Globalist lo aveva anticipato quando la vulgata mediatica era concentrata sul magnificare l’accordo di cessate-il-fuoco tra Tripoli e Tobruk. Sul cammino della improbabile pacificazione della Libia non c’è solo l’irriducibile della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar, ma un personaggio in ascesa a Tripoli e che, soprattutto può contare sul sostegno di Turchia e Qatar, e su buone entrature a Washington: l’uomo di Misurata, Fathi Bishaga.
Un’ascesa che ha scatenato la reazione del capo del governo libico di unità nazionale (Gna), Fayez al-Sarraj. E così, un furioso Sarraj ha deciso di sospendere temporaneamente il ministro degli Interni, dopo gli incidenti durante le proteste pacifiche a Tripoli la scorsa settimana. Srraj ha sospeso Bishaga e lo ha messo sotto inchiesta con la scusa di non aver impedito che alcune milizie di Tripoli sparassero contro alcune manifestazioni di cittadini (per fortuna senza far vittime) che sono state inscenate nei giorni scori nella capitale contro lo stesso governo, contro la corruzione e contro la mancanza di elettricità. Serraj, che da mesi ha assistito impotente alla crescita di peso politico del rivale Bishaga, evidentemente ha preso la palla al balzo per mettere sotto tiro Bishaga, accusandolo di non aver saputo gestire la piazza.
Caos infinito
Nei 14 mesi di assedio del generale Haftar a Tripoli, Bishaga era diventato di fatto l’uomo della forza. Ex pilota militare, abile uomo politico cresciuto velocemente dopo la rivoluzione, Bishaga in assenza di un ministro della Difesa era stato il ministro capace di sostenere lo sforzo del coordinamento dei comandanti militari e soprattutto dei collegamenti con gli stati alleati di Tripoli
Non è un mistero che il misuratino Fathi Bashaga molto vicino alla Turchia e al movimento islamista dei Fratelli Musulmani, punti da tempo al posto di al-Sarraj a cui potrebbe aspirare anche il moderato Ahmed Maitig, stimato da molti negli Usa e in Europa. Annunciando il supporto di Usa, Turchia ed Egitto al cessate il fuoco, Bashaga ha precisato che ora occorre “un serio dialogo politico”.
“Difficile però credere – annota Gianandrea Gaiani, direttore di AnalisiDifesa– che emiratini e russi lasceranno la Cirenaica e ancor più difficile ipotizzare che i turchi lascino la Tripolitania dopo che il Gna ha concesso loro l’uso delle basi di Misurata e al-Watya per 99 anni nell’ambito di un trattato firmato (e finanziato) anche dal Qatar.
Ripassare un po’ di storia non fa male. La Turchia è stata storicamente attiva nel settore degli affari della Libia durante il regime di Muammar Gheddafi, con il settore delle costruzioni. La Libia è infatti stata come una delle aree più attraenti per gli investimenti di Ankara. La Libia è stato il primo paese straniero in cui l’Unione dei contraenti turchi, il TMB, ha investito già nel 1972. Da allora fino al 2020, le principali società di costruzioni turche come Dogus, Enka e altre hanno intrapreso progetti per un valore di 29 miliardi di dollari, rendendo la Libia il terzo paese per investimenti in costruzioni turche dopo Russia e Turkmenistan.
Le società turche perciò hanno tutto l’interesse che in Libia ci sia un ambiente politico che consenta di tornare a lavorare. Secondo Mustafa Karanfil, presidente del Consiglio Turchia-Libia del Consiglio per le relazioni economiche estere della Turchia (Deik), gli investitori turchi mirano a sfruttare 120 miliardi di dollari di investimenti.
Rivolta sociale
A rendere ancora più complicata la situazione è il cresce malessere sociale che attraversa ogni settore della società libica. Diverse manifestazioni contro la mancanza di servizi, la corruzione e il ritardo nel pagamento degli stipendi si sono svolte in diverse zone sotto il controllo del Gna. La capitale Tripoli, la “città-Stato” di Misurata e le località costiere di Zawiya e Sabratha sono tutte state teatro di dimostrazioni per denunciare frequenti blackout elettrici (anche di 18-20 ore), disservizi nella fornitura di acqua corrente, il mancato pagamento degli stipendi arretrati e la presunta corruzione all’interno dell’organo esecutivo libico riconosciuto dalle Nazioni Unite.
I residenti in diverse regioni della Libia occidentale soffrono anche di carenza di carburante e crisi di liquidità in contanti. I dimostranti hanno condannato anche l’annuncio sul cessate il fuoco proclamato dal capo del Consiglio presidenziali venerdì scorso, 21 agosto, parlando di tradimento.
Nella città di Misurata, i manifestanti hanno mostrato striscioni con la scritta “Febbraio (il mese della rivoluzione anti-Gheddafi) non rimarrà in silenzio, ladri” e “Niente acqua”, chiedendo giustizia contro “i corrotti nel governo Sarraj”.
