In Polonia c’è chi dice No. No all’attacco ai diritti delle donne. No ad una deriva fondamentalista clericale. No al frontale con l’Europa.
C’è chi dice No
Scrive Dario Prestigiacomo su Europatoday: “Da Varsavia a Cracovia, da Danzica a Katowice: sono state circa 160 le manifestazioni che si sono tenute domenica 10 ottobre in tutti gli angoli della Polonia per protestare contro la sentenza della Corte suprema che, affermando il primato della legge nazionale su quella comunitaria, ha di fatto aperto all’uscita del Paese dall’Unione europea. Solo nella Capitale, secondo gli organizzatori, sono stati tra gli 80 e i 100mila i partecipanti alla manifestazione indetta dall’opposizione di Piattaforma civica. Tra questi, anche il nipote del premier Mateusz Morawiecki, il quale, secondo quanto riferiscono i media locali, è stato arrestato con la forza dalla polizia. Ma messe da parte le inevitabili tensioni tra alcuni manifestanti e le forze dell’ordine, la grande mobilitazione pacifica nel Paese ha dimostrato che, al di là del braccio di ferro politico e legale tra il governo guidato dal partito di destra PiS e Bruxelles, la Polonia è fortemente europeista. Secondo un recente sondaggio sondaggio, l’88 per cento dei polacchi è contrario a una eventuale uscita dall’Ue. Un dato che corrisponde a un recente sondaggio Eurobarometro, secondo cui appena il 3 per cento degli intervistati si è detto contrario alla permanenza della Polonia nel blocco, una delle percentuali più basse tra i 27 Paesi membri (quella in Italia, per esempio, è il doppio). Del resto, l’adesione all’Ue per la Polonia è coincisa con una crescita record dell’economia del Paese, e i lauti finanziamenti europei non possono essere certo considerati marginali in questo boom. Se nel 2004, anno dell’ingresso nell’Ue, il Pil polacco ammontava a 220 miliardi di euro, oggi il prodotto interno lordo supera i 513 miliardi. Nello stesso arco di tempo, la Polonia ha ricevuto da Bruxelles fondi pari 132 miliardi, tra quelli che ha ricevuto e quelli versati, risultando di gran lunga il più grande beneficiario netto del bilancio europeo. Nel 2020, l’incasso di fondi Ue valeva il 2,5% del Pil.
Ecco perché non stupisce che lo stesso governo di Varsavia continui a sostenere di essere d’accordo con il coro zostajemy (“noi restiamo”) intonato dai manifestanti ai cortei di domenica. Tanto più che da qui al 2027, la Polonia dovrebbe ricevere oltre 173 miliardi tra bilancio Ue e Recovery fund, più o meno il 10% dell’intera spesa di Bruxelles per il rilancio dell’Europa. E questo in un Paese che continua ad avere tassi di crescita del Pil che hanno pochi eguali nell’Ue. Il PiS questo lo sa, ma sa anche che la transizione ecologica rischia di mettere a nudo i limiti di un’industria che dipende ancora da produzioni inquinanti e da fonti energetiche fossili. Nel 2019, il carbone e la lignite garantivano l’80% dell’elettricità consumata in Polonia”.
Il Donald buono
“Vogliamo una Polonia indipendente, europea, democratica, rispettosa della legge e giusta. Questi principi sono oggi schiacciati da un potere privo di coscienza e moralità”, ha scandito il promotore dell’iniziativa, l’ex presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. “Mi rivolgo a tutti coloro che vogliono difendere la Polonia europea e li invito a venire alla piazza del Castello, a Varsavia, domenica alle 18. Solo insieme possiamo fermarli”, aveva scritto su Twitter due giorni fa. I polacchi hanno accolto il suo invito non solo nella capitale, manifestazioni parallele si sono svolte a Cracovia, Breslavia, Poznan e Kalisz e altre città. “Non c’è ora cosa più importante che difendere la Polonia in Europa” ha detto Tusk rivolgendosi alla marea di persone riunite nella Piazza del Castello di Varsavia.
Lech Walesa, che ha vinto il Premio Nobel per la pace per la sua opposizione al regime comunista polacco, ha parlato alla folla a Danzica, accompagnato dagli applausi.
