Una campagna da sostenere. Un banco di prova per il “governo del cambiamento” post-Netanyahu. Da alcuni mesi sindacati, Ong, associazioni civiche in Italia, Francia, Belgio, Francia, Svezia lavorano con i parlamenti nazionali ed europeo ai fini di un atto di riconoscimento dello stato di Palestina da parte dei governi europei. Una iniziativa che ha tra i suoi promotori Jcall, organizzazione che raggruppa cittadini ebrei europei e amici di Israele che aspirano ad una pace in Medio Oriente sulla base di un accordo fra israeliani e palestinesi secondo il principio di “due stati per due popoli. Tra i partners, anche il Policy Working Group, un circolo di accademici ed ex diplomatici israeliani.
Il 29 giugno la campagna sarà lanciata con un evento pubblico, con molteplici interventi fra cui Mossi Raz, eletto con il Meretz al Parlamento israeliano.
Una campagna per una pace giusta
“Noi, rappresentanti della società civile e delle organizzazioni sindacali europee, israeliane e palestinesi che lavorano per promuovere la giustizia sociale e una risoluzione giusta e sostenibile del conflitto israelo-palestinese basata sulla fine dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi e sull’attuazione della soluzione dei due Stati, ci siamo riuniti per lanciare questo appello comune e urgente all’Unione europea, ai singoli Stati membri dell’UE e agli altri paesi europei, affinché riconoscano senza indugio lo Stato sovrano di Palestina e promuovano il suo status nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a quello di uno Stato membro a pieno titolo.
Entro due anni, saranno segnati i 75 anni dell’adozione della risoluzione 181 dell’Onu sulla spartizione della Palestina e la creazione dello Stato di Israele, eppure il popolo palestinese rimane sotto il giogo dell’occupazione israeliana, tenuto in ostaggio dalla volontà di Israele di negoziare il suo futuro, senza una fine in vista. La Striscia di Gaza è sotto assedio e in preda a una crisi umanitaria, Gerusalemme Est e i villaggi palestinesi della sua periferia sono sotto annessione illegale dal 1967, e l’invasione israeliana delle terre palestinesi in Cisgiordania continua senza sosta, minacciando la vitalità di un futuro Stato di Palestina e in flagrante violazione della quarta Convenzione di Ginevra e del diritto consuetudinario internazionale.
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo), che si batte per la giustizia sociale da più di 100 anni, ha ripetutamente espresso la sua opposizione agli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati, in linea con la risoluzione 2334/2016 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha ribadito che gli insediamenti non hanno alcuna validità legale e costituiscono una flagrante violazione del diritto internazionale. L’Ilo ha evidenziato l’impatto dell’occupazione sui lavoratori palestinesi, soprattutto donne e giovani, e ha guidato gli sforzi per promuovere il lavoro dignitoso in Palestina attraverso il dialogo sociale . Il riconoscimento dello Stato di Palestina e la responsabilità delle imprese secondo il diritto internazionale aiuterebbero a porre fine alle pratiche di lavoro abusive di Israele e al suo sfruttamento dei lavoratori palestinesi.
Numerose risoluzioni delle Nazioni Unite che sostengono il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione, che si oppongono all’impresa di insediamento illegale di Israele, e che chiedono negoziati tra le parti non sono riuscite a garantire una risoluzione del conflitto. Trent’anni dopo il lancio della Conferenza di Pace di Madrid, il popolo palestinese rimane apolide e continua a vedersi negati i più elementari diritti civili e umani, mentre il governo israeliano continua ad agire unilateralmente per radicare l’annessione di fatto a Gerusalemme Est e dintorni e in Cisgiordania attraverso l’espansione degli insediamenti.
