Erdogan il neo-ottomano

La campagna elettorale in Turchia fa scegliere al presidente Erdogan toni sempre più aspri in politica internazionale.<br>

Erdogan il neo-ottomano
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7 Maggio 2015 - 17.18


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Gli anniversari della storia si intrecciano con gli appuntamenti elettorali, e far leva sui sentimenti più nazionalistici si rivela una tentazione troppo forte per Tayyip Erdogan: è questo il giudizio contenuto nell’analisi di Zeljko Pantelic, esperto di geopolitica dell’area e corrispondente in Italia per il settimanale serbo “Nedeljnik”. Pantelic parte dall’episodio che ha visto il presidente turco reagire con toni particolarmente duri alle dichiarazioni di Papa Francesco, dopo che questi ha apertamente definito genocidio il massacro perpetrato contro un milione di armeni da parte dell’Impero ottomano 100 anni fa.

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”In qualche modo – dice Pantelic – le dichiarazioni del Papa sono state interpretate come un regalo politico per Erdogan ad un mese e mezzo dalle elezioni parlamentari in Turchia”. Il suo partito, l’AKP, è infatti dato ancora in testa nei sondaggi ma con un vistoso calo rispetto alla tornata precedente. “Molto probabilmente – dice l’esperto – non otterrà i due terzi dei seggi in Parlamento, indispensabili per modificare la Costituzione. Più precisamente, non sarà in grado di operare le modifiche necessarie per  realizzare la sua principale intenzione, ovvero quella di adottare il  sistema presidenziale alla francese che metterebbe de iure, e non solo de facto come ora, l’intero potere nelle sue mani”. L’innalzamento del livello di aggressività politica negli affari esteri si misura dunque in maniera direttamente proporzionale al tentativo di riguadagnare terreno nell’opinione pubblica interna. 

L’ultimo periodo ha visto una campagna particolarmente aspra sul tema del genocidio compiuto contro la popolazione armena, il cui anniversario è caduto lo scorso aprile. Non solo il Papa, ma anche il parlamento europeo è stato duramente contestato da Erdogan dopo la risoluzione con cui si richiama Ankara a riconoscere il grande massacro, se davvero vuole entrare a far parte dell’Ue. “Tutto questo – ribadisce Pantelic – ha offerto a Erdogan su un piatto d’argento la possibilità di mostrarsi assieme paladino dell’Islam e difensore dell’eredità del fondatore della Turchia, Kemal Ataturk, nonché portabandiera dell’orgoglio nazionale”. La mossa, dal punto di vista della politica interna, vede un rischio minimo a fronte della possibilità di una vittoria a massimo punteggio. “Poco importa ad Erdogan cosa pensa il mondo occidentale del genocidio contro gli armeni, e men che meno è preoccupato di avanzare o no nel processo di integrazione europea. In Turchia, il 90 per cento degli abitanti è convinto che non vi sia stato alcun genocidio”. La tattica adottata per guadagnare punti in politica interna è però inversamente proporzionale ai successi ottenuti nella politica estera, caratterizzata da un “neo-ottomanesimo”  ad uso e consumo dell’elettorato e da scelte rivelatesi puntualmente sbagliate nelle relazioni internazionali.

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“Le valutazioni errate di Erdogan e del premier Davutoglu – prosegue Pantelic – sulla cosiddetta ‘Primavera araba’ hanno ridimensionato e persino messo in discussione le ambizioni neo-ottomane di Ankara, a cominciare dal suo influsso nella regione fino alla competizione per un ruolo di leader con Iran, Arabia Saudita ed Egitto. Allo stesso tempo Erdogan è riuscito a portare ai minimi storici i rapporti con gli Stati Uniti, per non parlare della relazione personale con Barack Obama con cui non ha contatti diretti praticamente da tre anni”. Il neo-ottomanesimo era già stato rispolverato, prima del tandem Davutoglu-Erdogan e dall’ex presidente Turgut Ozal che aveva ideato una nuova ‘geografia’ tentando di comprendere nel raggio d’influenza turco numerosi Stati nati dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica. “Ozal insisteva più su aspetti economici, mentre Davutoglu nella teoria ed Erdogan nella pratica hanno dato al neo-ottomanesimo un classico approccio geo-politico. L’idea di Ozal vedeva inoltre assente la componente islamico-sunnita, mentre Erdogan trova proprio negli argomenti politico-religiosi la sua roccaforte”.

A questo proposito nell’ultimo anno è stata impressa una spinta decisiva, proprio sul fronte interno, alle istanze islamiche con la nuova riforma scolastica. Lo scorso febbraio sono stati migliaia i cittadini scesi nelle strade perché la nuova legge sull’istruzione adesso costringe a seguire il credo della corrente sunnita, insegnato nelle scuole pubbliche e nelle sempre più numerose scuole  religiose, le ”imam-hatip”. La nuova legge porta la durata della scuola dell’obbligo da 8 a 12 anni, e per tutto il periodo bisognerà seguire anche l’insegnamento religioso.

Chi non vorrà frequentare i corsi di religione sunnita avrà come unica alternativa l’iscrizione in scuole private, che a causa delle rate elevatissime accolgono solo i più benestanti. Allo studio del governo vi è infine l’obbligatorietà dell’insegnamento della lingua araba, addirittura come secondo idioma, affinché gli studenti possano capire i passi originali del Corano. La riforma quinquennale messa a punto dal ministero dell’Istruzione non prevede solo l’obbligo dello studio sunnita, ma privilegia anche l’ingresso nelle “imam-hatip”: l’obiettivo del governo è arrivare a raggiungere il milione di iscritti in queste scuole, dopo che la cifra  si è già moltiplicata di ben sette volte negli undici anni di potere gestito dal partito islamico Akp. Frequentare questi istituti, fanno notare gli esperti, agevola la carriera nei settori pubblici, e nella riforma è prevista la possibilità di accesso a tutte le facoltà che preparano per i posti chiave della pubblica amministrazione e delle istituzioni politiche.

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(Fonti: Nedeljnik – Hurriet – agenzie)

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