Orban si schiera
Il primo ministro ungherese Viktor Orban ha firmato una risoluzione del governo che accoglie favorevolmente la sentenza della Corte costituzionale polacca secondo cui le leggi dell’Ue non prevalgono sulla Costituzione del Paese. Nella risoluzione, il governo ungherese invita le istituzioni europee a rispettare la sovranità dei 27 Stati membri, ha detto all’agenzia di stampa ungherese Mti il portavoce di Orban, Bertalan Havasi. La risoluzione sostiene che sono state le cattive pratiche delle istituzioni dell’Ue a innescare l’esame della corte polacca sulla questione del primato legale. “Il primato del diritto dell’Ue dovrebbe applicarsi solo nelle aree in cui l’Ue ha competenza e il quadro giuridico è stabilito nei trattati istitutivi dell’Ue”, si legge nel documento ungherese. La risoluzione afferma inoltre che le istituzioni europee sono obbligate a rispettare le identità nazionali degli Stati membri e che le corti e i tribunali costituzionali hanno il diritto di esaminare la portata e i limiti delle competenze di Bruxelles. L’Ungheria prende dunque posizione sul dibattito in corso dopo la storica sentenza della Corte costituzionale di Varsavia secondo cui il trattato di adesione all’Ue della Polonia è in parte incostituzionale in quanto contrasta con alcuni punti della Costituzione polacca. Il Tribunale Costituzionale si è pronunciato così dopo numerosi ricorsi e richieste del governo polacco, che l’aveva interpellato sulla preminenza o meno del diritto polacco su quello comunitario in caso di conflitto. Nei mesi scorsi è esploso lo scontro tra Varsavia e Bruxelles sull’istituzione, nel 2017, di una sezione disciplinare presso la Corte Suprema polacca che, secondo l’Ue, lederebbe l’indipendenza e l’autonomia dei giudici. La tensione aveva toccato il picco lo scorso luglio, quando il Tribunale costituzionale polacco aveva dichiarato incostituzionale l’applicazione degli ordini della Corte di giustizia Ue al sistema giudiziario polacco. Secondo il Tribunale Costituzionale polacco, “l’Ue non ha la competenza per valutare la giustizia polacca e il suo funzionamento
Sulla questione è intervenuto nei giorni scorsi il presidente del Parlamento europeo David Sassoli: “La decisione della Corte polacca è preoccupante. La supremazia dei trattati europei è indiscutibile. Noi su questo saremo inflessibili. Mi auguro che vi sia ancora la possibilità di evitare una crisi irreversibile. Tuttavia dev’essere chiaro che il primato del diritto europeo sul diritto nazionale non può essere messo in discussione”. In un’intervista a Repubblica, Sassoli ha detto che i trattati europei non prevedono l’espulsione. Però esiste l’art. 7 che di fatto sospende l’adesione all’Ue. “L’Unione -ha affermato – ne ha già avviato la procedura di attivazione nei confronti della Polonia. La Commissione è impegnata in un negoziato con le autorità polacche proprio sui principi fondamentali, il cui mancato rispetto rischia di bloccare l’approvazione del piano di ripresa della Polonia. Il Parlamento europeo si è battuto per l’adozione del regolamento che condiziona l’attuazione del bilancio al rispetto dello stato di diritto: penso sia il momento di valutarne l’applicazione concreta”.
“I nostri Trattati sono molto chiari. Tutte le sentenze della Corte di giustizia Ue sono vincolanti e la legge Ue ha il primato sulla legge nazionale. Useremo tutti i poteri che abbiamo ai sensi dei Trattati per assicurarlo”. Così la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, sulla sentenza della Corte costituzionale polacca. “Sono profondamente preoccupata”, ha fatto anche sapere von der Leyen, spiegando di aver “dato istruzione ai servizi della Commissione di fare un’analisi approfondita e veloce” della decisione per decidere i passi successivi.
Scene di un tempo che ritorna
“Duemila soldati dispiegati, coprifuoco serale, nessuna manifestazione è autorizzata. La prima volta dal 1981, dai tempi del comunismo. Da quando c’era il Muro di Berlino e chi s’ immaginava ne avrebbero costruito un altro qui, poco sopra Lublino. Posano due chilometri di filo spinato al giorno. Calcolano le spaziature. L’avvolgono a triplo giro. Allineano le estremità. Piantano le staffe. …. Lo faremo uguale agli ungheresi», aveva promesso in agosto il ministro dell’Interno, e così è”. Fin qui Francesco Battistini che sul Corriere racconta che cosa accade lungo la linea del confine tra Polonia e Bielorussia.