Chiediamo all’Europa di riconoscere l’urgenza e di guidare un’iniziativa diplomatica che miri a raggiungere una risoluzione giusta e sostenibile di questo conflitto di lunga data attraverso tre principi guida nella risoluzione dei conflitti: multilateralismo, difesa dei diritti umani e rispetto dello stato di diritto. Il riconoscimento dello Stato di Palestina è un passo importante verso questo fine. L’impegno assunto dall’Europa nella Dichiarazione di Venezia del giugno 1980, che riconosce il diritto del popolo palestinese ad esercitare pienamente l’autodeterminazione, deve essere attuato senza ulteriori ritardi.
Il riconoscimento dello Stato di Palestina sulla base dei confini del 1967, e con Gerusalemme Est come capitale, è imperativo per fornire ai palestinesi un orizzonte diplomatico e per creare una parità di stima tra le parti prima dei negoziati.
Esortiamo le istituzioni europee, le organizzazioni della società civile, i sindacati e i cittadini in generale a unirsi a noi in questo appello per aiutare a raggiungere una soluzione a due Stati e una pace giusta nella regione, sostenendo a livello locale, nazionale e internazionale il riconoscimento dello Stato di Palestina.
Promemoria per un ministro “smemorato”
Un passo indietro nel tempo. A Palazzo Chigi è ancora insediato Giuseppe Conte. Alla Casa Bianca c’è Donald Trump. E a guidare Israele Benjamin Netanyahu. Con l’avallo dell’amico Donald, Netanyahu si appresta a mettere in atto il piano per l’annessione di parti della Cisgiordania occupata. In questo scenario, settanta parlamentari del centrosinistra e del M5S scrivono una lettera a Conte chiedendogli di “condannare” lo Stato di Israele per l’annessione di alcuni territori della Cisgiordania. Le deputate e i deputati che hanno sottoscritto la lettera chiedono al premier “non soltanto di condannare nel modo più esplicito la prospettiva del Governo israeliano, ma anche di adoperarsi attivamente, prima della data dell’1 luglio 2020 in tutte le sedi europee e internazionali, per scongiurarne la realizzazione. Le cui conseguenze potrebbero essere devastanti per l’intera regione”.
“Il 20 aprile scorso (siamo nel 2020,ndr) – scrivono i parlamentari – Benjamin Netanyahu e Benny Gantz hanno raggiunto un’intesa per varare in Israele un ‘governo di emergenza’, entrato ufficialmente in carica il 17 maggio, che nel suo programma contiene il progetto, ispirato dal Presidente americano Donald Trump, da sottoporre alla Knesset il prossimo 1 luglio, di annessione di alcuni territori della Cisgiordania”. “Numerose sono state le reazioni critiche verso questa decisione – ricordano i deputati. dal segretario generale dell’Onu António Guterres all’Alto rappresentante per la politica estera europea Josep Borrell, anche a seguito della riunione del Consiglio Affari Esteri della UE del 15 maggio, dalla Lega Araba a diversi governi europei, compreso il nostro, attraverso il ministero degli Affari esteri, tutti hanno ribadito due questioni fondamentali: che tale decisione è in aperta violazione del diritto internazionale e delle risoluzioni delle Nazioni Unite e che essa, qualora realizzata, porrebbe una pietra tombale su ogni rilancio del processo di pace in Medio Oriente e sulla prospettiva di due popoli e due Stati che convivano in pace e sicurezza reciproca”. “È intervenuto anche l’ex Presidente della Knesset Avraham Burg – sottolineano – lanciando un appello ai parlamentari degli Stati europei e ribadendo che l’acquisizione di territori mediante l’uso della forza è esplicitamente vietata dal diritto internazionale”.
“Nella stessa direzione – concludono – si sono espressi parlamentari di diversi Paesi europei, come un folto gruppo di parlamentari britannici di maggioranza e di opposizione che hanno indirizzato una lettera aperta al primo ministro Boris Johnson”.
