Nelli Feroci sulla linea anti-Ue della Meloni: "Il futuro non è nel sovranismo nazionalista"

Intervista all'ambasciatore presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai): "Sta cercando di dare dignità ad una teoria antica, che però non tiene conto del fatto che nessuno nega il ruolo degli Stati"

Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’Istituto affari internazionali
Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’Istituto affari internazionali
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

28 Dicembre 2020 - 16.49


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La dichiarazione di guerra politica all’Europa di Giorgia Meloni, presidente del Gruppo conservatori e riformisti all’Europarlamento, l’accordo tra il Regno Unito e l’Unione Europea, il rapporto tra la nuova amministrazione Usa di Joe Biden e il Vecchio Continente.

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E’ un’intervista a tutto campo, quella concessa a Globalist dall’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai). Diplomatico di carriera dal 1972 al 2013, è stato Rappresentante permanente d’Italia presso l’Unione europea a Bruxelles (2008-2013), capo di gabinetto (2006-2008) e direttore generale per l’integrazione europea (2004-2006) presso il Ministero degli Esteri. 

L’ambasciatore Nelli Feroci ha anche ricoperto l’incarico di Commissario europeo per l’industria e l’imprenditoria nella Commissione Barroso II nel 2014. Insomma, se vuoi capirne di più sull’Europa è la persona giusta.

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Ambasciatore Nelli Feroci, da Presidente dei conservatori europei, Giorgia Meloni ha sferrato un attacco frontale all’Ue. Nel suo manifesto, la leader di Fdi – afferma tra l’altro: “Mentre guardiamo alla ricostruzione dell’Europa dopo questa crisi, dovremmo considerare che è giunto il momento di rimettere gli Stati membri al centro dell’Unione Europea. Che abbiamo la possibilità di rimodellare l’UE in una coalizione di Stati nazionali sovrani che si offrono volontari per lavorare insieme, invece di diventare soggetti a un lontano governo federale a Bruxelles”. Che ne pensa?

Mi pare una posizione coerente con la linea assunta dalla Meloni e dagli partiti nazionali e sovranisti. E’ un tentativo di dare una veste organica e dignitosa ad una linea politica che oggi è comunque molto minoritaria in Europa. La tesi della Meloni, se ho letto bene quello che ha scritto, è che dovremmo abbandonare l’utopia federalista, tornare ad un modello più confederale, in cui il ruolo degli Stati rimarrebbe molto più centrale del ruolo delle istituzioni comuni. Non è una cosa particolarmente originale, nel senso che l’abbiamo sentita proclamare da molti, a parte se vogliamo la vecchia cultura politica britannica, quella che ha portato il Regno Unito a lasciare l’Unione Europea. Il limite di questa dottrina politica è di non fare i conti con una realtà molto più complessa di quella che ci descrive la Meloni. Una realtà in cui nell’Unione Europea, oggi così come funziona, convivono sia le istituzioni sovranazionali sia gli Stati che sono comunque protagonisti della dinamica dei processi decisionali dell’Unione Europea. Da un lato, non ha scoperto niente di nuovo, dall’altro la Meloni sta cercando di dare dignità ad una teoria antica, che però non tiene conto del fatto che nessuno nega il ruolo degli Stati.

Lei ha fatto riferimento al Regno Unito. Uno degli eventi che hanno segnato questo fine anno è l’accordo in extremis di uscita dall’Unione Europea della Gran Bretagna. Alla fine, chi ha vinto e chi ha perso in questo estenuante braccio di ferro?

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Faccio una premessa. L’accordo è molto complesso. L’accordo più gli allegati sono circa 1250 pagine, quindi una lettura complessa che richiederà un’analisi approfondita. La mia sensazione è che comunque sia un accordo è sempre meglio di non accordo. Un non accordo sarebbe stato un evento molto traumatico che avrebbe avuto conseguenze pesantissime sull’economia del Regno Unito ma anche sull’Unione Europea. Quindi io do comunque una valutazione positiva, anche soltanto per il fatto che si è raggiunto un accordo. Seconda considerazione: come quando si cercano compromessi che servono poi per salvare le posizioni di principio, se vogliamo per salvare la faccia alle due parti in causa, alcune delle soluzioni individuate contengono un notevole margine di ambiguità, e dunque queste soluzioni andranno messe alla prova dei fatti. Ci vorrà qualche anno per valutare la tenuta e la portata di questo accordo. Le faccio un esempio: una delle questioni più controverse era quella relativa alle regole comuni condivise su alcune tematiche molto delicate: gli aiuti di Stato, gli standard in materia sociale e ambientale. Regole condivise che avrebbero dovuto evitare fenomeni di concorrenza sleale da parte britannica nei confronti dell’Europa. Evitare che le imprese o soggetti economici britannici si possano avvalere di regole più favorevoli per fare una concorrenza sleale sul mercato interno europeo. Ora, se vi va a vedere nel merito, nell’accordo in questione viene sancito il principio della libertà d’azione, nel senso che non c’è un obbligo per il Regno Unito di armonizzare la propria legislazione in materia di protezione dell’ambiente o in materia di aiuti di Stato o in materia di standard sociali, alle regole europee. Però sono fissati tutti una serie di principi e di criteri che dovranno essere rispettati dal Regno Unito e che qualora venissero violati, consentiranno all’Unione Europea di attivare delle misure di ritorsione: dazi, limitazioni alle importazioni. In definitiva, è tutto  molto bello sulla carta, nel senso che poi vedremo se funziona questo marchingegno estremamente complesso. Quindi non si può dire che ci sia un vincitore o un vinto. Credo che si sia cercato, e alla fine trovato, una soluzione la cui tenuta dovrà essere valutata alla prova dei fatti nel giro di qualche anno.

