Lo storico Luzzatto: "Molta ipocrisia sulla Giornata della Memoria, la storia non va manipolata"

Il docente di Storia Contemporanea e direttore della Fondazione Cdec, Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, a Milano.

Una stella di David usata ai tempi del nazismo
Una stella di David usata ai tempi del nazismo
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

27 Gennaio 2021 - 16.05


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La Giornata della Memoria, fuori dalla retorica celebrativa. Globalist ne parla con una delle figure più autorevoli dell’ebraismo italiano: Gadi Luzzatto Voghera. Storico, ha insegnato Storia Contemporanea e Storia degli ebrei presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e al Boston University Study Abroad Program a Padova. 

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È stato il direttore scientifico della Biblioteca e dell’Archivio della Comunità Ebraica di Venezia. Dal 2016 dirige la Fondazione Cdec, Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, a Milano.

Quale valenza si può dare oggi, al di là di una certa retorica celebrativa, della Giornata della Memoria?

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Bisogna fare completamente piazza pulita della retorica delle celebrazioni, farne il meno possibile e dare invece spazio al lavoro sul campo, al lavoro di studio storico. C’è ancora tanto da scoprire, anche di documentazione inedita. Va rimesso mano alla storia. Molti ci stanno lavorando, anche molti giovani. E’ l’unica prospettiva possibile per non farsi trascinare da questa idea, molto nociva, della imposizione di una memoria collettiva, che è impossibile e che è anche non desiderabile. Nel senso che la memoria è un concetto personale, è una questione che riguarda ognuno di noi, che deve lasciare invece spazio ad una riflessione nostra sulle memorie, ad esempio di chi coraggiosamente ha testimoniato su quello che è accaduto, ma partendo dal nostro sentire, dalla nostra conoscenza o non conoscenza di quello che è accaduto settantacinque anni fa. E se non conosciamo abbastanza, andiamo a studiare tutti.

Grandi personalità hanno sostenuto che senza memoria non c’è futuro. Oggi il nostro presente è fortemente segnato, marchiato da un ritorno imperioso, non solo negli Stati Uniti, di un suprematismo bianco che si nutre dell’antisemitismo.

Il collegamento è netto ed è assolutamente reale. Ed è un allarme vero. Perché ci sono poteri politici, regimi tra l’altro democratici e liberali, che dimostrano di essere intaccabili da una manipolazione della storia. Io credo che forse si sia sbagliato originariamente ad insistere sulla parola Memoria. Una parola ambigua e quindi in qualche modo concede delle scappatoie manipolatrici, che invece la storia, l’adesione alla ricerca e al ragionamento critico su quello che è accaduto, può non dico evitare, perché poi le dinamiche politiche sono quelle che sono e richiedono anche una presenza civile e un impegno prima di tutto personale, a tutti i livelli, ma è quella, a mio avviso, la strada da sviluppare. L’allarme c’è tutto. Non ci si può limitare a dire: eccoli che ritornano, in altre forme, in forme diverse. Tentativi di manipolare la storia, questo sì. Tentativi di raccontare prospettive fantasiose, che rappresentano il presente in maniera distorta. Su tutto questo credo che il ragionamento su quello che è accaduto settantacinque anni fa, ci può aiutare.

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A proposito di una rilettura che vada oltre anche a certi vecchi stereotipi. Uno di questi è quello degli “italiani, brava gente”. La Germania alla fine ha fatto i conti con se stessa, con la tragica storia del nazismo. In Italia, al di là del meritorio lavoro della comunità ebraica, non si assolta rispetto alle sue responsabilità?

E’ una domanda molto intelligente e impegnativa. Questa maggior prontezza della Germania di affrontare i nodi della sua storia contemporanea, derivi dal fatto che comunque il suo processo di nazionalizzazione è stato un fatto compiuto. Mentre per quanto riguarda l’Italia, il processo di nazionalizzazione è molto lontano dall’essere compiuto. Per cui non c’è tutta questa disponibilità, proprio a livello nazionale, a fare i conti con l’esperienza fascista. Prova a pensare anche soltanto con la Repubblica sociale italiana, che è stata l’esperienza di una parte soltanto dell’Italia. Indubbiamente c’è questa tendenza molto forte e molto diffusa negli italiani di autoassolversi da qualsiasi cosa, anche quando l’esperienza era collettiva. Noi non siamo stati colonizzatori, noi non abbiamo fatto le leggi razziali ma ce le hanno imposte, questo è un classico. In generale, noi non siamo stati fascisti. E invece, no. Noi siamo stati fascisti tutti, dico tutti-tutti, gli italiani ebrei e gli italiani non ebrei. Ma su questa necessaria riflessione, non mi sembra che ci siano ancora dei percorsi condivisi, che possono far dire che questo processo di revisione “nazionale” sia terminato. Siamo ancora molto lontani dal traguardo.

Una volta, intervistando Elie Wiesel, lo scomparso Premio Nobel per la Pace, sopravvissuto ai lager nazisti e che ha dedicato tutta la sua vita, professionale e umana, perché sulla Shoah non cadesse l’oblio, la conversazione cadde sul perché si continua a chiedere a chi è stato vittima di quella tragedia se ha perdonato. Ecco, questa idea del perdono non è, diciamo così, una invasione indebita?

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Assolutamente sì. Ma l’Italia è un Paese cattolico, profondamente cattolico. Quella è la dinamica mentale che scatta. Lo diceva Benedetto Croce, non possiamo non dirci cristiani, e lo diceva da laico. E’ un Paese così, nel bene e nel male. Certo è che restano vivi e radicati alcuni modelli mentali che non portano da nessuna parte, come è questa storia del perdono. 

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