Allora, procediamo per esclusione. Le petromonarchie del Golfo hanno deciso di fare pace con Israele, normalizzando le relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico: prima gli Emirati Arabi Uniti, successivamente il Bahrein. Ma come sanno bene gli analisti mediorientali, dietro questi “storici” accordi c’è la regia del Regno Saud e, in particolare dell’erede al trono, il giovane e ambizioso principe Mohammed bin Salman, Mbs per i media internazionali.
Mbs ha elogiato pubblicamente Israele e ha minimizzato privatamente l’importanza della questione palestinese, hanno rivelato fonti diplomatiche della regione. L’ambizioso principe ereditario si è incontrato l’anno scorso in Arabia Saudita con un leader evangelico cristiano israeliano-americano che vive Gerusalemme. Diverse compagnie israeliane lavorano con aziende in Arabia Saudita e in altri Paesi del Golfo arabico.
Il governo saudita è stato accusato di usare strumenti di hacking israeliani per spiare i dissidenti. Del Bahrein si è detto.
L’Oman l e il Marocco stanno lavorando, con l’appoggio americano, su proposte per sviluppare patti di non aggressione con Israele. A sostegno del piano a Washington , nel giorno della presentazione ufficiale del Dail of the century – c’erano gli ambasciatori di Oman, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, e Arabia Saudita.
Cedimenti e candidature
Andiamo avanti. L’Egitto del presidente generale Abdel Fattah al-Sisi avrebbe voluto gestire in proprio la “causa palestinese”, solo che non ce la fa. Perché per gestire quella causa devi avere la cassaforte piena, e non è proprio il caso del più popoloso Paese arabo, alle prese con una gravissima crisi economica e un crescente malessere sociale. E poi c’è il problema-Sinai. In questa vasta area desertica agiscono tribù nomadi, trafficanti di esseri umani, miliziani jihadisti affiliati all’Isis e ad al-Qaeda. Per arginare questo pericolo, al-Sisi ha bisogno del sostegno, soprattutto a livello di intelligence, d’Israele. Dunque, la “causa palestinese” può attendere.
Questi mutati atteggiamenti, annota ancora il Wall Street journal , sono in parte attribuibili al fatto che Israele e i principali paesi del Golfo sono più preoccupati della minaccia rappresentata dall’Iran che della risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Poiché Israele ha tranquillamente ampliato i legami con i vicini arabi, in particolare l’Arabia Saudita, l’Oman, il Bahrein, la causa palestinese è diventata meno un grido di battaglia per la regione e Israele una entità molto meno estranea.
Dopo l’accordo tra EAU e Israele, un furibondo Abu Mazen chiese una riunione straordinaria della Lega araba, pe chiedere una sconfessione ufficiale di quel “tradimento”. Cosa ha ottenuto? Che a pochi giorni dal 15 settembre, quando Israele ed Emirati arabi uniti firmeranno alla Casa Bianca il trattato di pace, la Lega araba ha inferto un duro colpo alle speranze palestinesi di conservare il sostegno arabo almeno sui principi fondamentali della loro causa. I ministri degli Esteri dei Paesi membri della Lega, collegati in videoconferenza, non sono riusciti a trovare un’intesa sulla bozza della risoluzione palestinese di condanna della normalizzazione dei rapporti annunciata il 13 agosto da Tel Aviv e Abu Dhabi. Dopo ore di discussioni e trattative il documento non è stato approvato. Troppe le differenze tra Paese e Paese, nonostante i palestinesi avessero favorito un compromesso attenuando il tono della critica alla decisione degli Emirati di avviare piene relazioni con Israele. Muhannad al-Alouk, rappresentante dell’Autorità Palestinese alla Lega Araba, ha dichiarato alla stampa che i Paesi arabi si sono rifiutati di far passare una dichiarazione di condanna nei confronti degli Emirati Arabi Uniti per non aver rispettato la comune e consolidata politica di ostilità dell’organismo internazionale arabo verso l’occupazione israeliana della Cisgiordania. Inoltre come riporta Israel National News, al-Alouk ha detto che è stata ignorata anche una clausola che criticava l’accordo trilaterale tra Emirati Arabi Uniti, Israele e Stati Uniti. In risposta ai palestinesi le parole di Hussam Zaki, importante rappresentante della Lega Araba: “La discussione su questo argomento è stata approfondita e seria. Però non ci siamo trovati in sintonia con la risoluzione proposta dai rappresentanti palestinesi”. Zaki ha poi aggiunto che i funzionari dell’Autorità Palestinese avevano ripetuto che non avrebbero modificato la loro risoluzione anche rischiando una bocciatura delle loro posizioni da parte della Lega Araba.
Il Saladino turco
Dunque, andando di esclusione in esclusione, a rappresentare la “causa palestinese” resta il “Sultano” di un Paese non arabo: la Turchia.
Può piacere o meno, ma questa è la realtà. “Ho dato istruzioni al nostro ministro degli Esteri, gli ho detto che potremmo sospendere le relazioni diplomatiche con il governo di Abu Dhabi o richiamare il nostro ambasciatore”, ha dichiarato Recep Tayyp Erdogan alla stampa a Istanbul, subito dopo l’annuncio dell’accordo. La ”Turchia è dalla parte dei palestinesi” e ”non permetterà che i diritti dei palestinesi vengano violati”, aveva aggiunto il presidente turco ”Non lasceremo che la Palestina venga sconfitta”, ha proseguito Erdogan, criticando anche la politica intrapresa dall’Arabia Saudita nella regione.
