di Antonio Salvati
Nel Messaggio pasquale Urbi et Orbi il Papa ha chiesto, in considerazione delle circostanze dell’emergenza covid-19, di allentare le sanzioni internazionali che inibiscono la possibilità dei Paesi che ne sono destinatari di fornire adeguato sostegno ai propri cittadini “e si mettano in condizione tutti gli Stati di fare fronte alle maggiori necessità del momento, riducendo, se non addirittura condonando, il debito che grava sui bilanci di quelli più poveri”. Un appello non passato inosservato, soprattutto dopo il Rapporto del 30 marzo scorso della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) che prefigurava quel che potrà accadere alle economie emergenti.
Alcune di esse, quelle più dinamiche, hanno da tempo puntato sulla crescita guidata dalle esportazioni, ora a rischio crollo per la diffusa contrazione dell’economia globale. Si preannunciano tempi duri per i paesi esportatori di risorse naturali. Questi sviluppi si vedono già nei tassi elevati del debito pubblico dei paesi emergenti. Per molti governi – avverte il Nobel per l’economia Joseph Stiglitz – sarà impossibile rinnovare i debiti in scadenza quest’anno a condizioni ragionevoli. Per di più, i paesi in via di sviluppo hanno meno alternative su come affrontare la pandemia (si consideri che gli Stati Uniti per la pandemia hanno varato un piano da duemila miliardi di dollari).
Emblematico il caso della Nigeria – il cui gettito fiscale proviene in larga parte dal petrolio – che ha visto le sue entrate fiscali scendere da 24 miliardi di dollari nel 2013 a 15 miliardi nel 2016 a causa del crollo del prezzo del greggio che nel 2014 si è ridotto del 60%, passando da 114 a 45 dollari al barile. Il Ciad, anch’esso produttore di petrolio, ha dimezzato il proprio gettito fiscale passato da 2,2 miliardi di dollari nel 2013 a 1,2 miliardi nel 2016. Una serie di concomitanze internazionali fra il 2014 e il 2016 han fatto crollare non solo il prezzo del greggio, ma di molte altre materie prime gettando nella disperazione anche Paesi come Mozambico, Zimbabwe, Niger e vari altri economicamente dipendenti, appunto, dalle materie prime di cui sono ricchi. La frenata nelle entrate ha costretto molti governi a ridurre le spese, e considerata già la loro inadeguatezza rispetto ai bisogni del Paese senza alcuna proporzionalità.
Francesco Gesualdi – da anni esperto di questioni del debito del Terzo Mondo e insieme al fratello Michele allievo di don Lorenzo Milani – ha più volte denunciato che i cordoni dei Paesi ricchi si erano notevolmente ristretti e di denaro sotto forma di donazioni ne sono arrivati via via meno: prima del 2014 gli aiuti pubblici ai Paesi più poveri viaggiavano su una media di 24 miliardi di dollari all’anno, nel 2017 li troviamo a 18 miliardi di dollari, una riduzione del 25%. Il guaio per Gesualdi «è stato che i governi occidentali si sono rivelati anche meno disponibili a concedere prestiti ai Paesi poveri, ai quali non è rimasta altra scelta che bussare alla porta della Cina e di grandi privati». Alcuni analisti collocano i prestiti concessi dalla Cina (che non brilla per trasparenza) ai Paesi poveri attorno a 200 miliardi di dollari, circa un quarto dell’intero debito che grava sulle loro spalle. La Cina, spiega Gesualdi, concede prestiti attraverso le sue banche di Stato, in genere ai tassi di mercato e in cambio di importanti contropartite commerciali. A condizioni simili a quelle dei soggetti privati, un mondo decisamente variegato formato non solo da banche, ma anche da fondi di investimento e perfino da imprese commerciali.
Il 26 marzo scorso i leader del G20 si sono impegnati a “fare tutto il necessario” per ridurre il danno economico delle economie emergenti. Per Stiglitz si possono fare subito diverse cose. Innanzitutto i paesi creditori annuncino una sospensione del debito delle economie in via di sviluppo. La sospensione – sottolinea Stiglitz – è importante sia a livello internazionale sia nazionale: «molti paesi non possono far fronte ai propri debiti: in assenza di una sospensione globale del rimborso del debito, il rischio è quello di una serie di insolvenze a catena. In molte economie in via di sviluppo ed emergenti, la scelta dei governi è tra pagare i creditori stranieri o lasciar morire i cittadini. Quindi la vera scelta per la comunità internazionale è tra una sospensione ordinata e una sospensione disordinata. Quest’ultima, inevitabilmente, si tradurrebbe in turbolenze per l’economia globale». È evidente che sarebbe ancora meglio se avessimo un meccanismo istituzionalizzato per la ristrutturazione del debito pubblico. La ristrutturazione del debito dovrà essere una priorità quando ci sarà la resa dei conti dopo la pandemia.
John Donne in un celebre sermone disse: «Nessun uomo è un’isola» (citato da Ernest Hemingway e da cui trae ispirazione un omonimo libro di Thomas Merton). Vale per qualsiasi paese, come la crisi del covid-19 ha inequivocabilmente dimostrato. In questa pandemia, troppi paesi si sono mossi in ordine sparso, perdendo tempo prezioso per salvare vittime. In tal senso, ancora una volta le parole del Papa si sono rivelate opportune e preziose, invitando a mettersi insieme per affrontare una questione grave, lasciando da parte «l’egoismo degli interessi particolari e la tentazione di un ritorno al passato». «Non è questo il tempo degli egoismi» e occorre «dare ulteriore prova di solidarietà», riconoscendosi nella comune umanità.
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