Migranti e Tunisia, le Ong danno lezioni a Di Maio e Conte. Ma le capiranno?

Già nel 2016 le Ong di “Link 2007" dicendo: " “Agli Stati conviene prevenire piuttosto che rincorrere gli eventi e spendere molto di più per cercare di tamponare i conflitti e gli esodi"

Polizia in Tunisia
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

4 Agosto 2020 - 15.30


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“Agli Stati conviene prevenire, spendendo quanto necessario, piuttosto che rincorrere gli eventi e spendere molto di più intervenendo per cercare di tamponare i conflitti, con le distruzioni, le indicibili sofferenze, i massacri, gli esodi di persone e le insicurezze e destabilizzazioni che essi provocano ovunque. L’Ue, gli Stati membri e le Istituzioni finanziarie e di sviluppo internazionali sono invitate a muoversi, finché si è ancora in tempo, per contenere le periodiche ribellioni in Tunisia, a pochi chilometri dall’Italia, e prevenire una possibile destabilizzazione del paese, sostenendone decisamente l’esemplare ma fragile democrazia, l’unica realizzata con le ‘primavere arabe. La Tunisia, il paese mediterraneo più vicino all’Italia, è oggi in bilico tra il rafforzamento del processo democratico e la destabilizzazione con prevedibili e devastanti conseguenze su migrazioni e terrorismo. Investire sulla Tunisia e i paesi limitrofi, anche sostenendo gli sforzi della società civile, è investire sul nostro futuro di stabilità e di pace. Un tracollo della Tunisia metterebbe infatti a rischio la stessa sicurezza e stabilità in Italia e in Europa, e non sarà a costo zero”.

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Sembrano considerazioni dell’oggi. Ma non è così. Perché questo argomentato grido d’allarme lanciato dalle Ong di “Link 2007” data 16 febbraio 2016. Sono trascorsi quattro anni e mezzo d’allora, si sono succeduti primi ministri, cambiate maggioranze, ma nessuno ha raccolto questi preziosi suggerimenti.

“La via che le Ong di ‘Link 2007’ propongono è quella della costituzione, in tempi rapidi, di uno specifico Fondo internazionale formato da contributi della Commissione europea, degli Stati membri, di tutti i paesi interessati, delle Istituzioni finanziarie e di sviluppo europee e internazionali, comprese quelle arabe e islamiche, prendendo in considerazione la Tunisia insieme ai due paesi confinanti, Libia e Algeria. Un fondo fiduciario per la realizzazione di un ‘piano Marshall’, di cui l’Italia, data la vicinanza, potrebbe farsi promotrice. Per la sola Tunisia serviranno, secondo le stime di Link 2007 basate sul bilancio dello Stato, almeno 20 miliardi di euro all’anno per i prossimi cinque anni, finalizzati agli investimenti prioritari, con lo scopo di restringere la forbice delle disuguaglianze che pesano in particolare sulle regioni interne e le periferie urbane degradate, di ridurre drasticamente la disoccupazione e di attrarre nuovi capitali e investitori esterni. Senza interventi rapidi e significativi la Tunisia potrebbe vivere una nuova rivoluzione popolare: molto probabilmente distruttiva, questa volta, che metterebbe a rischio tutta l’area euro-mediterranea, a partire dalla vicina Italia”.

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Questa proposta è caduto nel vuoto, e oggi c’è un ministro degli Esteri che fa la voce grossa e decide di “punire” la Tunisia per un presunto lassismo nel contrastare il flusso di migranti verso le coste siciliane, bloccando i finanziamenti destinati alla cooperazione allo sviluppo destinati al Paese nordafricano.

La situazione è rimasta esplosiva

Ma torniamo a quel documento, assolutamente “profetico”. Per il presidente del Forum tunisino per i diritti economici e sociali, Abderrahman Hedhili, le proteste erano prevedibili: “Abbiamo segnalato che la situazione sociale sarebbe esplosa; l’esclusione sociale e le disparità regionali sono pesanti ma il governo non è riuscito a definire strategie e programmi per le regioni interne”. Il 15% della popolazione è disoccupata. La percentuale sale al 25% in regioni periferiche come quella di Kasserine e a tassi ben superiori per i giovani. Spesso il lavoro è legato ad intermediazioni corruttive. La situazione è ulteriormente peggiorata a causa degli attacchi terroristici del 2015 contro obiettivi turistici quali il museo del Bardo a Tunisi e il resort di Susa (Sousse): l’industria turistica con i suoi 400 mila lavoratori è stata pesantemente colpita. Le regioni costiere sono le più sviluppate: investimenti pubblici e privati si sono susseguiti nel tempo, anche per favorire il turismo, e in esse è localizzato l’80% delle industrie tunisine. Buono è quindi, in esse, il tasso di occupazione e di reddito medio. Nei governatorati centro meridionali lontani dalla costa, invece, la gente si sente abbandonata per la mancanza di investimenti produttivi e di servizi, dai trasporti ai servizi essenziali come l’acqua, la salute, l’istruzione.

