Tra le pagine più toccanti della biografia di Maradona ve n’è una, bellissima, di lui bimbetto che palleggia al buio perché, dirà, giocare al buio senza vedere né palla e compagni né avversari ti fa vedere cose diverse quando poi c’è la luce. Una tale luminosa profondità te l’aspetteresti dal più veggente tra i filosofi, non da un ragazzino che gioca al pallone.
Poi c’è un altro Maradona, quello raffigurato in una delle oltre settanta fotografie che lo riprende in veste di illustre miliardario e cocainomane, dentro a una marmorea vasca da bagno a forma di conchiglia nella villa del boss camorrista di Forcella Carmine Giuliano, a quel tempo latitante.
Siamo negli anni Ottanta, anni di rapimenti di persona. La camorra protegge Maradona e Maradona ricambia in letizia e amicizia, arrivando a portare la squadra neo-campione d’Italia a festeggiare lo scudetto sotto casa Giuliano a Forcella, come è successo il 10 maggio 1987: un devoto omaggio al boss né più né meno di come si usa fare in Calabria.
Del funambolico argentino serba un vivido ricordo anche il mafioso “pentito” Salvatore Lo Russo: «Diventai molto amico di Maradona che frequentava spesso casa mia ma solo perché diceva di trovarsi bene in mia compagnia e solo in un paio di occasioni mi ha chiesto se potessi procurargli della cocaina per uso personale».
Maradona Santo Subito
Muore Maradona e lo si (rim)piange in struggenti pagine grondanti retorica che ne rinnovano i miracoli e il mito. A Napoli si prega e si accendono lumini in suo ricordo… d’ora in poi lo stadio San Paolo avrà il suo nome… forse gli verrà dedicata una scuola… qualcuno lo vorrebbe cittadino onorario…
Un cocainomane amico dei mafiosi insignito della massima onorificenza cittadina? Leggo a caso alcuni commenti dalla rete. Da Napoli Beppe Carrese la prende alla larga: «dovrei partire dalla nostra alterità rispetto alla razionalità occidentale. diciamo che noi siamo irriducibilmente anarchi, non “anarchici”. E Diego era un anarca come noi. Noi siamo figli dei riti dionisiaci (come insegna una danza demoniaca – nel senso greco del termine – come la tammurriata), e Diego è stato come una tammurriata, come un rito dionisiaco, stimolazione dei sensi, non “immorale” ma “amorale”». E sin qui è devozione pagana.
Ma un valente attore come Ciro Carlo Fico ne confessa i poteri taumaturgici, “per grazia ricevuta”: «la figura di Maradona mi è stata da sprono in parecchie situazioni della mia vita negativa. Ho sempre distinto il “prode cavaliere” dal peccatore. Ogni volta il “Don Chisciotte” che era, che è un Lui, ha sempre illuminato le mie scelte».
Maradona che s’illumina d’immenso come un giocoso fosforescente Redentore? Non scherziamo, semmai era un ragazzo a suo modo generoso e fragile, che faticava a reggere tutta quella pressione. Il resto ce l’abbiamo messo noi, forzosamente.
In tema di devozione popolare e aspettative salvifiche, salendo al Nord la musica non cambia: per l’avvocata Silvia Vinci, palermitana, «Maradona è il Sud» e tutto il resto «moralismo del piffero». E Alessandro Arrigo lo ascrive senza indugi tra gli astri più luminosi del firmamento antimperialista, assieme al leader cubano Fidel Castro, a quello venezuelano Nicolás Maduro e via cantilenando: Chavez, Mujica, Lula, Morales… «Sì, ha fatto la foto coi camorristi», ammette Arrigo: «del resto pippava e non poteva certo comprare la cocaina dal tabaccaio…»
Altro che cittadinanza onoraria. Coralmente, a Napoli come a Pavia, c’è chi lo vorrebbe santo subito! I fratelli Giuliano scendano allora dalla croce. Non sono più ladroni.
