto la loro verità. I tutsi sono vittime, gli hutu carnefici. Il risultato – commenta un missionario che ha preferito mantenere l’anonimato – è che “i primi hanno occupato tutti i posti di comando, i secondi sono sottoposti a continue umiliazioni”. Ma non può esserci pace senza perdono e giustizia. Agghiacciante la conclusione del missionario: “Tra vent’anni qui ci sarà un nuovo olocausto. […] E l’orrore che si scatenerà sarà di gran lunga peggiore di quello vissuto venti anni fa”.