Libia, l'inferno dei lager fa più paura del virus. E l'Italia si barcamena

Non ci sono decreti che possono fermare la disperata determinazione di chi prova a fuggire dall’inferno libico, dai lager dove la tortura e gli abusi sessuali sono il pane quotidiano.

Guerra civile in LIbia
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

18 Aprile 2020 - 14.22


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Non ci sono decreti che possono fermare la disperata determinazione di chi prova a fuggire dall’inferno libico, dai lager dove la tortura e gli abusi sessuali sono il pane quotidiano. “La Libia fa più paura del Covid” e da quando è scoppiata la pandemia, “è persino peggio”.
Per i 600 mila migranti bloccati in Libia e in primis i 48mila richiedenti asilo registrati dall’Unhcr, forse non ci sono modi migliori per spiegare come la conseguenza principale dell’emergenza sanitaria è che i canali di uscita legali dal Paese, già compromessi dalla guerra, si sono ormai interrotti. 

“Ho chiamato l’ufficio dell’Oim per essere evacuato ma non mi hanno risposto” racconta un ragazzo somalo dal centro di detenzione di Zawiyah e la sua è una delle tante testimonianze che Michelangelo Severgnini, videomaker e autore del progetto Exodus Voci dalla Libia”, è riuscito a raccogliere in questi giorni. Da anni attraverso il metodo della geolocalizzazione setaccia il web nel tentativo di far emergere le voci di chi si aggancia ogni volta ci sia un WiFi, dentro e fuori i centri di detenzione. Questa volta, grazie all’uso delle mascherine, strategiche nel proteggere l’identità dei migranti, possiamo vedere anche i loro volti. 

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Testimonianze dall’inferno libico

Il ragazzo somalo è uno dei tanti che aspettano di essere evacuati grazie ai programmi coordinati dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) presso il Gathering and Departure Facility di Tripoli. A causa dell’inasprirsi dei combattimenti però, lo scorso il 30 gennaio l’Unhcr ha deciso di abbandonare il centro perché la prossimità con i luoghi di esercitazione delle milizie avrebbe potuto facilmente trasformarlo in un obiettivo militare. Là dove non è arrivata la guerra però è arrivato il Coronavirus. In seguito alle restrizioni ai viaggi aerei internazionali e alla decisione da parte di molti Paesi africani di limitare gli ingressi, il 18 marzo Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) e Unhcr hanno sospeso l’intero programma di reinsediamento in paesi terzi e quello dei rimpatri volontari che dal 2017 ad oggi aveva permesso a 14700 migranti di tornare nel proprio Paese d’origine.

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Con il lockdown però, molti migranti hanno preferito tornare nei centri di detenzione ufficiali perché “fuori è persino peggio”, “il rischio di estorsioni e crimini da parte delle milizie è più alto di prima”. “Se hai la pelle scura meglio non farti vedere in giro” spiega una ragazza della Nigeria mentre mostra con il telefonino la strada deserta che circonda la casa della famiglia libica presso la quale vive come schiava. «In Nigeria come in altri Paesi dell’Africa subsahariana ci sono molti più contagi che qui in Libia per questo i libici sono convinti che il virus lo portiamo noi, ci trattano come untori”.

L’allarme dell’Oim

L’Oim ha espresso  grave preoccupazione per la sorte di centinaia di migranti che quest’anno la Guardia Costiera libica ha riportato a terra e dei quali non si hanno più notizie.

