Chissà se qualcuno, in Parlamento, si inginocchierà anche per loro. In segno di rispetto, di dolore, ed anche di assunzione di responsabilità. Perché il drammatico naufragio di fronte alle coste tunisine, al largo della città di Sfax – nel quale decine di migranti risultano morti e dispersi, nell’affondamento di una precaria imbarcazione con cui volevano attraversare il Mediterraneo e arrivare in Europa, questa ennesima tragedia del mare, – racconta di una umanità che fugge non dal Coronavirus, o non solo da esso, ma da guerre dimenticate, da disastri ambientali, da una povertà assoluta.
È salito a 34 il numero dei cadaveri recuperati dalla Marina tunisina nell’area del mare situata tra El Louza (Jebeniana) e Kraten al largo delle isole Kerkennah, teatro del naufragio di un barcone con 53 migranti subsahariani a bordo, partito da Sfax nella notte tra il 4 ed il 5 giugno e diretto verso le coste italiane. Lo rende noto il sito informativo tunisie numerique precisando che i corpi rinvenuti appartengono a 22 donne, 9 uomini, 3 bambini, di vari paesi dell’Africa sub-sahariana e un tunisino originario di Sfax, che sarebbe stato al timone del peschereccio affondato. Ma il bilancio delle vittime potrebbe aumentare.
Unità della Marina militare e della Guardia costiera con l’ausilio dei sommozzatori delle forze armate e della protezione civile sono ancora al lavoro nel tratto di mare interessato dal naufragio alla ricerca di altri dispersi.
Martedì la Guardia costiera di Tunisi aveva recuperato 20 corpi, ma circolava già la notizia, riportata da media tunisini, che lo scorso fine settimana 53 persone avevano preso il largo nel tentativo di raggiungere l’Italia.
Strage di innocenti
La maggior parte delle vittime sono donne, ha affermato il direttore della medicina legale presso l’ospedale universitario Habib Bourguiba Samir Maatoug. L’autopsia, le impronte digitali e altre indicazioni mostrano che 19 corpi su 22 appartengono adonne, che potrebbero essere della Costa d’Avorio. Altri due corpi appartengono a un bimbo e una bimba di età compresa tra 2 e 3 anni, anch’essi di paesi africani. Un altro corpo appartiene a un adulto tunisino di Dhraâ Ben Zied, delegazione di El Amra. Quest’ultimo è stato identificato dalla polizia tecnica. Potrebbe essere il capitano della barca. Una delle donne era incinta al momento del naufragio, ha precisato la stessa fonte. Mentre sono in corso i preparativi in attesa della sepoltura, i corpi recuperati vengono collocati nell’obitorio dell’ospedale.
Un’indagine è stata aperta per identificare gli organizzatori della traversata, ha riferito il portavoce della Corte di Sfax Mourad Turki.
I migranti, tutti provenienti dai Paesi sub-sahariani, avevano lasciato la costa tunisina in direzione di Lampedusa. Secondo le statistiche dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), 110.699 persone sono riuscite a attraversare il Mediterraneo in modo irregolare nel 2019 (6.000 in meno di un anno prima) e 1.283 sono morti nel tentativo.
La rotta tunisina
Arrivano nelle aree di Porto Empedocle, Sciacca, Licata, nell’Agrigentino, su barconi di legno di 10-12 metri, che spesso vengono anche abbandonati. In alcuni casi gli occupanti delle imbarcazioni riescono a scendere e far perdere le loro tracce, in altri gli uomini della Guardia di Finanza o della Capitaneria di porto li hanno individuati. Più a ovest, verso Trapani o Mazzara, gli immigrati sbarcano, invece, da gommoni che portano dalle 20 alle 40 persone alla volta. In alcuni casi, assieme agli esseri umani, sono stati recuperati anche carichi di sigarette o stupefacenti.
E’ la rotta tunisina, che attraversa il confine tra Tunisia e Libia. A confermarlo è Reem Bouarrouj, responsabile immigrazione di Ftdes, “Tra gli immigrati in Libia – dice – sta iniziando a circolare la voce. Sanno che la Guardia Costiera e le milizie impediscono le partenze dalla costa e così puntano alla Tunisia”. Nell’area di confine tra Libia e Tunisia vige, ormai da tempo, un patto d’azione tra trafficanti di esseri umani e miliziani dell’Isis che, in rotta da Siria e Iraq, hanno fatto di quest’area frontaliera la trincea avanzata dello Stato islamico nel Nord Africa.
Annota Paolo Howard ,in un documentato report su Affari Italiani: “Considerare la rotta tunisina quale mera alternativa a quella libica appare riduttivo. Sono i migranti tunisini a imbarcarsi dai porti di Sfax e Kerkenna, raramente gli stranieri…I protagonisti della rotta restano i giovani tunisini che, stretti nella morsa di una economia impoverita e di un clima politico asfissiante, fuggono a bordo dei social media prima ancora che delle imbarcazioni di fortuna”.
A Sud, le nostre frontiere esterne sono composte da Paesi che non sono solo più di transito, per migranti e rifugiati, ma di origine. E’ il caso, per l’appunto, della Tunisia. Sono i migranti tunisini a imbarcarsi dai porti di Sfax e Kerkenna, raramente gli stranieri (secondo il Forum tunisino dei diritti economici e sociali, tra il 2011 e il 2016 il 74,6% delle persone che hanno lasciato il Parse sono cittadini tunisini). Sebbene negli ultimi mesi il flusso di migranti sub sahariani lungo il confine tunisino-libico sia cresciuto (migranti che vengono in Tunisia per trovare lavoro e raccogliere i soldi per pagare i passeur), ad oggi i protagonisti della rotta restano i giovani tunisini che, stretti nella morsa di una economia impoverita e di un clima politico asfissiante, fuggono a bordo dei social media prima ancora che delle imbarcazioni di fortuna.
