Racconti da Idlib tra i dannati, anche cristiani, del Coronavirus

Padre Hanna Jallouf, francescano della Custodia di Terra Santa e parroco latino di Knaye, nella Valle dell’Oronte, con 300 famiglie cristiane locali si prepara a celebrare la Pasqua.

Sfollati a Idlib
Sfollati a Idlib
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

7 Aprile 2020 - 15.02


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Idlib, i dannati del Coronavirus. Idlib, racconti dall’inferno, come quello che fa a Vatican news padre Hanna Jallouf, francescano della Custodia di Terra Santa e parroco latino di Knaye, nella Valle dell’Oronte, che con le 300 famiglie cristiane locali si prepara a celebrare la Pasqua.
Una epidemidia di Codiv-19, dice, “sarebbe un massacro, perché non abbiamo ospedali specializzati per affrontare problemi di questo tipo”, col “rischio di una epidemia peggiore di quella che sta toccando l’Europa e il resto del mondo”.

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 “Noi – dice – siamo nella zona del nord ovest di Idlib, a 6 km dalla frontiera turca. In tre villaggi cristiani, Knaye, Yakubiyah e Gidaideh, ci sono quasi 300 famiglie, circa 600 persone. La zona è controllata da una formazione jihadista ribelle di Al Qaeda, la Jabhat al-Nusra, alleata della Turchia. La gente è stremata da tanti anni di guerra. È ancora più povera, perché qui ci manca tutto. Manca l’elettricità, manca l’acqua, il costo della vita è molto alto, qualche pezzo di pane riusciamo a prenderlo quasi a un dollaro, poi ci sono da acquistare il gasolio, la benzina. E non c’è lavoro. Inoltre nella nostra zona, dove c’erano 12 milioni di alberi da frutta e ulivi, ne sono stati tagliati 4 milioni, destinati alla Turchia o venduti come legna da ardere.  Nella nostra zona non abbiamo alcun mezzo per provvedere nel caso in cui qualcuno venisse contagiato. Sarebbe veramente un massacro se arrivasse il Covid-19 anche qui. Perché non abbiamo ospedali specializzati per affrontare problemi di questo tipo. Allora c’è davvero il rischio di una epidemia peggiore di quella che sta toccando l’Europa e il resto del mondo.

I dannati del Coronavirus

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Testimonianze dall’inferno. “Volete che ci laviamo le mani?”, chiede Fadi Meshar, direttore di Idlib della Maram Foundation for Relief and Development: “Alcuni non riescono a lavare i loro figli per una settimana: vivono all’aperto”.

L’Organizzazione mondiale per la Sanità ripete: testare, testare, testare. Ma quella stessa Organizzazione ha spedito un mese fa i kit per il test al regime di Damasco, a Bashar al- Assad e al suo governo, mentre a Idlib, terra ribelle e contesa e bombardata dal regime assieme ai suoi alleati russi, l’Oms sta mandando i tamponi in questi giorni. Il nord della Siria “non è uno stato”, la priorità dei test vanno alle entità statali, anche a quelle che bombardano pezzi del proprio stato.

“E’ comprensibile”, dice un medico al New York Times, e questa è forse la considerazione più straziante di tutte. Le fonti citate dal quotidiano dicono: il virus c’è sicuramente, ma non abbiamo modo di mostrarlo né di quantificarlo. A Idlib : si muore e basta. Ci sono tre milioni di persone in questa provincia che combatte contro il regime dal 2012, e i continui bombardamenti hanno costretto molti a muoversi. Secondo le Nazioni Unite, un terzo di queste persone vive in campi o tende, il resto vive per strada, o in palazzi diroccati con altre famiglie, dove si trova un tetto, quando lo si trova. E gli ospedali? Sempre secondo le Nazioni Unite, da dicembre a oggi i bombardamenti siriano-russi hanno distrutto o reso in parte inagibili 84 strutture ospedaliere – molti medici e infermieri sono morti.

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All’Idlib Central Hospital c’è un laboratorio che sarebbe pronto ad analizzare i tamponi, è stato creato nelle ultime settimane per far fronte all’emergenza del virus: ma non ci sono i tamponi (la prima fornitura di guanti e mascherine è arrivata da qualche giorno). E l’isolamento? I medici guardano sconsolati i giornalisti del New York Times: dove pensate che si possa fare una quarantena in un posto come questo? Una volta che sarà possibile stabilire chi è positivo, comunque sarà difficile garantire l’isolamento necessario. Così la stima è questa: possono morire da 100 a 200 mila persone, 10 mila avranno bisogno di respiratori, per ora ce ne sono 153.

Emergenza acqua

A rendere ancor più drammatica la situazione, è il proseguo dell’emergenza acqua nel nord est della Siria, a seguito del controllo delle stazioni di pompaggio da parte della Turchia. L’ultimo organismo a denunciare la situazione è stato l’ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha)). 

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In una nota si legge che c’è grande preoccupazione per il proseguire delle interruzioni delle forniture idriche. Soprattutto in relazione all’emergenza coronavirus. Il riferimento è in particolare ad Alouk, che rifornisce tutta la provincia di Hasaka. A proposito, si chiede di non politicizzare la risorsa e di renderla disponibile, nel rispetto del diritto umanitario internazionale. Infine, si ricorda la richiesta di tregua umanitaria del segretario generale delle Nazioni Unite, necessaria per contrastare il Covid-19. Ankara, infatti, sta cercando di cacciare i curdi dall’area, usando l’acqua come arma. Il rischio, però, è che – con l’arrivo della pandemia – la situazione diventi incontrollabile. Soprattutto nei campi profughi e nelle prigioni delle Sdf.

