Se Milošević è pericoloso anche da morto

In questo clima di ritorno del nazionalismo identitario e del sovranismo, nutrito di una nuova ostilità verso i musulmani, c’è uno spettro che si aggira per l’Europa: ed è lo spettro di Slobodan Milošević.

Milošević
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30 Marzo 2018 - 10.10


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di , vicedirettore di Internazionale

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Prima presidente della Serbia e poi della Repubblica federale di Jugoslavia composta da Serbia e Montenegro, Milošević è morto dodici anni fa, l’11 marzo 2006, mentre era detenuto nel carcere di Scheveningen all’Aja (nei Paesi Bassi), presso il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, dove era sotto processo per crimini gravissimi.

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Il funzionario comunista diventato leader dei nazionalisti serbi, l’uomo che negli anni novanta del novecento è stato al centro dei conflitti che hanno distrutto la Jugoslavia, è considerato il padrino politico del progetto della grande Serbia. Cioè dell’idea che prevedeva di conquistare militarmente tutti i territori abitati tradizionalmente anche dai serbi nelle vicine Croazia e Bosnia Erzegovina (diventate indipendenti nel 1991 e nel 1992 con la dissoluzione della Jugoslavia) e di unificarli sotto il dominio di Belgrado.

Milošević è morto prima che si potesse arrivare a una sentenza sul suo caso, dopo più di quattro anni di processo. E quindi un verdetto non è mai arrivato. Era imputato per genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità commessi nella guerra in Croazia (1991-1992), nel conflitto in Bosnia Erzegovina (1992-1995) e nella guerra del Kosovo (1998-1999).

Ma c’è una notizia falsa che da due anni circola su alcuni mezzi di informazione internazionali e su alcuni siti, e finisce su quotidiani italiani piccoli e grandi intossicando la memoria e il dibattito su uno dei conflitti più sanguinosi della storia recente. È una notizia falsa su Milošević. “Slobodan Milošević, che vale la pena ricordare, fu assolto proprio dal Tribunale dell’Aja per i crimini in Bosnia”, ha scritto il Manifesto il 23 novembre 2017, a pagina 8 in un articolo a firma Ester Nemo (nome collettivo della redazione esteri) e uscito il giorno dopo la sentenza di condanna all’ergastolo inflitta al generale Ratko Mladić, capo militare dei serbi di Bosnia. La notizia dell’assoluzione è falsa, ovviamente, perché Milošević è morto prima della sentenza. E correttamente il Manifesto pubblica il 29 novembre una lettera di smentita.

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Ma non è stato un caso isolato. Alla fine del 2017 il Tribunale dell’Aja è tornato a far parlare di sé sia dopo la condanna di Mladić sia per il suicidio in aula del generale croato Slobodan Praljak e anche perché ha di fatto chiuso i battenti dopo un ventennio di lavoro. Nel dicembre 2017 il Corriere della Sera ha pubblicato in prima pagina un commento di Paolo Mieli dedicato al lavoro del Tribunale intitolato “La giustizia che punisce solo i vinti” in cui la notizia di una presunta assoluzione di Milošević da parte del Tribunale era ripetuta e amplificata. “In ogni caso”, scrive Mieli su Milošević, “pur senza voler sminuire le sue colpe, va ricordato che nel 2016, dieci anni dopo la sua scomparsa, il Tribunale penale internazionale ha stabilito che non fu responsabile di crimini di guerra in Bosnia. I giudici dell’Aja lo hanno scritto a chiare lettere nella sentenza di duemila e cinquecento pagine con cui hanno condannato a quarant’anni di carcere il leader dei serbi di Bosnia Radovan Karadžić. Anzi, in quella sentenza è stato addirittura dato atto a Milošević di aver cercato di convincere Karadžić che ‘la cosa più importante di tutte era mettere fine alla guerra’ e che ‘l’errore più grande dei serbo-bosniaci era di volere la sconfitta totale dei musulmani in Bosnia’”.