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La realtà  e le crescenti difficoltà

“La realtà –   proseguiva il report di Link 2007 – è che lo Stato non ha i fondi necessari per potere impegnarsi in un piano di sviluppo per creare lavoro e servizi essenziali. La mancanza di investitori, l’instabilità politica, il terrorismo stanno bloccando il paese costretto a contare, più che mai, sull’aiuto esterno. Come si dirà più  avanti,servirebbe un ‘piano Marshall’ da 20 miliardi di euro per alcuni anni: quei fondi cioè che mancano al bilancio dello Stato per lanciare gli investimenti necessari. Un piano coordinato e finalizzato in particolare alle aree più depresse, all’occupazione e alla lotta alla corruzione. L’Europa, per la vicinanza e i legami storici, deve riuscire ad intervenire presto, molto di più rispetto al passato. Impegni limitati a qualche centinaia di milioni, spesso ripartiti su più anni, non corrispondono alla gravità della situazione e dei bisogni. La democrazia tunisina è reale, radicata, la sola ad essere sopravvissuta alle ‘primavere arabe’. Se sparisse o se cadesse sotto l’influenza di paesi spinti da valori lontani da quelli su cui è basata la nostra convivenza o di movimenti terroristici, la responsabilità non sarà  solo del governo tunisino. L’esperienza della Tunisia è importante anche perché rappresenta la sintesi tra i valori occidentali e i valori islamici. Non si possono conservare i valori delle rivoluzioni e la democrazia solo con riconoscimenti internazionali, incontri, convegni, parole di amicizia e vicinanza.  “La libertà c’è ma manca il pane” si sente ripetere in tutto il paese. Le ‘rivolte del pane’ rischiano di ripetersi ciclicamente, con conseguenze facilmente prevedibili. Occorre investire sulla Tunisia, con una cooperazione duratura, con una visione e una strategia di lungo periodo, con fondi strutturali e ampi investimenti nelle regioni più arretrate, favorendo l’occupazione e l’equità sociale e tra le regioni. Un paese che è riuscito a gestire con successo e in modo democratico la rivoluzione del 2011 doveva essere aiutato subito con ingenti risorse e continuare ad essere sostenuto senza interruzione. Nell’interesse del consolidamento del processo democratico tunisino ma anche nel nostro stesso interesse, italiano ed europeo. Una grave crisi in Tunisia potrebbe avere conseguenze deleterie anche per noi. L’impegno per la Tunisia è un impegno per noi stessi e la nostra stabilità.  Investire sulla Tunisia e i paesi limitrofi è investire sul nostro futuro di stabilità e di pace. Non farlo significa danneggiare noi stessi. Limitare gli aiuti o ritardarli potrebbe avere un costo di gran lunga superiore in un futuro ravvicinato, non solo finanziariamente ma anche in conflitti, vite umane, distruzioni, consolidamento e diffusione del terrorismo, come la recente storia insegna. Un tracollo della Tunisia avrebbe anche conseguenze nefaste per la stessa sicurezza e stabilità europea. È dunque nel nostro interesse, italiano ed europeo, intervenire con investimenti adeguati e risoluti di cooperazione con la Tunisia. E occorre farlo subito”.

Ma così non è stato.

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Quattro anni e mezzo dopo, Nino Sergi, presidente emerito di Intersos e  policy advisor di Liink  2007), rivolge questo post al titolare della Farnesina: “Caro ministro Luigi Di Maio, non ci siamo proprio. Mi è difficile anche in questa occasione, chiamarla ministro, e per di più degli affari esteri e della cooperazione internazionale, dato che con le sue parole intende piuttosto presentarsi come capo-popolo, di quella parte di popolo che lei pensa di riuscire a conquistare. ‘Ci sono delle regole in Italia che vanno rispettate. Anche l’Europa deve rispondere concretamente,. Non c’è tempo da perdere’.

Sul ‘non c’è tempo da perdere’ le ricordo che nei molti anni di sue responsabilità nel parlamento e nel governo, sul tema delle politiche migratorie lei ha perso tutto il tempo che ha avuto a disposizione. Sull’Europa che deve rispondere concretamente, le ho già scritto un post il 31 luglio: spero che qualcuno del suo staff glielo faccia vedere. Mi soffermo sul ‘ci sono delle regole che in Italia vanno rispettate’. Da chi, signor ministro? Stando al suo diktat, dal governo tunisino? Lei sembra esprimere una concezione delle relazioni internazionali dell’Italia ferma al periodo coloniale, in cui era chiaro chi decideva e chi obbediva. Le relazioni internazionali sono una cosa seria e delicatissima, soprattutto per un paese come il nostro, inserito in un Mediterraneo problematico e carico di tensioni. Occorre ‘fermare i fondi per la cooperazione se non c’è collaborazione con l’Italia, afferma con fermezza. Eh no. Le intese e gli impegni vanno onorati, pur nel dialogo politico per migliorarli. A meno di pensare arrogantemente di potere fare a meno di relazioni divenute preziose e indispensabili per il bene dell’Italia – Cooperazione e collaborazione – rimarca ancora Sergi – non significano più, da tempo, imposizione. Lo dicono le leggi italiane e le normative internazionali dal dopo-guerra in poi. Lo dice lei (lo ricorda’) ogni volta che presiede il Comitato congiunto, il Consiglio nazionale, il Comitato interministeriale per la cooperazione allo sviluppo; e ogni volta che incontra i suoi colleghi ministri dell’area mediterranea. Non imiti altri personaggi politici. Continui a fare il ministro degli esteri: stava imparando e stava dimostrando capacità. Non si distrugga per un po’ di effimero consenso. Sulla Tunisia, la sua situazione sociale e politica, la sua fragilità, le consiglio un breve studio della rete di Ong Link 2007: ‘Aiutare Tunisia per aiutare l’Europa’. E’ del 2016 ma rimane attuale. Se lo vorrà, siamo pronti a discuterne approfonditamente “.

