Tunisia, la rotta della morte in un mare senza più navi salvavite

C'è chi ha voluto svuotare il Mediterraneo delle navi delle Ong. E nelle acque internazionali le navi della marina italiana non possono avventurarsi. E così si consuma l’ennesima strage di innocenti nel mare

Migranti in Tunisia
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

18 Aprile 2021 - 10.04


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Nessuno si è mosso per salvarli. Perché c’è chi ha voluto svuotare il Mediterraneo delle navi salvavite delle Ong. Perché in quelle acque internazionali le navi della marina italiana non hanno l’autorizzazione ad avventurarsi. E così si consuma l’ennesima strage di innocenti nel mar della morte. 

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Strage continua

L’Unhcr, l’Agenzia Onu per i Rifugiati, e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) “sono profondamente addolorati dalla notizia di un naufragio avvenuto al largo della costa di Sidi Mansour, nel sud-est della Tunisia, nella sera di giovedì. I corpi di 41 persone, tra cui almeno un bambino, sono stati finora recuperati – si legge in una nota congiunta -. Secondo le segnalazioni delle squadre locali di Unhcr e Oim, tre sopravvissuti sono stati salvati dalla guardia costiera nazionale tunisina. Le ricerche sono andate avanti per il giorno di venerdì. In base alle prime informazioni, tutte le persone scomparse provenivano dall’Africa sub-sahariana.
Questa tragica perdita di vite umane sottolinea ancora una volta la necessità di rafforzare ed ampliare le operazioni di ricerca e salvataggio guidate dagli stati in tutto il Mediterraneo centrale, dove circa 290 persone hanno perso la vita finora quest’anno. La solidarietà in tutta la regione e il sostegno alle autorità nazionali nei loro sforzi per prevenire la perdita di vite umane e perseguitare i trafficanti dovrebbero essere una priorità. L’Oim e l’Unhcr chiedono la cooperazione di tutti gli stati costieri in relazione all’assistenza alle persone salvate. Prima dell’incidente di giovedì, 39 rifugiati e migranti avevano perso la vita al largo della costa vicino alla città tunisina di Sfax all’inizio di marzo. Finora quest’anno, le partenze via mare dalla Tunisia verso l’Europa sono più che triplicate rispetto allo stesso periodo del 2020.
L’Unhcr e l’Oim continuano a monitorare da vicino gli sviluppi e sono pronti a lavorare con le autorità nazionali per assistere e sostenere i sopravvissuti e i familiari delle persone disperse”..

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La rotta tunisina

Arrivano nelle aree di Porto Empedocle, Sciacca, Licata, nell’Agrigentino, su barconi di legno di 10-12 metri, che spesso vengono anche abbandonati. In alcuni casi gli occupanti delle imbarcazioni riescono a scendere e far perdere le loro tracce, in altri gli uomini della Guardia di Finanza o della Capitaneria di porto li hanno individuati.  Più a ovest, verso Trapani o Mazzara, gli immigrati sbarcano, invece, da gommoni che portano dalle 20 alle 40 persone alla volta. In alcuni casi, assieme agli esseri umani, sono stati recuperati anche carichi di sigarette o stupefacenti. 

E’ la rotta tunisina, che attraversa il confine tra Tunisia e Libia. A confermarlo è Reem Bouarrouj, responsabile immigrazione di Ftdes (il Forum des Droits Economiques et Sociaux ): “Tra gli immigrati in Libia – dice – sta iniziando a circolare la voce. Sanno che la Guardia Costiera e le milizie impediscono le partenze dalla costa e così puntano alla Tunisia”. Nell’area di confine tra Libia e Tunisia vige, ormai da tempo, un patto d’azione tra trafficanti di esseri umani e miliziani dell’Isis che, in rotta da Siria e Iraq, hanno fatto di quest’area frontaliera la trincea avanzata dello Stato islamico nel Nord Africa.

