Mediterraneo, il "mare della morte". E della nostra vergogna

Almeno 39 persone sono annegate in un naufragio al largo dell’isola di Kerkennah. 134 sopravvissuti, la maggior parte dei quali provenienti dalla Costa d’Avorio salvati. Ed è solo una delle tante

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

11 Marzo 2021 - 16.08


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Mediterraneo, il “mare della morte”. L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) e l’Unhcr, l’Agenzia Onu per i Rifugiati, in un comunicato congiunto si sono detti “affranti per l’ennesima perdita di vite umane nel Mediterraneo centrale a seguito del naufragio di due imbarcazioni al largo delle coste tunisine martedì 9 marzo.”
Almeno 39 persone sono annegate in un naufragio al largo dell’isola di Kerkennah. Centotrentaquattro sopravvissuti, la maggior parte dei quali provenienti dalla Costa d’Avorio, sono stati portati a riva dalla guardia costiera tunisina. Le operazioni di soccorso sono in corso dall’alto ieri, ostacolate dalle dure condizioni meteorologiche.
Un secondo naufragio è avvenuto al largo della città di Jebeniana, nel governatorato di Sfax. L’imbarcazione aveva 70 persone a bordo, tra cui quattro bambini, che sono stati tutti portati in salvo.
Stragi continue

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“Questi – rimarca la nota – sono gli ultimi di una serie di naufragi al largo delle coste tunisine. L’Oim e l’Unhcr lavorano con i partner in Tunisia per fornire assistenza di emergenza e cure mediche ai sopravvissuti. Nel 2021, le autorità tunisine hanno effettuato 21 operazioni di salvataggio in mare, a volte anche nei confronti di imbarcazioni partite dalla Libia.
“L’approccio adottato dalla Tunisia dimostra che non è solo necessario ma anche possibile garantire la sicurezza delle persone salvate in mare, e al contempo garantire salute e sicurezza per le comunità ospitanti”, afferma  il rappresentante dell’Unhcr in Tunisia, Hanan Hamdan.
“Lodiamo le operazioni di ricerca e salvataggio delle autorità tunisine e continueremo a sostenerle nel fornire assistenza umanitaria urgente alle persone salvate in mare”, ha aggiunto il Capo missione dell’Oim in Tunisia, Azzouz Samri.
Almeno 190 persone hanno perso la vita mentre attraversavano il Mediterraneo centrale nel 2021, con una media di quasi tre morti al giorno. Altre 5.700 persone sono arrivate in Italia dal Nord Africa nello stesso periodo.
“Il Mediterraneo centrale continua a mietere vittime mentre migliaia di persone si imbarcano in questi viaggi mortali, in fuga dalla povertà estrema, dai conflitti o in cerca di una vita migliore”, ha aggiunto Samri. “Continuiamo a chiedere un sistema di ricerca e soccorso proattivo in quella che rappresenta la traversata più pericolosa del mondo, e l’istituzione di un meccanismo di sbarco predeterminato e sicuro per le persone salvate in mare”.
Le agenzie dell’Onu sottolineano come perseguire i gruppi di trafficanti che approfittano della vulnerabilità delle persone e le spingono verso viaggi pericolosi deve essere una priorità.

La rotta tunisina

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Arrivano nelle aree di Porto Empedocle, Sciacca, Licata, nell’Agrigentino, su barconi di legno di 10-12 metri, che spesso vengono anche abbandonati. In alcuni casi gli occupanti delle imbarcazioni riescono a scendere e far perdere le loro tracce, in altri gli uomini della Guardia di Finanza o della Capitaneria di porto li hanno individuati.  Più a ovest, verso Trapani o Mazzara, gli immigrati sbarcano, invece, da gommoni che portano dalle 20 alle 40 persone alla volta. In alcuni casi, assieme agli esseri umani, sono stati recuperati anche carichi di sigarette o stupefacenti. 

E’ la rotta tunisina, che attraversa il confine tra Tunisia e Libia. A confermarlo è Reem Bouarrouj, responsabile immigrazione di Ftdes, “Tra gli immigrati in Libia – dice – sta iniziando a circolare la voce. Sanno che la Guardia Costiera e le milizie impediscono le partenze dalla costa e così puntano alla Tunisia”. Nell’area di confine tra Libia e Tunisia vige, ormai da tempo, un patto d’azione tra trafficanti di esseri umani e miliziani dell’Isis che, in rotta da Siria e Iraq, hanno fatto di quest’area frontaliera la trincea avanzata dello Stato islamico nel Nord Africa.

Annota Paolo Howard ,in un documentato report su Affari Italiani: “Considerare la rotta tunisina quale mera alternativa a quella libica appare riduttivo. Sono i migranti tunisini a imbarcarsi dai porti di Sfax e Kerkenna, raramente gli stranieri…I protagonisti della rotta restano i giovani tunisini che, stretti nella morsa di una economia impoverita e di un clima politico asfissiante, fuggono a bordo dei social media prima ancora che delle imbarcazioni di fortuna”.

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A Sud, le nostre frontiere esterne sono composte da Paesi che non sono solo più di transito, per migranti e rifugiati, ma di origine. E’ il caso, per l’appunto, della Tunisia. Sono i migranti tunisini a imbarcarsi dai porti di Sfax e Kerkenna, raramente gli stranieri (secondo il Forum tunisino dei diritti economici e sociali, tra il 2011 e il 2016 il 74,6% delle persone che hanno lasciato il Parse sono cittadini tunisini). Sebbene negli ultimi mesi il flusso di migranti sub sahariani lungo il confine tunisino-libico sia cresciuto (migranti che vengono in Tunisia per trovare lavoro e raccogliere i soldi per pagare i passeur), ad oggi i protagonisti della rotta restano i giovani tunisini che, stretti nella morsa di una economia impoverita e di un clima politico asfissiante, fuggono a bordo dei social media prima ancora che delle imbarcazioni di fortuna.

