Sassoon: "Nulla sarà come prima e l'Europa è al bivio tra più integrazione o disintegrazione"

Parla uno dei più autorevoli storici inglesi e della sinistra europea: "La sinistra inizi a reinventarsi per far fronte alle ricadute sociali della crisi economica"

Donald Sassoon
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

12 Aprile 2020 - 10.01


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“Se è vero che nulla sarà più come prima dopo il Coronavirus, allora la sinistra inizi da sé a reinventarsi, perché per far fronte ad una recessione economica che porterà con sé devastanti ricadute sociali, non basterà più l’armamentario ideologico del secolo scorso”. A sostenerlo, in questa intervista a Globalist, è uno dei più autorevoli storici inglesi e della sinistra europea: il professor Donald Sassoon, allievo di Eric Hobsbawm, ordinario di Storia europea comparata presso il Queen Mary College di Londra, autore di numerosi libri di successo, tra i quali ricordiamo “Quo Vadis Europa?” (Ibs); “La Cultura degli Europei dal 1800 ad oggi” (Rizzoli); “Intervista immaginaria con Karl Marx” (Feltrinelli); “Social Democracy at the Hearth of Europe”.

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Il suo ultimo saggio, da poco nelle librerie, ha un titolo intrigante, e uno sviluppo che ci riporta anche all’Europa e alle difficoltà della sinistra nell’essere all’altezza delle sfide del Terzo Millennio: “Sintomi morbosi. Nella nostra storia di ieri i segnali della crisi di oggi” (Garzanti).

Professor Sassoon, vista da Londra, che immagine sta offrendo di sé l’Europa, ai tempi del Coronavirus ?

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“L’immagine che credo abbiano gli stessi cittadini dell’Unione: una incapacità totale di darsi un fronte comune. Da questo punto di vista, lo scontro in atto sugli Eurobond ne è l’ennesima conferma. Non è un problema di solidarietà, che è una categoria dello spirito più che della politica, ma di sussidiarietà, che porta con sé importanti e radicali ricadute su più terreni, a cominciare da quello della fiscalità. Troppe scelte di fondo sono state rinviate. Ora il tempo dei rinvii sta scadendo. E l’Europa si trova ad un bivio epocale: più integrazione o disintegrazione. Tertium non datur. Comunque   questa non è una critica che la Gran Bretagna può fare all’Europa, perché sarebbe il colmo della faccia tosta criticare l’Europa dopo averla abbandonata”.

In questo contesto, qual è il collante ideologico degli euroscettici?

R)”Il loro collante ideologico, il punto fondamentale della loro narrazione politica, quello che fa più presa, è considerare l’integrazione europea la causa di vari mali. Tra questi mali si annovera la politica di austerità così come la politica sull’immigrazione. Occorre aggiungere che questi partiti euroscettici sono fortemente nazionalisti e, allo stesso tempo, si aggregano ad altre forze nazionaliste in altri Paesi. Da storico vorrei fare un’annotazione che può non piacere alla sinistra ma che non può essere disconosciuta…”.

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Qual è questa amara pillola?

R)”Alle origini dell’integrazione europea, era la sinistra ad essere euroscettica. Il Partito comunista italiano, ma anche per altri versi lo stesso Psi, come il Partito comunista francese, come la socialdemocrazia tedesca, come i laburisti britannici: questo euroscetticismo si basava non sul nazionalismo ma sull’idea che le riforme che questi partiti volevano condurre sarebbero state ostacolate dai Trattati europei. Oggi, le posizioni si sono, più o meno, capovolte. Sono ormai pochi quelli di sinistra che si dicono e propongono come euroscettici, mentre l’euroscetticismo è molto più diffuso nelle destre. L’amara realtà  è  che sia i conservatori tradizionali, sia la sinistra tradizionale, sono in crisi e incapaci di portare avanti un discorso politico all’altezza della nuova situazione. Per questo che ho titolato il mio nuovo libro ‘Sintomi morbosi’, riferendomi ad una famosa frase, del1930, di Antonio Gramsci, il fondatore de l’Unità, in cui dice che il vecchio mondo è sparito e non si scorge quello nuovo. E in questo interregno si trovano dei fenomeni morbosi. E guardandoci intorno, possiamo dare a questi fenomeni dei nomi…

Quali?

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“Per citarne alcuni: Donald Trump, Viktor Orban, Jair Bolsonaro, Jaroslaw Kaczynski, Recep Tayyp Erdogan e anche, naturalmente, Matteo Salvini. A questi nomi bisogna poi aggiungere, quanto a fenomeni morbosi, la crescita di partiti xenofobi non solo in Italia, in Francia e in Austria, ma anche in quella Germania che sembrava vaccinata da questi fenomeni, e perfino nei Paesi scandinavi, a lungo visti come modello virtuoso di un welfare avanzato”.

Professor Sassoon, Lei vede oggi qualche efficace anticorpo capace di combattere e debellare questi “sintomi morbosi”?

”In questo momento, sinceramente no. Ma fa parte dell’essere in crisi il non sapere come uscirne. E’ come essere in mezzo a un guado, cercando di traversare un fiume in piena: non scorgiamo più la vecchia riva ma non riusciamo neppure ancora a intravvedere la nuova sponda”.

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In Italia, come in Europa, c’è chi a sinistra guarda al futuro , al post Coronavirus, pensando che l’ancoraggio è il ritorno al pensiero socialista e socialdemocratico che ha caratterizzato la stagione del Welfare.

