Mi ricordo. Perché ero lì. Ero tra le macerie di Beirut, prodotte dagli attacchi aerei israeliani. Era il 14 agosto del 2006. La guerra tra Israele ed Hezbollah era finita da qualche giorno, e il martoriato Libano contava i morti e faceva i conti con il lascito di quella guerra: interi quartieri distrutti, decine di migliaia gli sfollati, infrastrutture, strade, ponti, rase al suolo. Ricordo il caldo opprimente e un piccolo orsacchiotto che spuntava tra le macerie del palazzo ridotto a uno scheletro di cemento. Ero lì, quel giorno, al seguito del ministro degli Esteri Massimo D’Alema.
Non era, la sua, solo una visita di solidarietà. Era la testimonianza dell’impegno italiano, e del governo guidato da Romano Prodi, nella ricostruzione del Libano e nel lavorare per la stabilizzazione della frontiera tra il Paese dei Cedri e Israele. Di quella visita, una comunicazione miserrima e una politica interna ancora peggiore, colsero l’aspetto che più poteva scatenare polemiche: il fatto che D’Alema fosse accompagnato nella visita a ciò che restava della zona sciita di Beirut, da un parlamentare di Hezbollah. Apriti cielo! E’ uno scandalo, un ministro italiano a braccetto con un criminale terrorista, gridano a destra. E giù le solite accuse al titolare della Farnesina di essere un “acclarato antisemita”, un “amico dei terroristi” e via insultando.
“Spesso in Italia prevale l’ignoranza di trogloditi che non sanno di cosa si parli. Hezbollah rappresenta una parte significativa della società libanese. All’epoca faceva parte della coalizione di governo: il ministro degli Esteri era un accademico islamico espressione di Hezbollah. Siccome io lavoravo per la pace tra Israele e Libano, era inevitabile che incontrassi anche le forze che governavano il Libano”, spiegò D’Alema ai giornalisti al seguito. “Arrivai a Beirut il mattino del 14 agosto un’ora dopo la fine dei bombardamenti di Israele, che aveva colpito sino a un secondo prima del cessate il fuoco deliberato dall’Onu. Il ministro degli Esteri mi disse che c’erano molte vittime nei quartieri popolari, e avrebbe apprezzato che avessi fatto loro visita. Non era una manifestazione estremista; era lo scenario di un dramma, con civili che cercavano i loro congiunti sotto le macerie. Il mio fu un gesto di solidarietà umana giusto e apprezzato, che contribuì a garantire la sicurezza dei nostri militari poi schierati sul confine. Come i gesti che compii dall’altra parte, visitando i familiari di soldati israeliani rapiti. E incontrando all’aeroporto di Tel Aviv lo scrittore David Grossman, che in quella guerra aveva perso il figlio. Citai una felice espressione di Andreotti: l’equivicinanza. In Italia mi presero in giro”.
Poco conta che chiunque si fosse preso la briga di studiare un pochino la realtà libanese, avrebbe saputo, non dico compreso, che quell’accompagnamento era necessario non solo per la sicurezza del nostro ministro ma perché quel campo di battaglia nella Beirut sciita era, piaccia o meno, territori di Hezbollah. E ancor meno importa, perché si sa gli urlatori di tastiera hanno memoria corta, che qualche tempo dopo, il successore di D’Alema al ministero degli Esteri, Franco Frattini (Forza Italia), l’accompagnatore di “Massimo l’antisemita” era diventato membro del governo libanese e che, come tale, era stato incontrato con tanto di stretta di mano da Frattini. Tant’è. Questa, si dirà, è la miseria della politica italiana. Ma ricordo quel giorno, per una ragione molto più importante e di strettissima attualità. D’Alema, in rappresentanza del governo dell’Ulivo, non era lì per una photo opportunity o per una visita umanitaria. Era lì per dar conto di un impegno concreto che l’Italia da lì a poco si sarebbe assunta per la stabilizzazione di quell’area: lavorare nelle sedi internazionali per dar vita a una forza d’interposizione sotto egida Onu da schierare ai confini tra il Libano e Israele. Un lavoro che la nostra diplomazia, in quell’estate di lutti e di paura, sviluppò h.24 alle Nazioni Unite e in frenetici contatti con le maggiori cancellerie europee e con i cinque Paesi membri permanenti (Usa, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna) del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Ma le parole non bastano da sole. C’è bisogno, per dimostrarsi credibili, accompagnarli con i fatti. E un fatto che indusse i recalcitranti alleati, in primis Usa e Francia, a seguire la strada indicata dall’Italia, fu che l’Italia mise in campo, e campo non è una metafora, tremila e passa militari nella forza Onu. Da lì a poco nacque Unifil II, con l’assenso di Israele e del Libano, una missione da tutti considerata un modello e il fiore all’occhiello delle missioni italiani all’estero. Di quella missione, che dura da 14 anni, l’Italia ha ancora il comando, ed ancora oggi il nostro è il contingente più corposo. L’Italia contava perché rischiava. Oggi, 14 anni dopo, in Medio Oriente, come in Nord Africa, non contiamo nulla perché, semplicemente non esistiamo. E non perché alla Farnesina il Conte II ha messo due collezionatori seriali di gaffe geopolitiche: Ligi Di Maio, ministro degli Esteri, e Manlio Di Stefano, sottosegretario alla ricerca di un mappamondo che lo aiuti a vedere, capire forse è troppo, che il Libano non è la Libia. Questo è folclore, macchiettismo.