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Annota Paolo Howard ,in un documentato report su Affari Italiani: “Considerare la rotta tunisina quale mera alternativa a quella libica appare riduttivo. Sono i migranti tunisini a imbarcarsi dai porti di Sfax e Kerkenna, raramente gli stranieri…I protagonisti della rotta restano i giovani tunisini che, stretti nella morsa di una economia impoverita e di un clima politico asfissiante, fuggono a bordo dei social media prima ancora che delle imbarcazioni di fortuna”.

A Sud, le nostre frontiere esterne sono composte da Paesi che non sono solo più di transito, per migranti e rifugiati, ma di origine. E’ il caso, per l’appunto, della Tunisia. Sono i migranti tunisini a imbarcarsi dai porti di Sfax e Kerkenna, raramente gli stranieri (secondo il Forum tunisino dei diritti economici e sociali, tra il 2011 e il 2016 il 74,6% delle persone che hanno lasciato il Parse sono cittadini tunisini). Sebbene negli ultimi mesi il flusso di migranti sub sahariani lungo il confine tunisino-libico sia cresciuto (migranti che vengono in Tunisia per trovare lavoro e raccogliere i soldi per pagare i passeur), ad oggi i protagonisti della rotta restano i giovani tunisini che, stretti nella morsa di una economia impoverita e di un clima politico asfissiante, fuggono a bordo dei social media prima ancora che delle imbarcazioni di fortuna.

Parlano i Nobel tunisini

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La grande maggioranza del popolo tunisino – dice a Globalist Abdessatar Ben Moussa, avvocato, presidente della Lega per i diritti umani, uno dei membri del Quartetto per il dialogo nazionale tunisino, insignito, nel 2015, del Premio Nobel per la Pace – sostiene il processo democratico. Si tratta di un patrimonio di credibilità che non va disperso. Ma i rischi sono tanti, legati soprattutto alla situazione socio-economica. La difesa dei diritti umani è importante ma lo è altrettanto il rafforzamento dei diritti sociali. La democrazia si rafforza se si coniuga alla crescita economica, alla giustizia sociale, a realizzare prospettive di lavoro per i giovani. Non è un caso che i terroristi dell’Isis abbiano puntato a colpire il turismo, una delle fonti di entrata più importanti per la Tunisia.  Oggi i terroristi reclutano giovani emarginati non offrendo loro il miraggio del “Califfato ma un salario per combattere la Jihad. Per questo è fondamentale che l’Europa investa nella cooperazione con la Tunisia e più in generale con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. Per l’Europa non sarebbe un atto di generosità ma un investimento a rendere sul piano della stabilità e della sicurezza. Un investimento sul futuro”.

I “gelsomini” non bastano per sfamare un popolo. I diritti non si mangiano. Una “rivoluzione” non si consolida se non riesce a dare un tetto, un lavoro, un futuro ad un popolo giovane. A dieci anni dalla revolution yasmine, la Tunisia si riscopre inquieta, pervasa da un malessere sociale che investe tutti i settori della popolazione. Diplomati, laureati, professionisti: la protesta parte da lì. E dai ragazzi: un popolo sotto i 35 anni che si trova governato da una classe politica di ottuagenari.  La loro è anche una rivolta generazionale.

“Quello compiuto in questi dieci anni – rimarca Houcine Abassi, già Segretario generale dell’Ugtt (Union générale tunisienne du travail)  anche lui Premio Nobel per la Pace nel 2015 come membro del Quartetto per il dialogo – non è stato un percorso lineare, la transizione democratica è ancora in atto e non potrà dirsi conclusa se non affronta la grande questione che resta irrisolta ed anzi tende ad aggravarsi”. E quella “grande questione si chiama malessere sociale. L’ex capo del sindacato tunisino ne è assolutamente convinto: “La libertà – sostiene – non può dirsi realizzata se non hai un lavoro, se i giovani non possono costruire il loro futuro, avere una casa, diventare autonomi. In Tunisia, la rivoluzione del 2011 ha abbattuto un regime corrotto, la transizione ha consolidato le istituzioni, abbiamo una Costituzione tra le più avanzate in questa parte di mondo, ma non basta, non può bastare. Perché sul piano sociale il bilancio è negativo: il tasso di disoccupazione è aumentato del 15% a livello nazionale e raggiunto il 25% nelle regioni interne. Quello tunisino è un popolo giovane, e se ai giovani non dai una prospettiva concreta di realizzazione, il futuro è a rischio”. 