”E’ una illusione. Oggi più che mai  la sinistra non può pensare di ritrovare una sua centralità, di azione e di pensiero,  cercando  di difendere  quello che i ceti popolari hanno ottenuto negli anni di crescita del Welfare State. E’ una nobile battaglia. Ma è una battaglia difensiva. E lo è tanto più in una epoca in cui lo Stato-nazione è sempre meno forte, e l’orizzonte da praticare non può essere quello di un ‘neo keynesismo’. Si discute molto in Europa sulla necessità di superare l’iper austerità e i vincoli di bilancio. Una necessità che l’emergenza sanitaria e la crisi economica che porta con sé, rende ancor più impellente. Ma non è riproponendo un vecchio statalismo che la sinistra potrà togliersi di dosso la percezione che di essa hanno settori sociali sempre più vasti, e in particolare le giovani generazioni”.

Qual è questa percezione, professor Sassoon?

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”Quella di essere una forza conservatrice. Nel secolo scorso, la sinistra, nelle sue varie articolazioni, veniva percepita come forza di cambiamento, d’innovazione. Ora non più. Ora chi pensa al cambiamento viene attratto dalle sirene populiste, spesso di estrema destra”.

Il termine “populista” viene spesso utilizzato per definire, in negativo, leader di destra e non solo. Ma non ritiene che sia un termine troppo semplificatorio?

Semplificatorio e fuorviante. Tutti i partiti o leader devono essere ‘populisti’ o sedicenti tali, nel senso che devono giustificare ogni loro scelta come qualcosa che tende a unire il popolo. Ma questo assunto dura un minuto, perché governare significa scegliere e indirizzare una politica verso segmenti sociali di riferimento e dunque contro altri (questo ad esempio è stato il thatcherismo). Il punto è un altro. Il punto che non oggi, ma da trenta-quarantanni, la resistenza alla globalizzazione è stata condotta in nome della “nazione”. Mentre il capitalismo si è sempre più internazionalizzato, globalizzato, la resistenza ha sempre più assunto la dimensione, politica e culturale, nazionale, rimodulando in questa chiave anche parole d’ordine e suggestioni propri di un vecchio “internazionalismo proletario”. Ecco allora che a “proletari di tutto il mondo unitevi” si sostituisce “proletari (operai) americani, o inglesi, o italiani… unitevi”. Unitevi contro chi vi minaccia dall’esterno (i migranti e quant’altro). Un pensiero progressista all’altezza dei tempi non può prescindere da una rivisitazione critica della sua subalternità ad una globalizzazione guidata dalla finanza piuttosto che dalla politica, una globalizzazione che, per come è stata orientata, a aumentato le fagli sociali anche all’interno del mondo industrializzato, oltre che tendere a una omologazione culturale che cancella identità comunitarie. Ecco, se è vero che dopo il Coronavirus, niente sarà più come prima, la sinistra cominci da se stessa. E dalla consapevolezza che una credibile alternativa al neoliberismo e alla finanziarizzazione dell’economia non può essere l’iperstatalismo nazionale. In parole povere, non si tratta di evocare una nuova stagione di nazionalizzazioni ma di pensare a forme di controllo sociale su beni comuni che non possono essere appaltati a un mercato senza regole: penso alla salute, all’acqua, all’istruzione..”.

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Da Bruxelles a Londra.  Dopo essere stato per giorni in terapia intensiva, oggi il  primo ministro Boris Johnson è stato dimesso dall’ospedale. Boris Johnson è stato dimesso dall’ospedale. Lo ha annunciato un portavoce di Downing Street specificando che “continuerà la ripresa dalla malattia a Chequers”, la residenza estiva del premier britannico. “Su consiglio del suo team medico – ha detto ancora il portavoce – non ritornerà immediatamente al lavoro” Al di là dell’aspetto umano, quale ricadute politiche e simboliche può avere questa vicenda?

Se le cose si risolveranno per il meglio e in tempi ragionevolmente rapidi, si tratterà di una crisi politico-istituzionale passeggera e Johnson tornerà  in carica con il prestigio di chi ha condiviso con il suo popolo le stesse sorti. E’ un po’ come se Winston Churchill fosse andato di persona in Normandia per lo sbarco e si fosse ferito a una gamba. Questa, peraltro, è una immagine che a Johnson piace sicuramente perché lui è un grande ammiratore di Churchill e ne ha anche scritto un libro agiografico. L’altra cosa, anch’essa fortemente simbolica, è che questo virus non attacca solo i poveri, come fu, una volta, la tubercolosi, ma attacca anche i potenti, i ricchi e dunque è un virus che non fa discriminanti sociali. E ciò finisce per rafforzare l’immagine che tutto un popolo, proprio perché il Covid-19, può attaccare tutti, ‘perfino” il figlio della regina, è coinvolto in questa ‘guerra’. Come l’inquilino, malato, di Downing Street. Johnson ha dichiarato che è ‘ difficile trovare le parole per esprimere il mio debito che provo nei confronti del Sistema sanitario nazionale (Nhs) per avermi salvato la vita’. Non sono parole di circostanza, il ringraziamento dovuto a chi ti ha salvato la vita. E’ anche il riconoscimento che il sistema sanitario è un bene comune che va difeso e rafforzato. Detto da un conservatore è qualcosa di politicamente rilevante, Avrà pure cavalcato la Brexit  per entrare a Downing Strett, ma Johnson non è un simil Trump”.

Il Labour ha scelto il suo nuovo leader, il cinquantasettenne Keir Starmer. Qual è il segno prevalente di questa elezione?

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“La sconfitta del ‘corbynismo’. Il Labour ha eletto ancora una volta un leader centrista che, però, al contrario di Tony Blair ha poco carisma. Starmer è indubbiamente intelligente, ma si trova in una situazione difficilissima, perché; in un momento di emergenza sanitaria nazionale, non può attaccare il governo, almeno per il momento. E quindi avrà bisogno non solo dell’intelligenza ma anche di una arguzia politica poco comune e di un alto senso tattico”.

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