Radovan Karadžić è lo psichiatra capo politico dei serbi di Bosnia, che ha concepito insieme a Milošević e guidato la guerra e la pulizia etnica in Bosnia Erzegovina. E il Tribunale dell’Aja, smentendo qualsiasi illazione su un’assoluzione di Milošević aveva già chiarito nel 2016 che “il processo a Karadžić riguardava lui e lui solo, e quindi non ha nessun impatto sui procedimenti contro Slobodan Milošević”. La smentita dice qualcosa che dovrebbe essere ovvio: la sentenza penale su Karadžić non può “stabilire” l’innocenza di un imputato in un altro procedimento.
Ma oltre alle questioni di diritto, bisogna fare riferimento allo svolgimento del conflitto in Bosnia Erzegovina (cominciato nell’aprile del 1992) per capire le parole contenute nella sentenza di condanna di Karadžić.

Ritorno al 1993
Certamente gli intenti di Karadžić e dei nazionalisti serbi erano chiari fin dal 1991, quando in dichiarazioni private e anche pubbliche il leader serbo-bosniaco minacciava “l’estinzione” dei musulmani se non avessero accettato le condizioni imposte dai serbi. Così erano noti i progetti di Milošević e del presidente croato Franjo Tuđman di spartirsi la Bosnia tra serbi e croati, lasciando ai musulmani (maggioranza relativa della popolazione secondo il censimento del 1991) solo una piccola parte del territorio.

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Ma le frasi citate da Mieli si riferiscono al 1993, quando la sanguinosa campagna di pulizia etnica voluta da Karadžić (con il determinante appoggio politico e il sostegno logistico, militare ed economico di Milošević e degli apparati politici e militari della Serbia), cominciata nel 1992 e condotta dalle truppe del generale Mladić, aveva già avuto successo. Il paese era in fiamme, ma i serbo-bosniaci, che erano circa il 30 per cento della popolazione, avevano occupato gran parte del territorio della Bosnia e le città di Sarajevo, Tuzla, Goražde, Srebrenica, Žepa e Bihać erano sottoposte a un assedio sanguinoso e asfissiante.

Il mondo fino a quel momento era rimasto a guardare. Ma proprio nel maggio 1993fu istituito il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, che, se da un lato sembrava servire alla comunità internazionale per dimostrare di non essere indifferente di fronte ai crimini commessi nell’area, dall’altra era già un segnale d’allarme per Milošević, che voleva recuperare la legittimità internazionale ed essere il leader capace di firmare una pace favorevole ai serbi, dopo aver organizzato, gestito e vinto la guerra. Secondo lui, bisognava a quel punto sedersi a trattare, a partire dalle conquiste fatte. Ma la leadership serbo-bosniaca non ne voleva sapere. Karadžić e Mladić erano ormai esaltati nella loro follia nazionalista: volevano ancora guerra e ancora sangue, volevano espellere per sempre le popolazioni non serbe da più territori possibile. È in quel momento che si è consumato uno scontro tra Belgrado e Pale (“capitale” degli ultranazionalisti in Bosnia), ricostruito anche nella sentenza Karadžić, e che non impedì a Milošević e alle strutture militari e di intelligence della Serbia di continuare a collaborare attivamente all’impresa militare dei serbi di Bosnia.

La vicenda è pubblica e la ricostruiscono anche i documenti dell’epoca, con le parole dello stesso Milošević. Già nel gennaio del 1993, alla riunione del consiglio di coordinamento della politica dello stato, un’istituzione jugoslava che includeva i massimi livelli politico-istituzionali, Milošević aveva detto che il tempo delle conquiste era finito e che “il tema ora è come ottenere il riconoscimento di questa unità [degli stati serbi, ndr.], cioè come legalizzarla. Come trasformare una situazione che de facto esiste e non può essere messa in pericolo, in una situazione de facto e de iure”. A giugno dello stesso anno, alla riunione del consiglio supremo di difesa, Milošević disse: “L’opzione militare in Bosnia è esaurita, hanno conquistato tutto ciò che volevano conquistare”.

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La guerra continuò lo stesso, e in parte anche le tensioni tra Milošević e i serbi di Bosnia. Ma, nonostante questo, nel maggio 1994 Karadžić dichiarò pubblicamente, di fronte al parlamento autoproclamato della Repubblica serba: “Senza la Serbia, nulla di tutto questo sarebbe stato possibile. Non abbiamo le risorse e non saremmo stati in grado di fare la guerra”.