Da “Sultano” a “Saladino”. Erdogan ha rilanciato r la sua sfida a Israele, nel nome di “Al Quds” (Gerusalemme). Le basi, Erdogan le ha gettate con il suo durissimo discorso di apertura al vertice straordinario dell’Oci (Organizzazione della conferenza islamica) su Gerusalemme (Istanbul, 13 dicembre 2017). In quel discorso, il presidente turco non ha inteso parlare tanto ai 57 rappresentanti di Paesi e organizzazioni musulmani presenti al summit, quanto ad un mondo di 1,5miliardi di persone, per le quali più che capitale di uno Stato che non c’è, la Palestina, Gerusalemme, con la Spianata delle moschee, è il terzo luogo santo dell’islam, dopo Mecca e Medina. In un sol discorso, Erdogan ha inteso farsi paladino della causa palestinese e Difensore della santa al-Quds.
“Israele è uno Stato occupante e terrorista, i suoi soldati sono terroristi che uccidono bambini di 10 anni e li arrestano”, sentenzia Erdogan. Durante il suo intervento il presidente turco ha mostrato l’immagine, circolata sui media di tutto il mondo, di un bambino palestinese bendato e circondato da militari israeliani. “Mi chiedono perché lo dico? Ma come posso non dirlo?”, ha scandito. Gerusalemme, ha ribadito, “è la nostra linea rossa”. Il presidente turco, ha poi mostrato una mappa dell’evoluzione della Palestina dal 1947 a oggi, come “dimostrazione che Israele è uno stato occupante”. “Ringrazio i nostri fratelli palestinesi che da secoli proteggono la sacralità di Gerusalemme”, sottolineando che la città è “sacra anche per i cristiani.
Altro giro, altra perorazione. I Paesi arabi che sostengono” il piano di Donald Trump su Israele e Palestina “commettono un tradimento verso Gerusalemme, verso il proprio popolo e verso tutta l’umanità”. È l’accusa lanciata dal Erdogan, che in un discorso ai membri del suo partito, l’Akp ha elencato alcuni di questi Paesi. “L’Arabia Saudita è rimasta in silenzio. L’Oman e il Bahrein lo stesso. Il governo di Abu Dhabi applaude. Vergogna! Vergogna!”, ha tuonato Erdogan.
Di nuovo, la “causa palestinese” in funzione di uno scontro interno al mondo sunnita, come avviene per la Libia e ancor prima per la Siria. Il presidente turco ha poi lanciato un appello al mondo cristiano a schierarsi contro il piano Trump, e rivendicare i propri diritti su Gerusalemme, ribadendo l’intransigenza di Ankara rispetto al riconoscimento di quest’ultima come capitale di Israele. “Il mondo cristiano ha dei diritti su Gerusalemme e deve farli valere e far sentire la propria voce. Le mani del mondo cristiano non possono rimanere legate. Gerusalemme non può essere lasciata agli artigli sporchi di sangue di Israele, siamo dinanzi a un piano laterale di annessione dinanzi al quale non possiamo tacere”, ha sostenuto Erdogan che ha definito quello dell’inquilino della Casa Bianca “un progetto di invasione”. “”Parlano di accordo del secolo e non si tratta di alcun accordo, ma di un progetto di invasione. Abbiamo visto come Trump, dando l’annuncio, si sia creato una platea apposta per ricevere applausi, ma non bastano gli applausi a cambiare il destino del mondo, né quello della Palestina. Per noi Gerusalemme rappresenta una linea rossa invalicabile”, ha avvertito Erdogan.
Un Saladino facilitatore della riconciliazione in campo palestinese. Il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, ha sempre promosso la riconciliazione fra palestinesi. A dichiararlo ,il 27 agosto scorso a Istanbul, è il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, secondo quanto rriferito dall’agenzia di stampa turca Anadolu. Secondo Haniyeh Erdogan “è da tempo a favore della riconciliazione intra-palestinese, e spinge Hamas e Fatah a unirsi”. Lo scorso 22 agosto il presidente turco ha ricevuto a Istanbul una delegazione del movimento islamico palestinese, appena due giorni prima della visita del segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, in Israele. La delegazione includeva il vice capo di Hamas, Saleh al Arouri (sul quale pende una taglia di 5 milioni di dollari imposta dagli Stati Uniti per terrorismo), il responsabile di Hamas per le relazioni con l’estero, Maher Salah, il capo di Hamas per le religioni arabe e islamiche, Ezzat al-Rihiq, e il rappresentante di Hamas in Turchia, Jihad Yaghmor.
Non è dunque un caso che negli ultimi tempi, in Cisgiordania e a Gaza siano apparsi sui muri manifesti con il volto del Sultano e sullo sfondo la cupola d’oro della moschea di al-Aqsa e della Spianata delle moschee, terzo luogo santo dell’Islam dopo la mecca e Medina. Per esclusione e per un disegno imperiale neo-ottomano, il Saladino muove alla conquista della Palestina. Che ci riesca, questo è un’altra storia.