“Quella che sembrava un’uscita infelice del Ministro degli Esteri, si è invece rivelata essere la linea dell’intero governo, viste le dichiarazioni del Premier Conte e il silenzio degli esponenti PD. Tocca prendere atto che il Governo stia continuando ad appiattarsi su posizioni utili più al prossimo sondaggio che a rafforzare una visione strategica nel mediterraneo e nel Nord Africa – dice a Globalist Paolo Pezzati, Humanitarian Policy Advisor di Oxfam Italia-. La decisione di applicare una condizionalità negativa migrazione – sviluppo con il blocco dei fondi per la cooperazione allo sviluppo qualora la Tunisia non si impegnasse nel blocco delle partenze –  potrebbe rivelarsi un autogol di quelli che si ricordano nel tempo. In prima ragione perché la cooperazione ha come obiettivo , qualora negoziata con i partner e la società civile, quello di attaccare proprio le cause alla radice della migrazione che viene chiamata “economica”; e poi perché in un momento di difficoltà – si è dimesso il primo ministro, la crisi economica e sociale è acuta come non mai – e in un contesto geopolitico molto fluido nell’area dove Turchia ed Egitto stanno provando ad allargare la loro egemonia, di solito i partner si sostengono, non si puniscono. La soluzione –  prosegue Pezzati –  ancora una volta è data dalla combinazione dell’avvio di un nuovo dialogo con Tunisi per un piano strategico condiviso – con un impegno finanziario abbondantemente superiore ai 6,5 milioni – volto a sostenere il paese nord africano e dall’approvare finalmente una legge che superi la Bossi Fini, per istituire nuovi canali di ingresso regolari grazie alla quale finalmente l’Italia si organizzi nel decidere come gestire i flussi migratori invece che preoccuparsi solo come interromperli. Gli ingressi irregolari, gli arrivi con i barconi si contrastano aumentando i canali di ingresso regolari, non alzando muri in terra e in mare. Alla Camera giace la proposta di legge della Campagna ‘Ero Straniero’ che ha proprio questo obiettivo, i partiti della maggioranza cosa stanno aspettando?”.

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Ma discutere non sembra essere oggi nelle intenzioni di chi governa l’Italia. Oggi, per costoro,  è tempo di esibire i muscoli (verbali) e di  provare a fare la voce grossa con i più debole, il “ruggito del coniglio”.  E così, ecco a voi il presidente del Consiglio che ieri, da Cerignola, veste i panni del commander in chief e proclama:  “Non possiamo tollerare che si entri in Italia in modo irregolare, tanto più non possiamo tollerare che in questo momento in cui la comunità nazionale intera ha fatto tantissimi sacrifici questi risultati siano vanificati da migranti che tentano di sfuggire alla sorveglianza sanitaria”. E ancora: “Non ce lo possiamo permettere, quindi dobbiamo essere duri, inflessibili – dice Conte -. Stiamo collaborando con le autorità tunisine, è quella la strada. Io stesso l’altro giorno ho scritto al presidente tunisino Kais Saied una lettera e sono contento che abbia fatto visita ai porti per rafforzare la sorveglianza costiera. Noi dobbiamo contrastare i traffici e l’incremento degli utili da parte dei gruppi criminali che alimentano questi traffici illeciti. Dobbiamo continuare in questa direzione, dobbiamo intensificare i rimpatri. Abbiamo fatto una riunione con i ministri competenti, Di Maio, Lamorgese, Guerini e De Micheli, stiamo lavorando per evitare che questi traffici continuino. Non si entra in Italia in questo modo e non possiamo permettere che la nostra comunità sia esposta a pericoli”.

Il nemico è stato inquadrato: è il migrante portatore di virus. Ai tempi del Conte I, l’equazione era migrante=criminale, invasore, parassita e, se islamico, terrorista. Col Conte II l’equazione è adattata all’emergenza virale. E questa vergogna la spacciano  per “discontinuità”.

 

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