Belgrado non ha mai veramente abbandonato i serbi di Bosnia (al contrario di quelli di Croazia) e alla fine Slobodan Milošević riuscì a presentarsi come leader di tutti i serbi al tavolo della pace, a firmare gli accordi di Dayton del 1995 e a uscire politicamente indenne dai sanguinosi conflitti della prima metà degli anni novanta. Solo la guerra nel Kosovo portò poi il suo paese a essere bombardato dagli aerei della Nato e, alla fine, gli fu politicamente fatale.

Genesi di una notizia falsa
La notizia falsa sull’assoluzione di Milošević non nasce in Italia. La sua prima circolazione risale ai giorni successivi alla sentenza di condanna di Karadžić nel 2016. In poche righe della colossale sentenza, a un certo punto si legge che Milošević “aveva condiviso e promosso l’obiettivo politico dell’imputato e della leadership serbo-bosniaca” di impedire la secessione della Bosnia e che “cooperò da vicino in quegli anni con l’imputato”, fornendo “assistenza in forma di personale, forniture e armi ai serbi di Bosnia”. Tuttavia si osserva anche che c’erano “interessi divergenti” tra Belgrado e la leadership serbo-bosniaca, che Milošević criticò più volte Karadžić e i suoi, disapprovando alcune loro decisioni, e che quindi il tribunale “non ritiene, all’interno del processo in oggetto, che siano state trovate abbastanza prove che Milošević condividesse il piano comune”.

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Quelle poche righe sono state l’occasione nel 2016 per una campagna di disinformazione, alimentata dai mezzi d’informazione serbi e russi per riabilitare Milošević. Tutto comincia con un articolo di Andy Wilcoxson, collaboratore del sito Slobodan-Milošević, uscito sulla rivista statunitense di sinistra radicale Counterpunch poi citato dal giornalista britannico Neil Clark sul sito russo RT. Clark accusava i mezzi d’informazione di tutto il mondo di avere ignorato la notizia dell’assoluzione di Milošević data da Wilcoxson e attaccava il tribunale per averla “seppellita” nella sentenza di condanna di 2.590 pagine contro Karadžić.

A quel punto questa “notizia” dell’assoluzione ha fatto il giro del mondo e nei mesi successivi è stata rilanciata in Italia da Giulietto Chiesa e dai siti di estrema destraed estrema sinistra per i quali Slobodan Milošević è ancora oggi una sorta di eroe antimperialista. Cosa ancora più grave, la notizia è finita sulla pagina di Wikipedia dedicata a Milošević: nella versione italiana addirittura tra le prime righe, come fosse un fatto assodato; in quella inglese solo in fondo, nella parte dedicata al processo; in quella francese, invece, correttamente si ricorda che si tratta di “una voce” poi smentita.

Nel 2016 lo stesso Tribunale dell’Aja ha precisato di non aver “preso alcuna decisione sulla responsabilità di Slobodan Milošević nel suo verdetto su Radovan Karadžić. Il fatto che una persona si trovi a essere o meno membro di un’impresa criminale comune in un procedimento in cui non è imputata non ha alcun impatto sul suo caso o sulla sua responsabilità penale”. “D’altronde è naturale che sia così”, ci ha spiegato Flavia Lattanzi, ex giudice del Tribunale dell’Aja per la ex Jugoslavia e di quello per il Ruanda:

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Al livello tecnico-giuridico la frase della sentenza Karadžić su Milošević e la mancanza di prove di una sua condivisione del piano comune è molto chiara e non implica ovviamente alcuna assoluzione. Non solo perché chiaramente dice ‘all’interno del processo in oggetto’, e quindi si riferisce all’imputato, che era Karadžić, ma anche per una questione di diritto. Il riferimento è alla responsabilità per partecipazione a un’impresa criminale comune (nella sigla inglese Jce, Joint criminal enterprise), che è ripresa dal diritto di matrice anglosassone. Si tratta di qualcosa di analogo, ma non del tutto corrispondente, all’associazione per delinquere nella legge italiana. Per accertare la responsabilità di un individuo per partecipazione a una Jce è necessario ricostruire tutta la membership di questa impresa comune sulla base delle prove disponibili al processo. Ma non sempre al procuratore serve presentare tutte le prove disponibili per tutti coloro che considera parte di questa impresa comune.