Parlano i Nobel tunisini

“La grande maggioranza del popolo tunisino – dice a Globalist Abdessatar Ben Moussa, avvocato, presidente della Lega per i diritti umani, uno dei membri del Quartetto per il dialogo nazionale tunisino, insignito, nel 2015, del Premio Nobel per la Pace – sostiene il processo democratico. Si tratta di un patrimonio di credibilità che non va disperso. Ma i rischi sono tanti, legati soprattutto alla situazione socio-economica. La difesa dei diritti umani è importante ma lo è altrettanto il rafforzamento dei diritti sociali. La democrazia si rafforza se si coniuga alla crescita economica, alla giustizia sociale, a realizzare prospettive di lavoro per i giovani. Non è un caso che i terroristi dell’Isis abbiano puntato a colpire il turismo, una delle fonti di entrata più importanti per la Tunisia.  Oggi i terroristi reclutano giovani emarginati non offrendo loro il miraggio del “Califfato ma un salario per combattere la Jihad. Per questo è fondamentale che l’Europa investa nella cooperazione con la Tunisia e più in generale con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. Per l’Europa non sarebbe un atto di generosità ma un investimento a rendere sul piano della stabilità e della sicurezza. Un investimento sul futuro”.

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I “gelsomini” non bastano per sfamare un popolo. I diritti non si mangiano. Una “rivoluzione” non si consolida se non riesce a dare un tetto, un lavoro, un futuro ad un popolo giovane. A dieci anni dalla revolution yasmine, la Tunisia si riscopre inquieta, pervasa da un malessere sociale che investe tutti i settori della popolazione. Diplomati, laureati, professionisti: la protesta parte da lì. E dai ragazzi: un popolo sotto i 35 anni che si trova governato da una classe politica di ottuagenari.  La loro è anche una rivolta generazionale.

“Quello compiuto in questi dieci  anni – rimarca Houcine Abassi, già Segretario generale dell’Ugtt (Union générale tunisienne du travail)  anche lui Premio Nobel per la Pace nel 2015 come membro del Quartetto per il dialogo – non è stato un percorso lineare, la transizione democratica è ancora in atto e non potrà dirsi conclusa se non affronta la grande questione che resta irrisolta ed anzi tende ad aggravarsi”. E quella “grande questione si chiama malessere sociale. L’ex capo del sindacato tunisino ne è assolutamente convinto: “La libertà – sostiene – non può dirsi realizzata se non hai un lavoro, se i giovani non possono costruire il loro futuro, avere una casa, diventare autonomi. In Tunisia, la rivoluzione del 2011 ha abbattuto un regime corrotto, la transizione ha consolidato le istituzioni, abbiamo una Costituzione tra le più avanzate in questa parte di mondo, ma non basta, non può bastare. Perché sul piano sociale il bilancio è negativo: il tasso di disoccupazione è aumentato del 15% a livello nazionale e raggiunto il 25% nelle regioni interne. Quello tunisino è un popolo giovane, e se ai giovani non dai una prospettiva concreta di realizzazione, il futuro è a rischio”. 

Giovani senza futuro

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La Tunisia, inoltre, è il primo Stato di origine delle persone sbarcate in Italia nel 2019. Nell’area di confine tra Libia e Tunisia vige, ormai da tempo, un patto d’azione tra trafficanti di esseri umani e miliziani dell’Isis che, in rotta da Siria e Iraq, hanno fatto di quest’area frontaliera la trincea avanzata dello Stato islamico nel Nord Africa. Di estremo interesse è lo studio pubblicato dal Centro Tunisino per la Ricerca e lo Studio sul Terrorismo (Ctret) sui gruppi jihadisti attivi in Tunisia. Lo studio è stato condotto su un pool di 1.000 tunisini arrestati e incarcerati tra il 2011 e il 2018. Dalle verifiche è emerso che il 40% di questi elementi erano giovani laureati o diplomati, il 3,5% era rappresentato da donne, mentre 751 erano giovani sotto i 35 anni.

 Il Ctret ha analizzato anche come i gruppi jihadisti reclutano nuovi adepti. Il sistema più utilizzato è quello dell’indottrinamento individuale, effettuato tramite imam e predicatori, dentro e fuori le moschee, in particolare quelle gestite da salafiti, che si rivelano come il luogo privilegiato di trasmissione e propagazione di una versione fondamentalista e jihadista della religione musulmana. Seguono i social media e i media tradizionali. Lo studio indica anche che il 69% dei jihadisti tunisini monitorati era stato addestrato in Libia e il 21% in Siria, grazie alla facilità di poter viaggiare senza problemi da Tunisi in Turchia e da lì, poi, entrare in Siria. L’immagine della Tunisia che emerge dalla ricerca del Ctret è preoccupante, visto soprattutto l’alto potere attrattivo che l’ideologia jihadista ha mostrato di sapere esercitare sui giovani under 35, ovvero i nati durante il boom economico e demografico esploso in tutto il Maghreb negli anni Ottanta e Novanta. Una fase che, non a caso, molti analisti paragonarono all’epoca a una vera bomba ad orologeria” che negli anni a seguire sarebbe scoppiata nelle mani dei governi tunisini se non sarebbe stata gestita adeguatamente per tempo.  

E quel tempo è scaduto.

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