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Tutto ciò avviene in un periodo caratterizzato dalla pandemia che, a differenza di molti alti Stati africani, ha visto la Tunisia duramente colpita. Secondo un rapporto del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) “l’emergenza legata al Covid-19 sta esacerbando le fragilità socio-economiche della Tunisia e sta conducendo verso una crisi economica senza precedenti”.  Il capo della missione dell’FmI Chris Geiregat, come riportato da Agenzia Nova, ha dichiarato che “il futuro economico della Tunisia dipenderà dallo sviluppo e dall’adozione di un ambizioso piano di riforme”. 

Questo è l’auspicio. Ma la realtà, ad oggi, è tutt’altra cosa. “Mi sento morto. Il mio paese non mi rispetta, non ho più alcuna speranza. L’unica speranza che ho è partire.” Intervistato nel centro di Tunisi da un’emittente televisiva, così racconta con spaventosa fermezza un giovane che si appresta la notte stessa ad attraversare il mare con un gruppo di amici. 

I  fattori che spingono le persone a intraprendere un viaggio pericolosissimo si sono moltiplicati a seguito della pandemia, secondo Romdhane Ben Amor, responsabile comunicazione presso il Ftdes. È interessante notare il mutamento del fenomeno: non solo giovani uomini, ma sempre più donne e famiglie decidono di intraprendere il progetto migratorio alla ricerca di una vita migliore in Europa. “Oltre ai fattori socio-economici, la scintilla che ha scatenato quest’ultima ondata migratoria è da ricercarsi nella crisi politica che si protrae da febbraio. Un altro elemento è la rete di trafficanti dietro al quale si cela un’intera economia sotterranea — dalla logistica alla concezione delle imbarcazioni — che sta iniziando ad emergere nelle regioni, in particolare nelle regioni costiere.”

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Chi decide di migrare oggi ha maggiori informazioni riguardo ai diritti che tutelano i migranti. “La famiglia era il primo ostacolo per il progetto migratorio dei giovani. Ma questa resistenza comincia a diminuire in quanto i genitori, esasperati dalla loro condizione, si rendono conto che il percorso educativo dei loro figli non garantisce più la riuscita della famiglia e la possibilità di migliorare la loro condizione sociale. Le famiglie cominciano allora a investire in questo progetto, considerando la garanzia di non rimpatrio dei figli minori, o l’assistenza che i familiari con problemi sanitari e handicap possono ricevere.”

Quattro giorni fa, il 13 aprile, il primo ministro tunisino Hichem Mechichi ha ricevuto al palazzo del governo alla Kasbah l’ambasciatore d’Italia in Tunisia, Lorenzo Fanara, e l’ambasciatore di Francia, André Parant, alla presenza del ministro dell’Economia, delle Finanze e del sostegno agli investimenti, Ali Kooli. 
 L’ incontro, si legge in una nota del governo di Tunisi, ha avuto al centro delle discussioni “la difficile situazione economica” del Paese e “il programma di riforme economiche che il governo sta preparando”.

I due ambasciatori “hanno rinnovato in questa occasione la volontà di Italia e Francia  di sostenere la Tunisia al fine di superare le difficoltà economiche, in particolare in questa contingenza di pandemia da Coronavirus e delle sue riflessioni negative sulla situazione economica”. 

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Intanto, in mare si continua a morire. 

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