Per ottenere la condanna di Karadžić, spiega Lattanzi, era più utile per il procuratore presentare le prove che mostravano il fanatismo dell’imputato e della sua cerchia ristretta, anche rispetto a un certo pragmatismo di Milošević in una certa fase del conflitto.

Sulla polemica è intervenuto poco tempo dopo anche Serge Brammertz, procuratore del Tribunale dell’Aja, che ha scritto sul sito di Al Jazeera il 24 agosto 2016 un preoccupato articolo sulla notizia falsa, denunciando la volontà, basata su un pretesto, di “assolvere pubblicamente Slobodan Milošević dalla responsabilità delle atrocità commesse in Bosnia Erzegovina”.

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“Il punto centrale è che queste affermazioni negano fatti storici chiaramente verificati. Il revisionismo non insulta solo le vittime, ma porta indietro la società. Se purtroppo Milošević è morto prima del verdetto, le prove rimangono e sono accessibili a chiunque voglia consultarle”, osserva Brammertz. “Anche in assenza di un verdetto penale, il giudizio della storia sarà che Milošević ha avuto un ruolo centrale nel promuovere le campagne di pulizia etnica nella ex Jugoslavia”.

La giustizia dei vincitori
C’è poi un altro argomento ricorrente usato contro la giustizia internazionale: l’idea che ci sia stata una giustizia dei vincitori contro i vinti, utilizzando il paragone con i processi di Norimberga contro i responsabili del regime nazista. La giustizia internazionale ha certamente molti limiti, ma di sicuro in questo caso non è una giustizia dei vincitori sui vinti. “I due tribunali internazionali ad hoc – quello per i crimini della ex Jugoslavia e quello dei crimini del Ruanda, che sono stati creati nel quadro delle Nazioni Unite – rappresentano la comunità internazionale in quanto tale”, dice Flavia Lattanzi. “La critica che si può fare a questi tribunali è un’altra, semmai”. I paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, quelli che godono del diritto di veto, non accetterebbero mai un tribunale ad hoc che potrebbe finire per giudicare i loro dirigenti, spiega Lattanzi. “Ma questa critica non cancella il fatto che i due Tribunali, ormai chiusi, rappresentavano tutta la comunità internazionale nel suo insieme”.

Chi sarebbero, poi, i vincitori nelle guerre di Bosnia e della ex Jugoslavia? La Bosnia Erzegovina vive il paradosso di essere un paese unico diviso in due entità separate: la Repubblica serba e la Federazione croato-musulmana. I confini delle due entità della Bosnia federale corrispondono alle linee del fronte della fine del 1995 e a quelle della pulizia etnica: di fatto le conquiste dei serbi sono state accettate dagli accordi di pace di Dayton. La città di Srebrenica, per esempio, teatro di un genocidio secondo il Tribunale, è oggi nel territorio della Repubblica serba, la parte serba della Bosnia.

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La Bosnia Erzegovina oggi

Un tribunale contro i serbi?
Il Tribunale dell’Aja è stato spesso accusato di essere stato parziale, di avere condannato solo o soprattutto i serbi. “Si può considerare ‘giusto’ un tribunale che, al termine di un conflitto (a maggior ragione se si tratta di una guerra civile), scopra e punisca esclusivamente reati commessi dagli sconfitti?”, scrive sempre Mieli. Certamente non sarebbe giusto, ma le cose non sono andate così e anche qui bisogna precisare alcuni dati.

Anche se con le dovute differenze, durante il conflitto tutte le parti commisero gravi violazioni del diritto internazionale umanitario. Si calcola che la guerra in Bosnia Erzegovina abbia provocato circa centomila morti, un numero sul quale a grandi linee convergono varie stime indipendenti e autorevoli (il numero esatto dei morti non si saprà mai). Le vittime musulmane sarebbero tra sessantamila e settantamila, circa la metà delle quali civili. Quelle serbe sarebbero tra 22 e 25mila e quelle croate circa ottomila, ma in questi due casi la percentuale di civili tra le vittime sarebbe molto inferiore (tra un terzo e un quinto, a seconda delle stime). I musulmani sono tra il 70 e l’80 per cento del totale delle vittime civili della guerra in Bosnia Erzegovina, per la maggior parte uccisi dalle truppe del generale Mladić e dalle milizie reclutate in Serbia da nazionalisti come Arkan o Vojislav Šešelj. Ed è questo che, in gran parte, spiega il fatto che la maggioranza dei condannati dal tribunale sia serba.