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Secondo recenti dati governativi, circa 1.500 persone sono attualmente detenute in 11 centri della “Direzione per la lotta contro l’immigrazione illegale” libico (Dcim) alcuni da molti anni. Si tratta del numero più basso registrato da ottobre 2019. Tuttavia, nel 2020 almeno 3.200 uomini, donne e bambini a bordo di imbarcazioni dirette in Europa sono stati soccorsi o intercettati dalla guardia costiera libica e riportati indietro, in un Paese in cui ancora si combatte. La maggior parte finisce in strutture adibite ad attività investigative o in centri di detenzione non ufficiali. L’Oim non ha accesso a questi centri. Nonostante le molteplici richieste, le autorità libiche non hanno fornito alcuna informazione su dove si trovino con esattezza queste persone o perché siano state portate in strutture di detenzione non ufficiali. “La mancanza di chiarezza sulla sorte di queste persone scomparse è una delle preoccupazioni più gravi”, sottolinea  una portavoce dell’Oim Safa Msehli. “Siamo a conoscenza di molte testimonianze di abusi che si verificano all’interno dei sistemi di detenzione formali e informali in Libia.

Numerosi racconti, considerati credibili, da parte di comunità di migranti in contatto con l’Oim sostengono che i detenuti vengono consegnati ai trafficanti e torturati nel tentativo di estorcere denaro alle loro famiglie, abusi che sono stati ampiamente documentati in passato dai Media e dalle agenzie dell’Onu 

L’Oim  chiede al governo libico di chiarire che fine abbiano fatto tutti coloro di cui non si ha più notizie e di porre fine alla detenzione arbitraria. Lo smantellamento di questo sistema deve essere una priorità così come è necessario stabilire alternative che garantiscano minimi standard di sicurezza per i migranti. Solo nell’ultima settimana, almeno 800 persone sono partite dalla Libia nel tentativo di raggiungere l’Europa. Quasi 400 sono state riportate in Libia e, dopo operazioni di sbarco ritardate a lungo a cause della situazione di scarsa sicurezza a terra, sono state poi mandate in detenzione. 

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Almeno 200 di loro sono finiti in centri non ufficiali e risultano non più rintracciabili. Molti di coloro che hanno raggiunto le acque internazionali e la zona di ricerca e soccorso maltese sono rimasti bloccati in mare su imbarcazioni fragili e poco sicure per giorni, senza essere soccorsi. E’ notizia confermata che almeno 12 persone sono morte o disperse in mare negli scorsi giorni.

L’Oim è allarmata dal deterioramento della situazione umanitaria in Libia e ribadisce che è inaccettabile che le persone soccorse in mare vengano riportate in un contesto in cui si combatte e in cui diventano vittime di abusi e di traffici.

L’Organizzazione ribadisce inoltre il suo appello all’Unione Europea “affinché si stabilisca con urgenza un meccanismo di sbarco chiaro e rapido per porre fine al ritorno coatto dei migranti in Libia. Ricordiamo agli Stati che salvare vite umane è la priorità numero uno e che occorre sempre rispondere alle richieste di soccorso, così come stabilito dal diritto internazionale. Il Covid-19 non deve essere una scusa per non ottemperare a diritti internazionali duramente conquistati e a quegli obblighi che gli Stati hanno nei confronti delle persone vulnerabili”.

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Il ricatto di Ankara

Intanto la guerra in Libia continua. Sul campo si registrano successi militari da parte delle forze fedeli al Governo di accordo nazionale (Gna) del primo ministro Fayez al-Sarraj. Successi dovuti soprattutto al sostegno, diretto e attraverso miliziani reclutati in Siria, offerto a Sarraj dal “Gendarme di Ankara”, il presidente Recep Tayyp Erdogan. E per l’Italia questa non è una buona notizia.

“Ora che la Turchia ha preso il controllo della costa potrà minacciarci con ondate di migranti come ha fatto mesi fa con la Grecia”, dice a Tempi Gianandrea Gaiani, direttore di AnalisiDifesa. “Il fatto che il governo di Tripoli abbia riconquistato le coste davanti all’Italia è una pessima notizia per noi – argomenta Gaiani – . È un fatto che Haftar non le abbia mai utilizzate per spedirci migliaia di immigrati clandestini. Salvo rare eccezioni, non ha mai sfruttato il traffico di esseri umani. La stessa cosa non si può dire della Turchia, che ha sempre ricattato l’Europa con i migranti. L’ha fatto recentemente con la Grecia e d’ora in avanti potrebbe ricattare anche noi, visto il peso diplomatico e militare che si è guadagnato nel governo di Tripoli”.