Sicuramente l’anno che sta per entrare, il 2021, ha già una data da cerchiare in rosso: il 20 gennaio, giorno dell’insediamento alla Casa Bianca di Joe Biden. In chiave europea, cosa c’è da attendersi dalla nuova presidenza Usa?

Io credo che l’atteggiamento di fondo della nuova Amministrazione democratica nei confronti dell’Europa sarà molto diverso da quello che ha caratterizzato l’amministrazione Trump, nel senso che avremo a Washington un interlocutore più disponibile al dialogo, alla collaborazione, alla ricerca di convergenze. Un presidente americano che crede nel rapporto transatlantico, e si è dotato di una squadra di collaboratori nelle posizioni chiave, composto da persone di sperimentata fede atlantica, e quindi sotto questo profilo dovrebbe essere un rapporto più costruttivo, meno difficile di quello che abbiamo avuto con Trump, che invece ha sempre manifestato un misto di ostilità o di indifferenza nei confronti dell’Europa. Detto questo, non dobbiamo aspettarci che la nuova Amministrazione faccia sconti sulle questioni che costituiscono interessi vitali per gli Stati Uniti. 

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Ad esempio?

La questione dell’assunzione di responsabilità da parte europea nel campo della difesa e della sicurezza. La sollecitazione a spendere di più per la difesa verrà confermata, magari sarà fatta in forme più educate, più civili di quelle che utilizzava Trump. Nei confronti della Cina, è verosimile che Biden assuma un atteggiamento che postula una maggiore collaborazione da parte dell’Europa nel confronto-sfida con la Cina. La competizione strategica rimarrà, è probabile che gli europei si troveranno meno confrontati con il fatto compiuto ma che verrà chiesto a loro di concertarsi e collaborare per adottare una linea comune nei confronti di Pechino. Su altre cose, ci sarà molta maggiore convergenza, per esempio sul cambiamento climatico ritroveremo un alleato che avevamo perso con Trump; sul sostegno al multilateralismo e alle istituzioni internazionali ugualmente ritroveremo un alleato. Io credo che sarà situazione più favorevole per il rapporto euroamericano, ma i problemi comunque rimarranno. Rimarranno probabilmente delle tensioni sui rapporti commerciali, rimarranno difficoltà su alcune tematiche che hanno a che vedere con i rapporti con i giganti del web, penso alla tassazione, penso anche alla nuova normativa che l’Europa sta introducendo per controllare meglio servizi e mercati digitali, e non è detto che sia gradita a Washington. Positivo il quadro sicuramente ma non saranno soltanto rose e fiori.

Tornando a noi, all’Italia. L’Europa è riuscita, dopo tante, troppe traversie, una linea di condotta unitaria sulla questione dei vaccini anti-Covid. Questo fatto non dovrebbe sortire un qualche atteggiamento più aperto, più positivo, fiducioso nell’opinione pubblica italiana nei confronti di una Europa che in passato, nell’”era” pre Covid, era caratterizzato da un forte scetticismo se non da un’aperta ostilità?

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Io non gli ultimissimi dati di eurobarometro o di altri sondaggi. Mi risulta che nonostante gli straordinari risultati acquisiti dall’Europa in questo 2020, penso a tutte le misure di assistenza agli Stati membri per far fronte alle conseguenze economiche della recessione. Penso al Next Generation EU, questa straordinaria operazione che mobilità più di 750 miliardi di euro e di cui l’Italia è la maggiore beneficiaria. Penso all’impegno comune sul fronte dei vaccini. Ma nonostante tutto ciò, la mia sensazione è che l’opinione pubblica italiana stenti ancora a percepire i vantaggi dell’Europa. Ho visto sondaggi di qualche tempo fa,  c’è stato un miglioramento nella percezione dell’Europa da parte degli italiani, ma non ancora delle dimensioni che qualcuno si sarebbe potuto aspettare visto che questa volta l’Europa ha reagito molto più rapidamente e in maniera molto più efficace che nella precedente crisi economica e finanziaria. Probabilmente è ancora l’impatto della propaganda nazional sovranista, anche se devo riconoscere che in questa fase i partiti dell’arco sovranista-nazionalista mi sembrano in difficoltà, fondamentalmente hanno meno argomenti per attaccare quotidianamente l’Europa.

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