Racconta i 30 anni di “successi” d’Israele a Gaza. Li racconta con quella capacità di analisi e di scrittura che l’hanno resa, giustamente, una firma internazionale. Se c’è una giornalista che conosce ogni piega della realtà palestinese, il suo nome è Amira Hass. Su Haaretz ha dato la sua valutazione su quanto è accaduto negli undici giorni della (quarta) guerra a Gaza. E dei “successi” di cui Israele si è macchiato.
“Questo pezzo è stato scritto partendo dal presupposto che non sono stupidi – esordisce Hass – Che i leader di questo Stato ebraico sanno e intendono quello che fanno quando torturano i palestinesi di Gaza, trasformando così Mohammed Deif e Abu Obeida in eroi nazionali. Ancor prima che il pietoso tripudio della vittoria si fosse placato a Gaza, il ministro della Difesa Benny Gantz ha promesso ai suoi residenti altre sofferenze del tipo che Israele eccelle nel causare, non meno di quanto eccelle negli attacchi militari post-moderni. Gantz ha promesso di continuare la detenzione di massa senza data di rilascio nella colonia penale staccata dal mondo esterno, la cui acqua non è potabile e la cui terra è satura di liquami e resti di armi sofisticate. Abbiamo già sentito le dichiarazioni che Gantz ha fatto domenica ai media: ‘Un livello umanitario di base’, ‘un meccanismo di aiuti che aggiri Hamas’, “’ino alla restituzione dei dispersi’, ‘per rafforzare i moderati’. Cosa dice di questi leader che continuano a ripetere sempre le stesse politiche? Prima di tutto, significa che questo non è solo un modo astuto per ostacolare lo sforzo di Yair Lapid di diventare primo ministro. La politica di rinchiudere gli abitanti di Gaza non è nata con il sospetto criminale Benjamin Netanyahu o con Gantz, che sta cercando di liberarsi dalla sua etichetta di pasticcione. Stanno continuando una politica che è stata impostata dai loro predecessori nel Likud e nel Labor.
Ripetere la stessa politica di separazione e di soffocamento di Gaza significa che, nel complesso, ha successo. Una chiusura serrata, allentata leggermente, serrata di nuovo, poi un blocco – Israele ha iniziato questa politica nel 1991, prima che Hamas avesse un esercito e quando il movimento di maggioranza, Fatah, ha promesso al suo popolo l’indipendenza in uno stato che copre il 22% della Palestina storica. Trent’anni dopo, l’esercito di Hamas è ammirato, mentre il movimento Fatah è diluito, corrotto e odiato, e Israele sceglie dai vari accordi solo ciò che promuove gli insediamenti. È vero, Israele ha subito una grande sconfitta: Come dimostrato in queste ultime settimane, nonostante tutte le tecniche divisive che usa, e non solo a Gaza, i palestinesi tra il fiume e il mare così come quelli della diaspora e dell’esilio stanno dimostrando la loro unità come popolo, il cui legame con la sua patria non fa che rafforzarsi. Ma nel frattempo – e il tempo è un fattore importante – i successi israeliani affondano radici più profonde. Senza ignorare i fallimenti e i difetti del sistema politico palestinese, la divisione geografico-politica e l’esistenza di due non-governi palestinesi ostili e rivali sono un risultato diretto del disimpegno unilaterale da Gaza guidato da Ariel Sharon. Questa divisione politica è dirompente per la lotta palestinese ed è un’esplicita conquista israeliana. Eccone alcuni altri: La chiusura e la negazione della libertà di movimento diluiscono le forze e i talenti creativi e produttivi. Questi vengono investiti in campagne di attrito burocratico per portare i prodotti più essenziali nella Striscia, per fare un magro sostentamento e per ottenere il permesso di uscire per le cure mediche o per gli studi. I talenti vengono sprecati, erosi. O tradotti nella produzione di droni e razzi e nell’illusione di un potere inebriante.
Esperienze umane come i viaggi, la conoscenza di altre culture, la spontaneità, gli incontri con la famiglia e gli amici, le opportunità di istruzione avanzata e la possibilità di pianificare il prossimo anno – o anche il prossimo mese – sono negate ai residenti di Gaza. La chiusura e il blocco delle esportazioni e delle importazioni causano disoccupazione e povertà continue. Tutti i talenti e lo spirito di lotta e di unità non cancellano l’umiliazione che centinaia di migliaia di abitanti di Gaza hanno bisogno di assistenza e sono oggetto di pietà. Tutta la solidarietà internazionale degli ultimi 13 anni non ha cambiato questi fatti.
Così i giovani, per i quali Israele ha bloccato qualsiasi futuro nella loro terra natale, si trovano di fronte a tre strade diverse: La povertà e la noia, unirsi all’esercito di Dio per diventare martiri, o l’emigrazione. E l’emigrazione, o il pensiero di essa, da parte di migliaia di giovani promettenti e robusti, è presumibilmente volontaria, ma è in realtà un’espulsione camuffata. Come si può non vedere questo come una conquista sionista?”, conclude Amira Hass.
