da Addis Abeba
Sara Datturi
La voglia di scrivere per il piacere di raccontare, il bisogno di ricordare, sperare, sentirsi, guardare, toccare il mistero dell’esistenza anche in quest’emisfero di mondo. Occhi che osservano, scrutano e mangiano l’esistenza in cammino, in questa capitale d’Etiopia che si trasforma, insegue un perpetuo sviluppo legato a un sistema intrinsecamente ingiusto. Qui si spera che un giorno questa capitale dai continui palazzi in costruzione, inseguita dallo smog e dal rumore dei clacson diventi come Londra, Dubai, Parigi: simbolo di un apparente progresso.
Poi ci siamo noi, fantasmi bianchi che camminiamo nelle strade di un continente che raccoglie in sé il mistero dell’umanità.
La gente che vedo ogni mattina abbracciata, cullata dal caos dei mini bus dà energia, mi sento così follemente straniera e allo stesso tempo indigena di questa terra che sobbalza di cultura, contraddizioni, paranoie, diseguaglianze, gentilezza ed orgoglio. Il paese de teff, dell injera e del caffè. Gli occhi che guardano, ti denudano, occhi che non riesci a non incrociare. Sono io ma rappresento un mondo infinitamente incostante, ingiusto, obsoleto in cui i soldi fanno il progresso e la felicità.
Cammino e mi sento così slegata ed allacciata al futuro di questo pezzo di mondo. Non posso non farmi domande, non riesco a non raccontare. Un gruppo jazz “misto misto” che raccoglie le musiche di due continenti, abbraccia il lento ritmo etiope con quello francese americano. Le persone si mescolano, i bambini si scatenato. Le luci della notte piombano su una città in trasformazione, dove le elezioni politiche sono avvenute senza grandi dichiarazioni, manifestazioni, urla. Tutto sembra avvenire nell’apparente calma del progresso. Addis Abeba ha mille volti, quello dei grandi hotel, delle belle costruzioni di vetro, il nuovo tram, tanti macchinoni, una classe media che rappresenta lo 0.1% della popolazione se non meno, e i tanti emigrati del vecchio mondo che qui possono permettersi di fare la bella vita in nome della cooperazione e dello sviluppo.
La maggior parte della popolazione dov è? Cammina, passo dopo passo ogni giorno, a ogni d’ora, lotta per resistere, per ottenere quel mimino di dignità e di speranza per un futuro dove tutta questa vita rispecchiata nelle nuove generazioni può avere scelta. Qui tanta gente non può scegliere. E allora la domanda costante che mi chiedo in queste tre settimane è cosa sono venuta qui a fare. Straniera indigena di una terra che mi chiama, vorrei poter essere tra loro, scoprire le trame delle loro lotte quotidiane e smettere di giocare con queste pedine politiche internazionali capaci di parlare ed ottenere fondi per riempirsi la pancia.
Voglio imparare a fare crescere tanti fiori da questo letame e solo questa popolazione in cammino mi permetterà di farlo.
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