Le notizie arrivano dalla Siria sono diventate la normalità per un Paese che da sette anni è dilaniato da una guerra civile ed è diventato terreno di battaglia per jihadisti e potenze straniere, mentre nessuna iniziativa diplomatica o le risoluzione dell’Onu riescono a mettere fine alla carneficina.
Era il 15 marzo del 2011 quando a Damasco si svolse il primo inedito corteo di protesta contro il regime, accompagnato da una massiccia manifestazione a Daraa, nel sud, dove il mese prima alcuni studenti di una scuola superiore erano stati arrestati per aver tracciato su un muro slogan contro il presidente Bashar al Assad.
I poteri di uno Stato repressivo, non abituati a fare i conti con una contestazione aperta, reagirono con la violenza e in pochi mesi lo scontro degenerò in una spirale inarrestabile. Le prime diserzioni nell’esercito, nel giugno di quell’anno, portarono alla formazione dell’Esercito siriano libero (Esl), in guerra aperta contro Damasco. Trascinati dagli entusiasmi suscitati dalle Primavere Arabe, gli Usa del presidente Barack Obama e l’Unione europea pensarono che fosse arrivato anche il momento di Assad, e in agosto chiesero apertamente che lasciasse il potere. Ma non avevano fatto i conti con le radici profonde su cui il regime poteva ancora reggersi, e soprattutto con il sostegno totale che i suoi alleati di sempre, la Russia e l’Iran, avrebbero continuato ad assicurargli.
Migliaia di miliziani sciiti libanesi, iraniani, afghani e iracheni, organizzati dai Pasdaran iraniani, sono scesi in campo e, insieme con i bombardamenti russi cominciati nel 2015, hanno di fatto salvato un regime che nell’estate del 2012 sembrava ormai prossimo a cadere. Con il passare degli anni la scintilla che ha provocato il grande incendio – le manifestazioni dell’opposizione e la relativa repressione – è stata ormai dimenticata da un’opinione pubblica internazionale che ha visto il conflitto trasformarsi in scontro confessionale, favorendo l’espandersi di Al Qaida e poi dell’Isis.
Difficile dire quanti siano stati i morti in questi sette anni. L’Osservatorio nazionale per i diritti umani (Ondus), parla di quasi mezzo milione di vittime. Ancora due anni fa l’inviato speciale dell’Onu Staffan de Mistura aveva fornito una cifra intorno ai 400.000 uccisi. Undici milioni di persone sono sfollate: 5,5 milioni di profughi fuori dal Paese e 6,5 all’interno. L’economia è distrutta. Ma ormai quasi nessuno fa più caso ai bollettini di guerra quotidiani.
Come quello di ieri, che parla di almeno 20 civili uccisi nei bombardamenti governativi nella Ghuta orientale, in parte controllata da gruppi di insorti fondamentalisti; di altri 8 morti nella regione nord-occidentale di Idlib, controllata da formazioni ribelli e qaediste; o dei 700.000 civili intrappolati ad Afrin, la città curda anch’essa nel nord-ovest ormai sotto l’assedio di forze speciali turche e ribelli loro alleati; o dei 400.000 ormai allo stremo nella Ghuta. I combattimenti sono ripresi se possibile ancora più furiosi di prima negli ultimi mesi, dopo essere diminuiti in seguito ad un accordo nel maggio dell’anno scorso tra Russia, Turchia e Iran per creare zone di de-escalation. Mentre una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvata il 24 febbraio all’unanimità – dopo che la Russia aveva posto il veto ad altre 11 – e che chiedeva una tregua umanitaria di 30 giorni in tutto il Paese, non è stata applicata nemmeno per un minuto.