Parlano i Nobel tunisini
“La grande maggioranza del popolo tunisino – dice a Globalist Abdessatar Ben Moussa, avvocato, presidente della Lega per i diritti umani, uno dei membri del Quartetto per il dialogo nazionale tunisino, insignito, nel 2015, del Premio Nobel per la Pace – sostiene il processo democratico. Si tratta di un patrimonio di credibilità che non va disperso. Ma i rischi sono tanti, legati soprattutto alla situazione socio-economica. La difesa dei diritti umani è importante ma lo è altrettanto il rafforzamento dei diritti sociali. La democrazia si rafforza se si coniuga alla crescita economica, alla giustizia sociale, a realizzare prospettive di lavoro per i giovani. Non è un caso che i terroristi dell’Isis abbiano puntato a colpire il turismo, una delle fonti di entrata più importanti per la Tunisia. Oggi i terroristi reclutano giovani emarginati non offrendo loro il miraggio del “Califfato ma un salario per combattere la Jihad. Per questo è fondamentale che l’Europa investa nella cooperazione con la Tunisia e più in generale con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. Per l’Europa non sarebbe un atto di generosità ma un investimento a rendere sul piano della stabilità e della sicurezza. Un investimento sul futuro”.
I “gelsomini” non bastano per sfamare un popolo. I diritti non si mangiano. Una “rivoluzione” non si consolida se non riesce a dare un tetto, un lavoro, un futuro ad un popolo giovane. A nove anni dalla revolution yasmine, la Tunisia si riscopre inquieta, pervasa da un malessere sociale che investe tutti i settori della popolazione. Diplomati, laureati, professionisti: la protesta parte da lì. E dai ragazzi: un popolo sotto i 35 anni che si trova governato da una classe politica di ottuagenari. La loro è anche una rivolta generazionale.
“Quello compiuto in questi nove anni – rimarca Houcine Abassi, già Segretario generale dell’Ugtt (Union générale tunisienne du travail) anche lui Premio Nobel per la Pace nel 2015 come membro del Quartetto per il dialogo – non è stato un percorso lineare, la transizione democratica è ancora in atto e non potrà dirsi conclusa se non affronta la grande questione che resta irrisolta ed anzi tende ad aggravarsi”. E quella “grande questione si chiama malessere sociale. L’ex capo del sindacato tunisino ne è assolutamente convinto: “La libertà – sostiene – non può dirsi realizzata se non hai un lavoro, se i giovani non possono costruire il loro futuro, avere una casa, diventare autonomi. In Tunisia, la rivoluzione del 2011 ha abbattuto un regime corrotto, la transizione ha consolidato le istituzioni, abbiamo una Costituzione tra le più avanzate in questa parte di mondo, ma non basta, non può bastare. Perché sul piano sociale il bilancio è negativo: il tasso di disoccupazione è aumentato del 15% a livello nazionale e raggiunto il 25% nelle regioni interne. Quello tunisino è un popolo giovane, e se ai giovani non dai una prospettiva concreta di realizzazione, il futuro è a rischio”.
Giovani senza futuro
La Tunisia, inoltre, è il primo Stato di origine delle persone sbarcate in Italia nel 2019. Nell’area di confine tra Libia e Tunisia vige, ormai da tempo, un patto d’azione tra trafficanti di esseri umani e miliziani dell’Isis che, in rotta da Siria e Iraq, hanno fatto di quest’area frontaliera la trincea avanzata dello Stato islamico nel Nord Africa. Di estremo interesse è lo studio pubblicato dal Centro Tunisino per la Ricerca e lo Studio sul Terrorismo (Ctret) sui gruppi jihadisti attivi in Tunisia. Lo studio è stato condotto su un pool di 1.000 tunisini arrestati e incarcerati tra il 2011 e il 2018. Dalle verifiche è emerso che il 40% di questi elementi erano giovani laureati o diplomati, il 3,5% era rappresentato da donne, mentre 751 erano giovani sotto i 35 anni.
Il Ctret ha analizzato anche come i gruppi jihadisti reclutano nuovi adepti. Il sistema più utilizzato è quello dell’indottrinamento individuale, effettuato tramite imam e predicatori, dentro e fuori le moschee, in particolare quelle gestite da salafiti, che si rivelano come il luogo privilegiato di trasmissione e propagazione di una versione fondamentalista e jihadista della religione musulmana. Seguono i social media e i media tradizionali. Lo studio indica anche che il 69% dei jihadisti tunisini monitorati era stato addestrato in Libia e il 21% in Siria, grazie alla facilità di poter viaggiare senza problemi da Tunisi in Turchia e da lì, poi, entrare in Siria. L’immagine della Tunisia che emerge dalla ricerca del Ctret è preoccupante, visto soprattutto l’alto potere attrattivo che l’ideologia jihadista ha mostrato di sapere esercitare sui giovani under 35, ovvero i nati durante il boom economico e demografico esploso in tutto il Maghreb negli anni Ottanta e Novanta. Una fase che, non a caso, molti analisti paragonarono all’epoca a una vera “bomba ad orologeria” che negli anni a seguire sarebbe scoppiata nelle mani dei governi tunisini se non sarebbe stata gestita adeguatamente per tempo. E quel tempo è scaduto.