Cartoline dall’inferno
Da Gaza City, nei giorni e nelle notti di guerra, Raba Akram ha scritto per Repubblica un reportage tra i dannati della Striscia. “I l panico, la paura, il cielo illuminato dai bombardamenti e il rumore delle esplosioni: Gaza ha vissuto fra giovedì e venerdì la peggiore notte dal 2014.Centinaia di palestinesi in fuga si sono rifugiati nelle scuole gestite dall’Unrwa (agenzia Onu per i palestinesi) per tentare di fuggire alle bombe che piovevano dal cielo.
Fra loro c’era Nisreen al Masri che con la sua famiglia ha passato quella che descrive come “una notte che non dimenticheremo mai”. Nei giorni scorsi, all’inizio dell’offensiva israeliana, cinque dei miei cugini, due adulti e tre bambini, sono stati uccisi in pieno giorno mentre raccoglievano grano a Beit Hanoun, nel Nord della Striscia: ‘Quando li abbiamo seppelliti pensavamo che quello fosse il peggio: non è stato così’, dice.
Giovedì notte, quando l’intensità dei bombardamenti è diventata insopportabile, ha indossato una tunica piena di polvere, una sciarpa sulla testa e delle pantofole infradito ai piedi ed è fuggita correndo con la famiglia, alla ricerca di un rifugio: ‘In valigia abbiamo messo i documenti, delle torce e i nostri risparmi – ci racconta – ho cercato di evitare che i miei figli piangessero e ho detto loro che saremmo andati in un luogo sicuro. Ma quando abbiamo messo il piede fuori di casa ci siamo trovati davanti a una scena scioccante: decine di famiglie che come noi camminavano nel buio più totale. Il pianto dei bambini. La disperazione. E i bagliori delle esplosioni a illuminare la nostra strada’. ‘Abbiamo camminato per chilometri – prosegue – tutti i rifugi erano pieni. Solo quando siamo arrivati al campo profughi dell’Unrwa di Jabalia ho respirato, perché ho capito che qui potevamo restare: dai miei polmoni è uscito dolore. Adesso non abbiamo nemmeno una coperta per proteggerci dal freddo. Ma io sorrido mentre abbraccio mia figlia di tre anni perché so che ora è nel posto più sicuro dove potevo portarla’.
Anas Arafat, un padre di famiglia anch’egli fuggito nella notte, semplicemente non ne può più. Quanto Nasrin è terrorizzata, altrettanto lui appare determinato. Tanto da sposare una tesi che da queste parti non è molto popolare: chiedere ad Hamas e agli altri gruppi militanti di non arrendersi, non cercare una tregua. Almeno fino a quando questo non sarà di lunga durata. ‘Voglio che questa sia l’ultima volta in cui sono costretto a lasciare la mia casa nella notte senza sapere dove andrò – ci dice – non riesco a togliermi dalla testa le immagini dei morti. E della mia famiglia che cammina al buio senza sapere dove mettere i piedi. Questo è un giorno che non dimenticherò mai, che racconterò ai miei nipoti e loro alle generazioni che verranno dopo di noi’.
Lo shock, fra chi ha raggiunto il campo di Jabalia, è palpabile: è nello sguardo di ogni persona, che sia un uomo, una donna o un bambino. ‘È come aver vissuto sulla propria pelle la Nakba (la cacciata dei palestinesi da parte degli israeliani nel 1948 ndr): lasciare la propria casa senza sapere se mai si potrà fare ritorno”, ci spiega Mohammed, un altro profugo. ‘La guerra del 2014 non è nulla rispetto a quello che abbiamo visto oggi: la distruzione dei palazzi più alti, l’assassinio barbarico di civili, l’enorme numero di bombe e di colpi di mortaio lanciati. Donne e bambini non sono colpevoli: eppure, guardateli, eccoli qui con il sangue gelato nelle vene, con ancora indosso i loro pigiami. Mentre il mondo sta a guardare senza dire né fare nulla’”.
I più indifesi tra gli indifesi
Sessantuno sono i bambini palestinesi morti negli undici giorni di guerra. “Ogni volta che c’è un attacco aereo ci spaventiamo, ogni volta che proviamo a scappare, quando arriviamo alla porta c’è un altro attacco e corriamo dentro più veloce che possiamo”. I bambini di Gaza raccontano il terrore che stanno vivendo in uno dei territori più martoriati da decenni. Ogni volta che nascondo la testa sotto il cuscino, c’è un altro attacco e mi sveglio terrorizzato. Tutte le volte che c’è un attacco aereo o un rumore forte iniziamo a piangere. Anche quando cerchiamo di andare a dormire ci sono attacchi aerei e ci svegliamo spaventate. Vogliamo vivere come i bambini negli altri Paesi che possono andare a giocare nei cortili e invece viviamo così. Perché tutto questo sta succedendo a noi?”, dice r Khaled, 10 anni a Gaza, in un video realizzato da Save the Children.