La città di Al Zawiya è testimone di proteste da tre giorni a causa del deterioramento delle condizioni di vita. Qui i manifestanti hanno scandito anche contro Bashagha. Le proteste si sono estese per gli stessi motivi alla vicina città di Sabratha, dove gruppi di manifestanti sono scesi in piazza per mostrare solidarietà ai giovani di Zawiya, denunciando essere stati colpiti da colpi d’arma da fuoco sparati dalle milizie. Le proteste si inseriscono anche nel solco dello scontro politico all’interno della compagine governativa di Tripoli, riesploso dopo il mancato rimpasto di governo. I due principali leader del fronte della Tripolitania, da una parte il premier Sarraj e dall’altro il ministro Bashaga, sono da tempo ai ferri corti. Non è un caso, forse, che a Tripoli – dove le Forze di deterrenza speciale (Rada) vicine al ministro dell’Interno sono molti forti – i manifestanti abbiano scanditi slogan contro Sarraj mentre a Zawiya, dove il premier è più forte, si siano levati cori contro il potente ministro dell’Interno, originario della città-Stato di Misurata. Una situazione che preoccupa dal punto di vista securitario. Vale la pena ricordare che le forze di polizia non sono dotate né di proiettili di gomma, né di idranti anti-folla, per cui spesso l’unico modo per disperdere i dimostranti più facinorosi è il kalashnikov o (peggio ancora) il frastuono dell’artiglieria.
Non solo. Preoccupa anche la situazione sanitaria, già allo stremo per il lungo conflitto armato e ora sotto pressione per la pandemia di Covid-19. Le dimostrazioni, del resto, si tengono senza il minimo rispetto delle distanze di sicurezza e non tutti portano le mascherine protettive. Intanto il Centro per il controllo delle malattie della Libia ha registrato 572 nuovi casi di coronavirus su 2.101 campioni effettuati nelle ultime 24 ore. Si tratta del maggiore picco dall’inizio della pandemia di Covid-19 lo scorso marzo. Le autorità sanitarie hanno annunciato anche undici decessi e altrettante guarigioni. Il numero totale dei contagi da inizio pandemia è di 11.009 casi, di cui 9.714 attivi, 1.096 guariti e 199 morti.
Haftar rilancia
Intanto, l’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna), comandato dal generale Khalifa Haftar, ha denunciato una serie di manovre militari da parte delle milizie legate al Governo di accordo nazionale libico di Tripoli a ovest di Sirte. Secondo quanto riporta l’emittente satellitare al Arabiya, le coste di fronte alle città di Sirte, Ras Lanuf e Brega, hanno assistito ad una serie di pattugliamenti in mare da parte delle milizie del Gna. Inoltre, una colonna di 200 veicoli militari si è spostata a est da Misurata, sulla costa mediterranea, verso la città di Tawergha, a circa 170 chilometri a ovest di Sirte.
Lo scorso 27 agosto, il portavoce dell’Lna, il generale Ahmed Al-Mesmari, ha negato il bombardamento dei siti controllati dalle forze del Gna a ovest di Sirte con l’obiettivo di sostenere le manifestazioni di protesta avvenute in questi giorni nella capitale Tripoli.
La guerra e Guerini
E l’Italia? Lasciamo la parola a uno che di Libia, Mediterraneo, geopolitica, geoeconomia se ne intende e tanto: Giancarlo Elia Valori (per chi ha voglia di capirne di più e meglio delle dinamiche internazionali, consigliamo la lettura del suo ultimo libro Rapporti di Forza. Le questioni aperte del sistema internazionale (Rubettino): Il ministro della Difesa italiano Guerini è, anche lui, stato a Tripoli. – annota Valori su Formiche.it – Gli argomenti da trattare, per l’Italia, erano lo sminamento, la trattativa sui territori, la salute in Libia, poi finalmente il ritorno programmato delle aziende italiane in Tripolitania e la riattivazione della produzione petrolifera, che peraltro quattro giorni fa Haftar ha riaperto ufficialmente.
Ci mancavano solo la Nutella e i trenini della vecchia, gloriosa Rivarossi. Guerini, inoltre, ha posto a disposizione dei posti per l’addestramento dei cadetti della FF.AA. tripoline, che saranno comunque agli ordini dei turchi, oltre al sostegno sanitario per le forze del Gna e, infine, ha offerto anche lo spostamento dell’ospedale italiano a Misurata in ‘altra locazione più adatta’, casomai dovesse dare disturbo al porto in mani turche. Ci manca solo un festival del cinema italo-libico e un corso di cucina per tutto il governo di Tripoli. I turchi, comunque, hanno chiesto ufficialmente che l’Italia abbandoni completamente l’aeroporto di Misurata. Già fatto, naturalmente. Inoltre, Ankara vuole la piena inclusione dell’Algeria, del Qatar, della Tunisia, nel processo di pace in Libia, mossa che sarebbe stata ovvia per Roma ma, si sa, per pensare ci vuole il cervello…”.
Intanto, annota ancora Valori, “al-Sarraj, forse per ampliare la propria base di sostegno internazionale dopo gli accordi leonini con la Turchia, propone addirittura elezioni in tutta la Libia entro Marzo e annuncia il cessate il fuoco, certo per coprire il riarmo turco, con la richiesta che tutte le “milizie straniere” (anche la Turchia?) dovrebbero lasciare, antro il tempo delle elezioni, la Libia. Le trattative con gli Usa, in Marocco e in Tunisia, sono a buon punto, ma c’è poco da crederci, visto che le milizie di Misurata e Zintan sono del tutto contrarie all’accordo, mediato da Aguila Saleh (presidente del parlamento di Tobruk, ndr) , che non ha, machiavellicamente, ‘le armi proprie’”.
E questa in Libia, è una mancanza decisiva. In negativo. Perché senza armi i signori della guerra spacciatisi per statisti, sono dei signor nessuno.