Sostegno al dialogo
“E’ una presa di posizione importante, in un passaggio drammatico per il processo di pace- aveva detto in esclusiva a Globalist Hanan Ashrawi, più volte ministra dell’Autorità nazionale palestinese ed oggi membro dell’esecutivo dell’Olp -. Il piano di annessione israeliano che dovrebbe prendere avvio il prossimo 1° luglio sancisce la morte del dialogo e della soluzione a due Stati, istituzionalizzerebbe il regime di apartheid in Cisgiordania, farebbe carta straccia delle risoluzioni Onu e della legalità internazionale. In questo scenario – prosegue Ashrawi – è di fondamentale importanza la presa di posizione dell’Europa e dei singoli Governi. La presa di posizione dei parlamentari italiani va in questa direzione. E’ un messaggio di speranza per quanti, in Palestina, continuano a battersi per una pace giusta, tra pari”.
Sulla stessa lunghezza d’onda è l’Israele del dialogo, che ha in Tamar Zandberg, parlamentare del Meretz, la sinistra pacifista israeliana, una delle figure più rappresentative. “I firmatari di questa risoluzione – dice a Globalist Zandberg, oggi ministra della Protezione ambientale nel governo appena insediatosi, il primo dopo dodici anni senza Netanyahu – si sono mostrati amici d’Israele, perché sostenitori di una pace che contempli due diritti egualmente fondati: il diritto alla sicurezza d’Israele e il diritto dei palestinesi ad uno Stato indipendente. Lo abbiamo sempre sostenuto: pace e occupazione dei Territori palestinesi sono tra loro inconciliabili. Benny Gantz – prosegue la parlamentare israeliana – ha ceduto alla destra radicale, che ha sempre fatto dell’annessione un caposaldo non solo politico ma anche ideologico della sua azione. Chi in Italia e in Europa condanna questa politica si comporta da vero amico d’Israele, perché gli amici, quelli veri, non assecondano scelte pericolose ma provano ad aiutarti a non metterle in pratica”.
Ora la palla passa nel campo del Governo. Al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, vorremmo ricordare quanto segue: “Quello che diciamo facciamo: se il M5S arriverà al governo, riconosceremo lo Stato di Palestina». Ad affermarlo è lui stesso, in un incontro con i giornalisti italiani ad Hebron nella sede del Tiph (Temporary international presence in Hebron) di cui fa parte un contingente italiano di carabinieri. “È un indirizzo politico – ha spiegato Di Maio che si trovava in visita in Israele e Palestina a capo di una delegazione pentastellata – che avevamo all’opposizione e che quindi avremo anche in maggioranza”. Era il 9 luglio 2016.
“Un riconoscimento che ovviamente – ha aggiunto il capogruppo in commissione affari esteri alla Camera Manlio Di Stefano, oggi sottosegretario agli Esteri – si deve basare sui confini del ’67 e che deve comportare anche il ritiro dal Golan. È quello che diremo agli israeliani”. Il tema, raccontano le cronache di quei giorni, è stato affrontato anche nell’incontro con il sindaco di Betlemme Vera Bahboun. Secondo Di Maio, il riconoscimento avrebbe un effetto trascinamento sulle altre nazioni europee. “Perché è la Ue – ha aggiunto – che deve avere un peso fondamentale nella questione, visto anche gli attori abituali si sono usurati”. Ed ancora: ““Come già ricordato tante volte, le colonie israeliane in territorio palestinese sono illegali secondo tutta la comunità internazionale e dunque ostacolo alla pace. Ce lo ha ricordato l’Onu con numerose risoluzioni. Questo è un elemento fondamentale se si vuole la pace in questa terra martoriata”. Non basta? “Abbiamo avuto modo di far visita ai nostri carabinieri della missione Tiph a Hebron – continuava l’allora vicepresidente della Camera – . Qui abbiamo ascoltato le parole del responsabile della missione e dei vertici del contingente italiano. Ci hanno spiegato come circa l’80% dei conflitti nella zona siano dovuti ai comportamenti dei coloni israeliani”.
Parole sacrosante. Senza memoria non c’è futuro. Ora Di Maio è ministro degli Esteri, è da tempo al Governo. “Quello che diciamo, facciamo…”. E’ tempo di dimostrarlo, signor Ministro. Un modo c’è: riconoscere lo Stato di Palestina.
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