Laila Barhoum, palestinese, racconta a Giulia Berardelli di HuffPost il dramma del suo popolo. Un dramma vissuto sul campo. “Per la popolazione di Gaza, la lotta per la sopravvivenza era la norma già prima dell’escalation. L’occupazione israeliana e il blocco imposto da Israele sulla Striscia hanno determinato un’economia deteriorata e servizi ridotti ai minimi termini, con più della metà della popolazione che è priva di mezzi di sostentamento. Con l’escalation, le persone sono chiuse in casa, non hanno accesso al supporto di cui quotidianamente hanno bisogno per vivere. La chiusura dei valichi di frontiera e dei punti di ingresso delle merci ha determinato la penuria di carburante: già normalmente le persone a Gaza hanno quattro ore di elettricità al giorno e la fornitura di servizi essenziali come l’acqua potabile non è garantita. Va da sé che è impossibile aderire alle misure sanitarie anti-Covid, quando devi lottare per salvarti la vita”.
“Il figlio di una mia amica ha costruito una fortezza per proteggersi. La maggior parte dei bambini a Gaza trascorre le notti in questo modo, riparandosi con quello che hanno. Insieme alle loro mani che coprono le orecchie”, si legge nella didascalia di una foto condivisa da Laila su Twitter. “Quando ho visto la foto della mia amica ho provato una forte commozione. Talvolta io stessa vorrei avere una fortezza in cui isolarmi e proteggermi… immagino di avere i poteri di Harry Potter per gettare un sortilegio-scudo sui bambini di Gaza. I miei nipoti pendono dalle labbra della madre, cercano nel suo corpo una sicurezza che lei non può dare… è una situazione impossibile per un adulto, figuriamoci per un bambino che non ha gli strumenti e la maturità per capire. L’unica cosa che puoi fare è abbracciarli e dire loro che andrà tutto bene, anche se sai che non è così”.
“I bambini di Gaza – rimarca Jennifer Moorehead, già direttore di Save the Children nei Territori Palestinesi Occupati – sono tristemente prigionieri del conflitto più politicizzato del mondo e la comunità internazionale non ha saputo reagire adeguatamente alle loro sofferenze. L’occupazione da parte di Israele e le divisioni nella leadership palestinese stanno rendendo la vita impossibile. Se hai 10 anni e vivi a Gaza hai già subito tre terribili escalation del conflitto. I bambini di Gaza hanno già sofferto 10 anni di blocco e di minacce continue a causa del conflitto. Vivere senza accesso ai servizi indispensabili come l’elettricità ha conseguenze gravi sulla loro salute mentale e sulle loro famiglie. Stiamo assistendo ogni giorno ad un aumento del livello di ansia e aggressività”.
La mancanza di energia elettrica ha un grave impatto sulla vita dei bambini di Gaza, che non possono avere accesso ad acqua potabile sufficiente o nutrirsi di cibi freschi, essere assistiti dai servizi sanitari e di emergenza quando servono o mantenere un livello minimo di igiene per mancanza di acqua corrente. Non possono dormire sufficientemente durante la notte per il troppo caldo ed essere quindi riposati per studiare a scuola, o fare i compiti o giocare a causa dell’oscurità.
“Qui è diverso dagli altri paesi che hanno l’energia elettrica per tutto il giorno, la nostra vita non è come la loro. Il mio sogno più grande è poter essere come gli altri bambini che vivono in pace, in sicurezza e hanno l’elettricità”, dice agli operatori di Save the Children Rania che ha 13 anni e vive a Gaza.
Rania e i bambini di Gaza hanno conosciuto solo la guerra. E le sue conseguenze che segnano l’esistenza fin dalla più giovane età.
Il primo dato emerso da uno studio dell’Unicef successivo alla guerra di Gaza dell’estate 2014, indica che il 97% dei minori interpellati aveva visto cadaveri o corpi feriti, e che il 47% di questi aveva assistito direttamente all’uccisione di persone.
I sintomi rilevati durante lo studio includevano: continui incubi e flashback; paura di uscire in pubblico, di rimanere soli, o di dormire con le finestre chiuse, nonostante il freddo; più nello specifico, i disturbi fisici più frequenti erano disturbi del sonno, dolori corporei, digrigno dei denti, alterazioni dell’appetito, pianto continuo, stordimento e stati confusionali; quelli emotivi includevano rabbia, nervosismo eccessivo, difficoltà di concentrazione e affaticamento mentale, insicurezza e senso di colpa, paura della morte, della solitudine e dei suoni forti.
La conseguenza più diffusa era il Disturbo post-traumatico da stress (DPTS), ovvero l’insieme dei disagi psicologici che possono essere una possibile risposta dell’individuo a eventi traumatici o violenti.
Una prigione a cielo aperto. Un milione di bambini intrappolati, terrorizzati, che hanno conosciuto solo guerra, violenza, desolazione, paura. Questi i “successi” d’Israele nella Striscia di Gaza.