L’Italia del Conte II non conta, sorry per il gioco di parole, perché non ha uno straccio di visione strategica per e sul Mediterraneo, perché in politica estera il fattore-tempo è decisivo, e noi, anzi loro, sono puntualmente in ritardo. Emblematica è la giornata di ieri a Beirut.
In una città ferita, in ginocchio, segnata dal dolore anche dalla rabbia, esplosa nella notte, contro un governo di corrotti, incapaci, che ha ridotto il Libano alla bancarotta e ora annaspa miserabilmente nella ricerca dei responsabili della tremenda esplosione nel porto di Beirut, che ha causato almeno 157 morti e oltre 5mila feriti (cifre ufficiali, sicuramente in difetto, e di tanto), in questa città in macerie, si precipita il presidente francese, Emmanuel Macron. Non si venga a parlare della storica influenza, coloniale, che la Francia ha sempre avuto in Libano. Questa è una pietosa giustificazione per non ammettere la “Caporetto libanese” dell’Italia.
C’è chi ha scritto che Macron “commissaria il Libano”. Forse è troppo, di certo l’inquilino dell’Eliseo ha guadagno il centro della scena, non solo mediatica. E l’ha fatto a scapito dell’Italia.
L’assenza a Beirut del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, sono un’assenza che ha l’acre sapore della rinuncia dell’Italia a giocare un ruolo importante in un momento drammatico nella storia del Libano e del Medio Oriente. Non c’eravamo fisicamente, perché non ci siamo politicamente. E a ricordare che esistiamo, sono i nostri caschi blu, lasciati soli a rappresentare l’Italia che non abbandona il campo.
Come se si fosse trattato di un terremoto o di uno tsunami, il massimo del nostro impegno solidale sembra essere quello di inviare medicinali, uomini della protezione civile e trauma kit. Cioè, il minimo sindacale. Tanto per dire: abbiamo un cuore. Ossessionati dai migranti, l’unica preoccupazione che attanaglia i nostri governanti, e una opposizione sempre più becera, è che i libanesi non diventino come i tunisini ingrossando le fila degli “invasori” del Belpaese. Eppure non ci vorrebbe un eccesso di coraggio e di acume politico, perché il governo italiano, di cui fanno parte forze che si dicono progressiste e di sinistra, mettessero in atto i suggerimenti di quel mondo solidale che nel Mediterraneo e in Libano ha operato e continua ad operare soprattutto a sostegno dei più indifesi tra gli indifesi: il milione e mezzo di rifugiati siriani.
Scrive in un post l’ottima Silvia Stilli, portavoce dell’Associazione organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale (Aoi): Non mi arrendo e chiedo: sblocco dei bandi emergenza 2019 subito trovando in questa condizione le soluzioni a problemi tecnici; impegno fondi della programmazione 2020 per interventi umanitari e sociali a sostegno di un Paese allo stremo con rifugiati che superano il numero dei libanesi; azione diplomatica e politica verso istituzioni libanesi per la garanzia della distribuzione equa degli aiuti; azione politica in Europa per non dare carta bianca incondizionatamente alla Francia”.
E’ chiedere troppo ai “grandi assenti” di Beirut?
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