Il caldo fermerà il Covid? Gli scienziati di tutto il mondo hanno posizioni contrastanti

Se ne è parlato molto negli scorsi mesi, e non ci sono certezze in merito.

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19 Maggio 2020 - 07.27


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L’arrivo della stagione calda potrebbe frenare l’avanzata del coronavirus come accade per l’influenza? Se ne è parlato molto negli scorsi mesi, e non ci sono certezze in merito. Ma è improbabile che accada e soprattuto non possiamo sapere cosa succederà in autunno: è quello il vero punto di domanda da cui dipenderà il futuro andamento della pandemia. Le condizioni climatiche non avranno un reale impatto sulla diffusione del coronavirus nel mondo: è quanto emerge da un nuovo studio realizzato da ricercatori dell’Università di Princeton, una delle più prestigiose del mondo: le temperature estive nei prossimi mesi non serviranno a contenere l’espansione del contagio. “Prevediamo che il clima più caldo e umido non rallenterà il virus nella fase iniziale della pandemia”, ha spiegato la prima autrice dello studio Rachel Baker, come riporta Afp.

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Il clima, in particolare l’umidità, ha un ruolo nella diffusione di altri coronavirus e dell’influenza. Ma questo fattore secondo i ricercatori della Princeton University è limitato rispetto ad un altro elemento di gran lunga più importante nel contesto dell’attuale pandemia: ovvero che non c’è ancora una immunità collettiva sufficiente contro il Sars-Cov-2. “Il virus si diffonderà velocemente, indipendentemente dalle condizioni climatiche”, secondo la ricercatrice. Altri coronavirus umani come quello alla base del raffreddore dipendono molto da fattori stagionali, culminando durante l’inverno fuori dai Tropici, commenta il professor Bryan Grenfell. “Dunque, come è probabile, se il nuovo coronavirus è a sua volta stagionale possiamo aspettarci che si trasformi in virus invernale a mano mano che diventerà endemico nella popolazione”.

Il team scientifico della Princeton ha creato modelli su diversi scenari per il Sars-Cov-2, partendo da osservazioni dei virus dell’influenza e di 2 coronavirus conosciuti che causano il raffreddore, simulando quello che accadrebbe in diverse regioni del pianeta con diverse temperature e gradi di umidità. “I nostri risultati implicano che le regioni dei Tropici e temperate devono prepararsi a epidemie gravi e che le temperature estive non conterranno la propagazione dell’infezione”. 

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A medesime conclusioni era arrivato uno studio pubblicato sul Canadian Medical Association Journal. La temperatura e la latitudine non sembrano essere associate alla diffusione del nuovo coronavirus. Sono gli interventi di sanità pubblica, il distanziamento sociale, l’isolamento dei positivi a ridurre la crescita dell’epidemia; i ricercatori hanno trovato “poca o nessuna associazione” tra latitudine o temperature e crescita dell’epidemia, e una debole associazione tra umidità e trasmissione ridotta. Dunque il clima più caldo non ha avuto alcun effetto sulla progressione della pandemia.

“Quando si parla di caldo estivo e Coronavirus si fa un po’ di confusione – spiegava qualche giorno fa Vincenzo Bruzzese, Direttore UOC Medicina Interna e Rete Reumatologica Presidio Nuovo Regina Margherita e Direttore Dipartimento delle Specialità Mediche- ASL Roma 1 – . Il caldo, inteso come calore, uccide i virus in generale ad una temperatura intorno ai 90 gradi centigradi. E’ quindi evidente che il caldo estivo non può uccidere il coronavirus o influenzare il suo ciclo vitale”.

Si è anche ipotizzato che il caldo estivo possa influenzare positivamente il contagio perché ci sarebbe un maggior distanziamento sociale. “Questa ipotesi è veramente singolare – spiega il medico – se si pensa che l’estate è il momento in cui c’è più aggregazione, anche se in ambienti esterni. Ciò andrebbe in contraddizione con tutto quello che abbiamo raccomandato e fatto fino ad adesso: distanziamento anche nei luoghi esterni”. Non è nemmeno vero, per nulla, che le goccioline di saliva, meglio conosciute ormai come droplets, con il caldo perderebbero la loro componente acquosa e si “essicherebbero” prima di poter contagiare un individuo, come ipotizzato da qualcuno: “Questa è un’altra ipotesi inverosimile se si pensa a quale velocità viaggiano le goccioline di uno starnuto”. Insomma: il caldo in sè non sarà decisivo. Diverso è se lo si intende come “irradiazione solare”.

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“Non è il caldo che influenza il ciclo vitale del virus – spiega Bruzzese – ma sono i raggi ultravioletti del sole che destabilizzano il virus. Tutti i virus ed in particolare i coronavirus sono sensibili ai raggi UVB del sole. Durante la stagione estiva, in particolare da giugno ad agosto il sole, alla nostra latitudine, splende ed irradia per molte ore la nostra superficie terrestre, distribuendo raggi UVB molto potenti. Questi possono destabilizzare la struttura del coronavirus ed influenzare il suo ciclo vitale, rendendolo meno contagioso e virulento. Ci dobbiamo aspettare quindi, in questi mesi estivi, un calo notevole dei contagi e soprattutto una malattia diversa, meno aggressiva e con meno complicazioni. Sarà inoltre inverosimile, durante il periodo estivo, una seconda ondata di contagio. La speranza è che il coronavirus , come è successo per la SARS, dopo l’estate perda il suo potere di contagiosità e di aggressività; se ciò non dovesse accadere e se dovessero permanere focolai quiescenti in Italia od attivi, soprattutto nell’emisfero australe, allora una seconda ondata è verosimile che avvenga da ottobre in poi, quando l’irradiazione solare diminuisce e con essa l’azione dei raggi UVB”. In ogni caso, raccomanda il professore, “occorre mantenere la massima allerta, anche in questo periodo estivo, ed essere prudenti nello smantellare presidi ed ospedali COVID. In questo momento è un’operazione improvvida che va evitata”.

In conclusione, se è vero che il clima caldo e umido può realisticamente rallentare almeno in parte la diffusione di questo virus, non saranno le alte temperature “da sole” a essere sufficienti per fermarne l’avanzata ed è complesso immaginare scenari realistici per l’autunno. Nessuna certezza. Il coronavirus SarsCoV2 in ogni caso muta molto lentamente e questo rende molto più facile la collaborazione internazionale per mettere a punto farmaci e cure adeguate. L’analisi dei dati genetici condotta in Italia ha individuato otto ceppi provenienti da diverse aree, tutti simili a quello originario cinese e nessuno più aggressivo di quello originario.

 

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