L'enorme potenza di un pugno alzato in uno stadio che fa ancora infuriare i bianchi razzisti

Dal 16 ottobre 1968, giorno in cui Tommie Smith e John Carlos alzarono il pugno al cielo nello stadio delle Olimpiadi a oggi le cose non sono poi cambiate molto

John Carlos, Tommie Smith e Peter Norman
John Carlos, Tommie Smith e Peter Norman
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18 Giugno 2020 - 19.53


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È il 16 ottobre del 1968. A Città del Messico si svolgono le Olimpiadi e i velocisti statunitensi Tommie Smith e John Carlos arrivarono primo e terzo nella finale dei 200 metri piani alle Olimpiadi. Smith aveva stabilito il nuovo record del mondo, con 19,83 secondi, Carlos, con i suoi 20,10 secondi, era arrivato dietro all’australiano Peter Norman.

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I tre salgono sul podio per ricevere le medaglie e, nel momento in cui cominciarono a suonare le note dell’inno americano, Smith e Carlos chinarono la testa e alzarono il braccio, tenendo il pugno ben chiuso verso il cielo.

Nello stadio calò il silenzio.

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Non era stato un anno facile, il 1968: appena sei mesi prima era stato assassinato Martin Luther King e le rivendicazioni dei diritti civili degli afroamericani si erano bruscamente fermate. Il ‘sogno’ di King sembrava essersi infranto e la rabbia dei neri americani cresceva ogni giorno di più. Non una situazione diversa da quella di adesso.

Il ‘Raised Fist’, il pugno alzato, non nasce come simbolo per la lotta per i diritti civili dei neri, ma più in generale come segno universalmente legato alla protesta. Di esempi nella storia ce ne sono tanti, specie legati al periodo comunista, ma in quel giorno di ottobre di cinquant’anni fa Smith e Carlos ne fecero un simbolo della lotta per il Black Power. La foto che fu scattata in quel momento divenne una delle più famose di tutto il ‘900.

Ci furono conseguenze, molto pesanti: il comitato olimpico internazionale chiese l’espulsione dei due, perché ritenevano che volessero provocare con quel gesto, e una volta tornati in Patria i due subirono minacce e intimidazioni, anche se divennero degli eroi per la comunità afroamericana. Anche Peter Norman quel giorno alzò il braccio e indossava una spilla dell’Olympic Project for Human Rights (OPHR), un’organizzazione anti-segregazione che esortò gli atleti neri a boicottare le Olimpiadi di Città del Messico. Norman, australiano, fu escluso dalle Olimpiadi successive, quelle del 1972, proprio per aver mostrato solidarietà. C’è un finale agrodolce in questa storia: Smith e Carlos, nel 2006, furono visti portare sulle spalle il feretro di Norman, che da bianco era stato loro accanto in quella protesta, anche se avrebbe potuto rimanere fuori, restare indifferente.

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Sergio Sylvestre, cantante americano e vincitore di Amici in Italia, ha cantato ieri l’Inno di Mameli alla finale di Coppa Italia. Si è brevemente interrotto (stava cantando un Inno non suo in uno stadio completamente vuoto e l’emozione era palpabile nella sua voce) e alla fine dell’esibizione ha alzato il pugno in aria.

È questo, più che le parole dell’Inno dimenticate, ad aver fatto infuriare i sovranisti e razzisti italiani: un pugno chiuso in uno stadio può ancora far tremare i bianchi, perché sentono e vedono la rabbia e la voglia di giustizia che hanno le persone nere di tutto il mondo. Chi si sente minacciato da quel pugno, sente che i suoi privilegi iniziano a scricchiolare e reagisce con la violenza e la ferocia di un animale ferito. Incredibile come, a cinquant’anni di distanza, siamo ancora qui a rivendicare i diritti di altri esseri umani.

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