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A questo proposito, il presidente della Camera dei rappresentanti libica, Aguila Saleh, si è rivolto al segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, in una missiva riguardo ciò che ha descritto come una “palese interferenza turca negli affari interni libici”. Il portavoce della Camera dei rappresentanti, Abdullah Blayheg, ha dichiarato in un comunicato che la lettera di Saleh ha affrontato “la brutale aggressione turca che le città libiche si trovano ad affrontare dal mare e dall’aria, oltre all’interferenza turca negli affari interni, e all’invio armi e mercenari”. Saleh ha scritto nella missiva, inviata anche agli ambasciatori dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unitem, che “questa interferenza rappresenta una chiara violazione delle leggi e dei costumi internazionali, ignorando le conclusioni della Conferenza di Berlino sulla Libia”. Nella sua lettera a Guterres, Saleh ha sottolineato che la Camera dei rappresentanti esercita i suoi poteri in conformità con la dichiarazione costituzionale e ha il diritto di chiedere a nome del popolo libico di attuare le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sull’embargo sulle armi in Libia e di imporre una tregua completa per combattere il coronavirus e per fermare “l’aggressione turca contro la sovranità e l’integrità territoriale della Libia”.

Il ritorno di “Al Ammu”

La Brigata rivoluzionaria di Sebrata e la 48ma Brigata di fanteria (nota anche come Brigata martire Anas al Dabbashi) sono tornate nella città costiera della Libia occidentale grazie alla vittoria delle forze del Governo di accordo nazionale (Gna) di Tripoli contro l’Esercito nazionale libico (Lna) del generale Khalifa Haftar. Secondo il portale d’informazione Al Marsad considerato vicino alle istanze di Haftar, le due brigate sono ritornate con tutto il loro personale per la prima volta dall’ottobre 2017, quando la Sala operazioni anti-Stato islamico, formazione filo-Haftar, li aveva estromessi dopo un’operazione militare. Sotto il comando del generale Omar Abdul-Jalil nel 2017, la Sala operativa anti-Stato islamico aveva lanciato una feroce guerra contro entrambe le brigate accusate di essere coinvolte nella tratta di esseri umani, nel traffico di carburante e di collusione con le organizzazioni terroriste. Ahmed Omar Abdel Hamid al Dabbashi, soprannominato “Al Ammu” o “Lo zio”, era in cima alla lista degli accusati e dei ricercati. Il 13 aprile 2020, Al Ammu è tornato a Sebrata e secondo “Al Marsad” avrebbe ucciso due dei figli del generale Abdul-Jalil nelle loro case, Ahmed (17 anni) e Ashraf (22 anni), come vendetta. Al Ammu è apparso l’ l’altro  ieri in un video e in una foto diffusa sui social con due militanti della città di Zawiya. Le persone nell’immagine dietro ad Al Ammu sono Mahmoud Bilghaith – un membro della Sala delle operazioni dei rivoluzionari libici guidata da Shabaan Hadiya al Makani – e Ali Mazkour, un altro militante di Zawiya. Un’altra foto diffusa è stata scattata ad al Mutrad dopo aver preso d’assalto il quartier generale e la prigione dell’Intelligence occidentale. Lo “Zio” si era “riciclato” da trafficante di esseri umani a ufficiale della Guardia costiera libica. Ora è tornato alle origini. E il “ricatto dei barconi” passa anche da lui.

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P.S. In tutto questo, la missione Irini raffazzonata da Bruxelles, e con comando italiano, si è rivelata, a 18 giorni dal suo varo, per quello che Globalist aveva anticipato: una indegna  sceneggiata.

 

 

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