L'esercito di Assad e i russi arrivano a Kobane. I curdi: "Nessuna resa al regime"
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L'esercito di Assad e i russi arrivano a Kobane. I curdi: "Nessuna resa al regime"

Dove c’erano gli americani, i russi. E non per modo di dire, ma proprio fisicamente. Rappresentazione di come Mosca stia prendendo il posto degli Usa nel ruolo di potenza egemone in Medio Oriente.

Russi e siriani di Assad entrano a Kobane
Russi e siriani di Assad entrano a Kobane
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16 Ottobre 2019 - 07.09


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Le truppe siriane di Assad scortate da militari russi sono entrati a Kobane, la città curda al confine con la Turchia che i militari di Erdogan avevano intenzione di attaccare.

Nel frattempo le forze curdo-siriane cercano di placare il malcontento degli abitanti e di alcuni combattenti del Rojava prendendo una posizione chiara: “Non abbiamo consegnato la regione al governo siriano, come si afferma”: lo ha detto il comandante Mazloum Kobani, facendo appello a tutti i curdi perche’ “proteggano i propri progressi”, e “la propria terra”. 

La strategia politico militare di Putin

Da ieri pomeriggio l’esercito del presidente Bashar al Assad ha il “totale controllo” di Manbij, località strategica a ovest del fiume Eufrate, alle cui porte scalpitavano le milizie arabe filo-Ankara. La loro avanzata è stata bloccata sul nascere dall’arrivo delle truppe di Damasco, dopo che la Coalizione internazionale anti-Isis a guida Usa aveva ufficializzato il suo ritiro, e dallo schieramento della ‘polizia militare’ russa come forza d’interposizione sul perimetro della città, “lungo la linea di contatto tra gli eserciti siriano e turco”.

Un intervento che segna il primo vero stop all’incursione turca, nel settimo giorno dell’operazione militare ‘Fonte di pace’. Anche se Erdogan in serata fa una dichiarazione di fuoco: non dichiareremo mai il cessate il fuoco.

Anche se Kobane sembra ormai fuori portata, con i soldati di Assad scortati dai russi pronti a occupare anche lì il posto lasciato vacante dagli americani. Entro 24 ore arriverà poi in Turchia il vicepresidente americano Mike Pence, inviato da Donald Trump dopo le sanzioni per chiedere a Erdogan un cessate il fuoco. Ma il presidente turco non molla. “Presto metteremo in sicurezza” l’intero confine turco-siriano “da Manbij al confine con l’Iraq”, ha promesso. Obiettivo: conquistare più terreno possibile per mettere al sicuro le frontiere e rimandare a casa i rifugiati. “Un milione in una prima fase, due milioni in una seconda tappa”, ha spiegato il Sultano. Ankara, ha detto, ha “salvato dall’occupazione dei terroristi mille chilometri quadrati di territorio”. E dalle colonne del Wall Street Journal è tornato a minacciare l’Europa: “La comunità internazionale deve sostenere gli sforzi del nostro Paese o cominciare ad accettare i rifugiati”. 

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Ma sull’offensiva turca continuano a piovere condanne. Oggi anche Gran Bretagna e Spagna si sono aggiunte alla lista di Paesi europei – dopo Italia, Germania, Francia, Olanda e Paesi scandinavi – che hanno sospeso la concessione di nuove licenze ad Ankara per forniture di equipaggiamenti militari. Per Londra, si tratta di “un’azione sconsiderata e controproducente, che dà forza alla Russia e al regime di Assad”. Domani ne parleranno a Bruxelles gli ambasciatori Nato e a porte chiuse si riunirà anche il Consiglio di sicurezza dell’Onu. 

Sul campo, dopo il ritiro da Manbij e Kobane, i marines americani stanno abbandonando tutte le altre postazioni. A parte una piccola guarnigione che resterà nella base di Al Tanf, nel deserto siriano, i circa mille soldati a stelle e strisce finora in Siria verranno dislocati in Iraq e Giordania. Un vuoto subito riempito dai militari siriani e russi, in una staffetta di fatto che ha tagliato fuori le truppe di Ankara. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Ondus), fino a stasera l’esercito di Damasco non era ancora entrato a Kobane.
Ma il passaggio di consegne sarebbe ormai questione di ore.

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Nell’area al centro dell’operazione turca gli scontri proseguono invece senza sosta. Raid d’artiglieria hanno preso di mira per diverse ore Tal Abyad e l’offensiva prosegue anche a Ras al Ayn.

I curdi continuano a rispondere con raffiche di mortai verso le zone di confine, dove oggi sono morti altri due civili più a est, nella provincia di Mardin, portando a 20 il totale delle vittime in Turchia. Sul fronte curdo i morti tra la popolazione sono invece almeno 90, tra cui 21 minori, secondo l’ultimo bollettino dell’Ondus. Per Ankara, sono oltre 600 i combattenti nemici uccisi. Una cifra che l’Ondus fissa invece a 158, a fronte di 121 miliziani filo-turchi morti.

Sempre più drammatica è la situazione degli sfollati interni, fuggiti dalle località di frontiera nelle provincie di Hasakah e Raqqa verso le zone interne. Secondo l’amministrazione del Rojava, i profughi sono 275 mila, tra cui 70 mila minori, come peraltro già denunciato ieri dall’Unicef. Ad aggravare la situazione è anche la fuga delle ong internazionali, tra cui Medici Senza Frontiere, il cui personale sta lasciando in queste ore il nord-est della Siria, soprattutto per il timore di restare intrappolato dopo l’arrivo delle forze di Assad, che ritengono la presenza di organizzazioni straniere nell’area, anche umanitarie, una forma di occupazione.

A Manbij nella base Usa ora ci sono i russi

Dove c’erano gli americani, i russi. E non per modo di dire, ma proprio fisicamente. Plastica rappresentazione di come Mosca stia prendendo il posto degli Usa nel ruolo di potenza egemone in Medio Oriente. A Manbij, in Siria, nella base militare occupata sino a ieri dalle forze statunitensi sono infatti arrivati gli uomini della polizia militare russa – ai quali non è parso vero di aver ‘spodestato’ i rivali di sempre. “Buongiorno a tutti da Manbij, mi trovo nella base americana dove ancora ieri mattina c’erano loro e stamattina ci siamo già noi”. Il video-selfie è spietato e sfida le ultime leggi che vieterebbero ai militari russi di postare sui social network. Ma forse è l’eccezione che conferma la regola. In primo piano il volto sorridente di russo, occhi chiari e fattezze caucasiche, per quanto l’accento non faccia pensare alla Cecenia (ovvero da dove proviene la maggior parte degli effettivi della polizia militare). Sullo sfondo, la base militare Usa. Vuota. “Ora vediamo come hanno vissuto, di che cosa si sono occupati, che razza di posto è questo” continua il militare nel video.
Mosca, per evitare quello scontro fra Damasco ed Ankara considerato come “inaccettabile”, qualche scarpone sul terreno lo ha dunque messo, usando i suoi poliziotti militari – non truppe regolari dunque – come simbolo. Che ci provino, mercenari e soldati, a prendere di mira la bandiera russa. Gli Usa, peraltro, ai russi hanno persino spianato la strada pur di levarsi di torno. Come ha confidato un alto funzionario del Pentagono a Newsweek, il personale americano, “essendo stato nella zona più a lungo ha aiutato le forze russe ad orientarsi rapidamente in aree precedentemente non sicure”. “Essenzialmente – ha aggiunto – si tratta di un passaggio di consegne”. E lo zar, naturalmente, ringrazia.

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