“L’Europa non ha il polso della situazione, non ha idea di come possa evolvere. Il terrorismo sta già dilagando in Egitto – gli assalti di ieri contro l’esercito egiziano nel Sinai ne sono una dimostrazione –, Tunisia e Yemen: presto assisteremo a una guerra in tutti i Paesi arabi”. David Issamadden, dentista bolognese di origine curde, presidente della Comunità curda in Italia e vicepresidente dell’associazione Bologna-Kurdistan non ha dubbi: non siamo che all’inizio. “Non voglio essere catastrofista, ma è così: lo Stato islamico si infiltrerà a macchia d’olio anche in tutti i Paesi del Medio Oriente, e questo avrà conseguenze in Europa”. Issamadden, nato e cresciuto a Kirkuk, spiega le ragioni del suo disincanto: i soldati dell’Isis non hanno nulla da perdere, sono convinti di morire per andare in paradiso. Se vengono uccisi, hanno comunque portato a termine il loro compito, hanno già raggiunto il loro dio: “Noi curdi riusciamo a combatterli perché sappiamo di essere in guerra con il cancro del nostro secolo. Amiamo la democrazia, moriamo per difenderla. I governi siriano e iracheno, invece, non hanno militari pronti a combattere seriamente, lo fanno solo per soldi. Ma d’altronde, se nasci in Iraq, hai solo due possibilità per portare a casa uno stipendio: o il poliziotto, o il militare”.
Il tema dei combattenti dell’Isis è stato anche al centro dell’ultima edizione del premio l’Anello Debole: il video “Prigionieri, 2014 fuga dall’Isis”, di Cristina Scanu e Giuseppe Ciulla, è arrivato tra i finalisti della sezione “cortometraggi della realtà”. Un documentario che dà voce ai miliziani, tramite interviste realizzate in una prigione curda nel nord della Siria in cui spiegano cosa li spinge a massacrare chiunque non sia musulmano.
L’attacco di Issamadden è a tutto l’Occidente: “Non ci stanno aiutando adeguatamente: certo, gli Usa bombardano. Ma i curdi che combattono sul territorio sono abbandonati a loro stessi. Quelle occidentali sono solo chiacchiere: non vogliono davvero affrontare l’Isis, soprattutto dopo gli attentati degli ultimi giorni. Chi glielo fa fare?”. E sottolinea come, por pochi voti, al Congresso americano non sia passata la mozione per armare i militari curdi senza passare dal governo di Baghdad: “Gli armamenti, in questo modo, non arrivano a noi. Restano in mano a persone incapaci, milizie messe insieme a caso. Basti pensare che uno dei capi delle milizie irachene chiamate a combattere l’Isis è un iraniano: a loro non interessa fermare il terrorismo, ma semplicemente non farsi ammazzare”.
Parole dure, quelle di Issamadden, che tra Kurdistan iracheno e Iraq ha ancora tutta la sua famiglia, anche per la Turchia: “Il governo turco sta facendo un gioco ambiguo: innanzitutto, permette ai terroristi di passare sul suo territorio. In secondo luogo, li arma”. Il riferimento è alla notizia e al video pubblicati dal quotidiano ‘Cumhuriyet’ stando ai quali il governo turco avrebbe nascosto in casse di aiuti umanitari da spedire in Siria munizioni e altre armi destinate ai miliziani dell’Isis. “Erdogan ha chiesto l’ergastolo al direttore del giornale: è così che crede di risolvere i problemi. Ma non mi stupisco: ha detto che avrebbe fatto di tutto per arrestare la nascita di uno Stato curdo in Siria. Forse spalleggiare i terroristi fa parte di questa strategia”.
Pochi giorni fa i peshmerga hanno ripreso Kobane: 200 le perdite. Ieri, intanto, il Comitato per la ricostruzione della città, parlerà davanti al Parlamento Europeo per chiedere aiuti. Esattamente coma sta facendo da qualche giorno a questa parte una delegazione curdo-siriana in visita in Italia guidata da Anwar Muslim, copresidente del cantone di Kobane: “A Kobane non c’è più una casa in piedi – racconta Issamadden –: servirebbe una specie di piano Marshall. Non ce la possiamo fare da soli, ma non chiediamo uomini. Chiediamo armi adeguate, poi andremo avanti a combattere”.
E se i terroristi dovesse cominciare una guerra anche in altri Stati, magari più poveri della Siria o dell’Iraq, che non possono contare sullo spirito curdo, che succederebbe? “Pensiamo a realtà come Al Shabaab o Boko Haram, e a tutti gli interessi legati al petrolio. In quei casi, si renderebbe immediatamente necessario un intervento delle Nazioni Unite che dovrebbero, tanto per cominciare, mandare osservatori, tecnici e militari. Ma credo che sarebbe ora che la Nato si decidesse a intervenire anche in Iraq: il popolo curdo sta difendendo più di 1500 chilometri di confine, dalla frontiera con la Turchia fino a Kirkuk. È vero che un peshmerga vale 10 soldati normali, ma dal punto di vista umano è un’impresa non più sostenibile”.