Il “primo violino”
Poiché «L’essere umano ha bisogno di umanità, di troppa umanità, di errori, del doppio tragico dell’eroe», ha detto Massimo Cacciari, all’eroe, per quanto scisso, si perdona tutto ciò che in un comune mortale sarebbe biasimevole. Ma attribuire meriti taumaturgici a Maradona – ponendolo a paladino politico degli oppressi contro gli oppressori – è conformismo affabulatorio e terreno alquanto friabile. “Maradona uno di noi”? “Noi” non pasteggiamo con camorristi apicali, che anzi avversiamo, né con “loro” assumiamo coca. E a dirla tutta, nemmeno sappiamo palleggiare ad occhi chiusi (ginocchio-piede-testa-spalla) con una pallina da golf. Si dedichi allora al funambolico mattatore sportivo lo stadio di San Paolo (a mo’ di gesto riparatore, dopo averlo massacrato, caricandolo di oneri non suoi), ma la cittadinanza onoraria pretende ben altro civico accredito.
Maradona era un capopopolo che, novello Narciso, «amava essere amato» (lo ha detto Michel Platini). Capopopolo? La sua mitizzazione a noi ricorda quella di tanti calciatori sardi, siciliani, campani o pugliesi comprati dagli Agnelli e dai Moratti per favorire nei lavoratori meridionali del triangolo industriale l’assunzione del punto di vista padronale su vita e lavoro, che li voleva sfruttati e contenti di essere sfruttati. Una concessione al mito che, fuori dal rettangolo di gioco, sa di inganno; una identificazione accomodante e consolatoria che a Napoli, con lo “scudetto di Maradona”, deflagra in illusorio riscatto morale del Sud malandato (e tale il Sud è rimasto, nonostante lui). Un po’ come quell’Argentina-Inghilterra due a zero ai Mondiali del 1986: al premier britannico Margaret Thatcher la vittoria nella guerra delle Falkland di quattro anni prima (corroborata dall’incondizionato e corale plauso di proletari e disoccupati, gli stessi che la “lady di ferro” aveva ridotto alla fame); all’Argentina la vittoria di plastica nella coppa del mondo. Chi s’accontenta, gode.
Il giocoliere
Tornando in orbita schiettamente sportiva, si osserva che il calcio non è il tennis. Il calcio è uno sport di squadra assimilabile a un’orchestra, i cui suonatori alla Diego Armando sono il primo violino. Roba da palati fini. Ma se metti questa eccellenza accanto agli ottoni e alle grancasse della banda di Belgioioso, con tutto il rispetto non ti chiamano a Vienna per il concerto di capodanno. Nel Napoli degli scudetti, accanto al funambolo bravo a creare la superiorità numerica saltando avversari manco fossero birilli, c’erano infatti “gregari” d’alto rango come Alemao, Bagni, Bruscolotti, Careca, Giordano, De Napoli, Ferrara, Crippa… calciatori che la suonavano e le suonavano alla grande (Massimiliano Crippa non era Maradona, ma correva tre volte più di Maradona: anche questo genera superiorità numerica). Ed è pur vero che l’Argentina campione del mondo nel 1986 in Messico era chiamata la “squadra di Maradona”; ma vallo a dire ai Burruchaga, ai Valdano, ai Passarella… Fossi in loro, a fronte di così copiosa bava vulcanica calante sul pube de loro, un po’ m’incazzerei.
Dunque la si smetta di sovrapporre il giocoliere al primo violino. In solitudine, il giocoliere avrebbe forse potuto esibirsi al circo, un fenomeno da baraccone come il pugile Carnera a fine carriera. Al contrario, il calcio è coralità, tecnica, estetica, armonia, affiatamento, disciplina tattica e agonistica… I solisti di cui parlano i giornali mi ricordano altro: il solista del mitra… l’uomo solo al comando…
Dal Messico ci è poi tramandato l’ubriacante slalom di Maradona da un’area all’altra tra i birilli inglesi. Ma già si ricorda meno, proprio nella stessa partita, la “manina de diòs” del primo truffaldino gol. Manina da mettere ora in bacheca, accanto alla coppa dorata.
Maradona, l'amico fragile che qualcuno vuole santo subito
Muore Maradona e lo si (rim)piange in struggenti pagine grondanti retorica che ne rinnovano i miracoli e il mito.
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Giovanni Giovannetti Modifica articolo
1 Dicembre 2020 - 21.09
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