Nei campi nella regione di Idlib, ancora controllato dalle forze ostili al regime di Damasco, sono arrivati dallo scorso dicembre circa 950 mila persone, in fuga dall’offensiva delle truppe lealiste spalleggiate dall’aviazione di Mosca. Donne e bambini compongono l’81% dell’intera comunità di sfollati siriani a Idlib.

I bombardamenti hanno colpito molte strutture sanitarie della regione, ospedali, cliniche, annientando una possibile risposta al Coronavirus.  

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“Centinaia di migliaia di persone vivono in tende sovraffollate”, spiegano i Caschi bianchi, il corpo civile di intervento e soccorso che opera nelle zone non sotto il controllo di Damasco. I Caschi bianchi hanno lavorato con altre organizzazioni per preparare 60 posti letto nell’eventualità di una crisi sanitaria, e sono state fatte alcune operazioni di sterilizzazione di spazi comuni nella provincia di Aleppo, ma le strutture mediche dell’area sono al collasso, meno della metà degli ospedali è ancora attiva. “Più di 3,5 milioni di civili sono intrappolati nel nord ovest della Siria con ospedali bombardati e servizi sanitari molto limitati. Una epidemia di coronavirus è solo questione di tempo e il numero di persone che potrebbero essere colpite potrebbe essere devastante”, scrive Laila Kiki direttore di Syria Campaign.

Janine Janine Lietmeyer, Team Leader Middle East del Malteser International, l’agenzia di soccorso internazionale dell’Ordine di Malta, sottolinea che “la situazione nel Nord-Ovest della Siria era già molto fragile prima dell’epidemia di Coronavirus, ora con quasi un milione di nuovi sfollati interni in movimento, una rapida diffusione del virus provocherebbe conseguenze oltre ogni immaginazione. Il sistema sanitario già ora non è in grado di affrontare le conseguenze legate alla guerra”.

“Quante madri dovranno ancora tenere in braccio il loro bambino mentre le bombe cadono ovunque? Quanti padri dovranno rassicurare i loro figli e farli ridere, mentre gli spari esplodono tutto intorno?” si chiede Cristian Reynders, coordinatore delle operazioni di Medici Senza Frontiere per la Siria nord-occidentale. “C’è una cosa in cui le persone in Idlib continuano a sperare: preservare la vita. Ma le loro speranze si abbassano ogni minuto, di giorno in giorno”. Ancor più ora, quando al flagello della guerra si aggiunge quello del Coronavirus.

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Annota su Internazionale, Pierre Haski, direttore di France Inter: Sono i dannati del coronavirus: gli sfollati del Nord della Siria, i rifugiati ammassati nella terra di nessuno tra la Turchia e la Grecia, gli abitanti intrappolati della Striscia di Gaza, i profughi delle guerre in Afghanistan, Sud Sudan e Yemen, i rohingya perseguitati in quella che fu la Birmania… Queste popolazioni hanno in comune il fatto di essere totalmente inermi davanti alla minaccia del coronavirus, precarie tra i precari su scala mondiale, vittime ieri dei disastri politici nei loro paesi e oggi della pandemia che non risparmia nessun paese e nessuna popolazione. Le organizzazioni umanitarie riferiscono di una catastrofe a cui tentano di opporsi con mezzi irrisori, perché l’attenzione del mondo è rivolta altrove e perché le condizioni di intervento sono particolarmente difficili”. 

“La regione di Idlib, nel nord della Siria – prosegue Haski – offre un esempio tragico di cosa sta accadendo. Durante gli ultimi mesi più di un milione di civili è fuggito dall’offensiva dell’esercito di Bashar al-Assad, che col supporto dell’aviazione russa vorrebbe riprendere il controllo dell’ultima regione che ancora gli sfugge. Durante l’offensiva gli ospedali sono stati presi di mira dai bombardieri russi.  Secondo il dottor Raphaël Pitti, medico francese che opera nella zona, il coronavirus è ormai arrivato a Idlib. I segnali sono inequivocabili, anche se non esiste ancora la possibilità di effettuare test. ‘La catastrofe è già qui’, spiega Pitti. Il contesto è disastroso: precarietà, promiscuità nei campi e il 54 per cento dei residenti affetto da malnutrizione. Cosa possono fare le organizzazioni umanitarie? Il dottor Pitti conferma che la Francia ha sbloccato alcuni fondi per fornire test sul coronavirus. In un secondo momento le ong presenti sul posto prevedono la creazione di un campo speciale per le persone contagiate. Ma è una corsa contro il tempo, e sappiamo che il virus va veloce. Il Covid-19 non fa distinzione tra i cittadini dei paesi ricchi e gli sfollati in un paese in guerra. Per questi ultimi, però, aumenta la sensazione di essere doppiamente vittime”

E’ così. Doppiamente vittime. Perché tra i dannati del Coronavirus non mancano solo il gel, l’acqua, i tamponi, le strutture mediche di terapia intensiva. A mancare è anche un bene immateriale, invisibile, ma che dà la forza per resistere. Quel bene è la speranza. Che, come l’umanità, è morta a Idlib.

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