Se mai ci fosse ancora qualcuno convinto delle balle che Salvini ha raccontato sull’affaire russo prima di chiudersi in un imbarazzante e puerile silenzio, legga qui i toni della famosa lettera dell’ambasciatore russo in Italia.
Lettera con la quale il rappresentante di Putin a Roma chiede al ministro dell’Interno della Repubblica di intervenire per togliere alla Lukoil il disturbo delle proteste degli operai italiani. Toni di provata e rodata amicizia, certezza della disponibilità, a partire da quel “Caro Matteo…” iniziale, a penna, per segnare la familiarità del rapporto. In un Paese altro, diverso dall’Italia ( risparmiateci l’elenco, che potrebbe comprendere anche Paesei di incerto assetto democratico, oltre a quelli all’avanguardia per civilità ) solo questa lettera, solo questi toni avrebbero fatto saltare ministro e governo.
Salvini sempre pronto a riempirsi la bocca (in verità, ultimamente meno) di “Prima gli italiani”, accettando, come ha accettato, il pressante invito russo, almeno li ha messi al secondo posto gli italiani.
Al primo Vladimir. Per quali grazie ricevute avrebbe potuto e dovuto dirlo in Parlamento, anzichè scappare, come è ormai solito fare, a Roma, come a Parigi, come a Bruxelles. Si trova a suo agio solo a Mosca. In Usa, lasciamo perdere, piglia fischi per fiaschi.
O. Dis.
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