E in ogni caso il Tribunale dell’Aja ha condannato persone di tutte le comunità: “Sui 161 imputati dal Tribunale, 94 sono serbi, 29 croati, nove albanesi, nove bosgnacchi (musulmani bosniaci), due macedoni e due montenegrini”, esclusi coloro a cui le accuse sono state ritirate. “Di questi sono stati condannati 62 serbi, 18 croati, cinque bosgnacchi, due montenegrini, un macedone e un albanese”, ricorda Luka Zanoni di Osservatorio Balcani-Caucaso. Tra i condannati musulmani, per esempio, ci sono figure anche molto importanti, come Rasim Delićcapo di stato maggiore dell’esercito della Bosnia Erzegovina, condannato a tre anni di prigione per i crimini commessi dagli uomini sotto il suo comando contro prigionieri serbi.

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Un lavoro necessario
Il lavoro della giustizia internazionale è lento e complicato, e i suoi risultati sono certamente lontani dalla perfezione. Le sentenze del tribunale sono state ovviamente criticate, alcune anche con ottime ragioni. Da un certo punto in poi, per esempio, ha cominciato a prevalere una giurisprudenza molto incline a essere indulgente con i comandanti (di tutti gli eserciti e delle milizie coinvolti a vario titolo nel conflitto), troppo timida nel risalire la catena di comando e accusata di “avere una lettura molto restrittiva del diritto, che tende a proteggere i leader politici e militari” per non irritare le grandi potenze, sempre più impegnate in guerre per procura. Ma questo non cancella l’importanza – per le vittime e per la storia di queste comunità – del grande lavoro di ricostruzione dei conflitti nella ex Jugoslavia fatto dal Tribunale e del tentativo, per molti versi riuscito, di fare giustizia rispetto ai principali colpevoli dei crimini commessi.

“Perché si pretende che la giustizia penale internazionale sia perfetta, quando anche i sistemi giudiziari nazionali sono pieni di difetti e di problemi?”, si chiede Flavia Lattanzi. “Certamente non è perfetta, ma svolge una funzione: quella di diffondere l’idea che anche i capi di stato e di governo debbano rispondere di quello che fanno e di quello che pianificano e organizzano, e degli ordini che danno. Questa idea si è diffusa grazie a questi tribunali. E proprio per questo dobbiamo lavorare per migliorare questa giustizia internazionale. Non la si migliora certamente distruggendola o delegittimandola”.

Ovviamente il tema della responsabilità dei capi di stato e di governo non ha solo un valore storico, ma va inquadrato alla luce di quello che succede nel mondo di oggi. Tanto più in un contesto internazionale nuovamente caratterizzato da una forte instabilità, con lunghi conflitti sanguinari e difficili da interpretare, come quello in corso in Siria. Guerre in cui leader autoritari si muovono senza scrupoli e commettono crimini contro la popolazione civile (nel caso siriano, da Bashar al Assad a Vladimir Putin, da Recep Tayyip Erdoğan ai principi sauditi). Senza dimenticare il fatto che gravi violazioni del diritto internazionale umanitario le commettono ancora oggi anche i paesi democratici, quando sono impegnati in azioni militari all’estero.

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In questo clima d’impunità, in cui le macchine della propaganda funzionano a pieno ritmo e sono diffuse notizie false o manipolate su quello che accade nei teatri di guerra, è bene ricordare il valore della corretta informazione e di una ricostruzione storica che rispetti i fatti. Innanzitutto per riguardo alle vittime. E poi per orientarsi nei conflitti di oggi, in modo da non dare ragione all’antica frase di Eschilo sul fatto che, in guerra, la prima vittima è sempre la verità.

 

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