L’indipendenza del sistema giudiziario sotto minaccia
Secondo il Rapporto 2019-2000 di Amnesty International, “in Polonia l’indipendenza del sistema giudiziario, fondamentale per garantire processi equi e per la difesa dei diritti umani, è stata sfrontatamente minacciata da parte del partito al potere con azioni volte a controllare giudici e tribunali. Giudici e procuratori si sono ritrovati a rischiare un procedimento disciplinare per aver fatto sentire la propria voce in difesa del sistema giudiziario e di diventare a loro volta vittime di violazioni dei diritti umani. Molti sono stati oggetto di campagne diffamatorie sui mezzi di comunicazione di stato e sui social”.
“L’intolleranza verso le minoranze religiose ed etniche ha spesso assunto la forma di violenza e discriminazione”, rimarca Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “In Polonia, ad esempio, dove l’indipendenza del sistema giudiziario, componente essenziale dello stato di diritto, è finita sotto attacco quando il partito di governo ha adottato misure sempre più ardite per controllare giudici e tribunali”, annota Noury.
Il veto sulle famiglie arcobaleno e sull’infanzia.
Pochi giorni fa la Polonia, insieme all’Ungheria, ha posto il veto sulle conclusioni del Consiglio Europeo sulla Giustizia relative alle politiche della Commissione sui diritti all’infanzia, che chiedeva azioni volte a porre fine alle mutilazioni genitali, contrastare il bullismo online dei giovani LGBTQ+ e migliorare la circolazione delle famiglie arcobaleno all’interno dell’UE.
Giorgia Meloni e Marine Le Pen.
Le destre sovraniste europee hanno accolto con favore la decisione del governo polacco di indirizzare la corte costituzionale verso tale decisione. Marine Le Pen, leader del Fronte Nazionale – estrema destra francese – è accorsa in difesa della Polonia, accusando l’Unione Europea di voler instaurare una “dittatura giacobina”. Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, non è voluta essere da meno, proclamando che la Costituzione voluta dal popoli italiano “viene prima delle norme decise a Bruxelles, perché si può stare in Europa a testa alta, non solo in ginocchio come vorrebbe la sinistra“.
L’amico ungherese
Un rapporto dell’Ong statunitense Freedom House diffuso lo scorso maggio descrive l’Ungheria come un Paese che, dopo dieci anni di governo di Viktor Orbán, non può più essere considerato una democrazia:nel documento si afferma infatti che a causa del regime autoritario competitivo che nell’ultimo decennio ha sostituito la democrazia liberale sia più esatto definire l’Ungheria come una via di mezzo tra democrazia e autocrazia.
Budapest ha respinto la ratifica della Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne: il parlamento ungherese ha infatti bocciato la Convenzione in quanto promuoverebbe, secondo l’esecutivo, l’ideologia di genere e della migrazione illegale. Il deputato Lorinc Nacsa, dei democratici cristiani e alleato di minoranza della coalizione con il partito sovranista Fidesz di Orbán, ha dichiarato davanti all’Assemblea che “l’approccio ideologico della Convenzione è contrario alla legge ungherese e alle credenze del governo”. C’è da chiedersi, peraltro, cosa ne sia stato tra l’altro della risoluzione votata nel 2017 – e supportata da un Rapporto di Amnesty International – con la quale il Parlamento Europeo impegnava la Commissione ad avviare le procedure sancite dall’articolo 7 del Trattato, che prevede per gli Stati membri che violino i diritti fondamentali dei cittadini una serie di sanzioni, fino alla sospensione del diritto di voto nel Consiglio europeo.
Il piano polacco-ungherese improntato all’opportunismo politico dell’Unione Europea era già stato sancito nel 2016, proprio nei Carpazi. In quell’incontro storico, i due Paesi unirono le rispettive retoriche sulle politiche anti-migranti che li avrebbero portati a erigere muri di filo spinato e a condurre campagne elettorali foriere di nuove limitazioni delle libertà individuali, a partire da quella di stampa. Tutto questo per giustificare una deriva che non ha nulla a che fare con un’unione di intenti europeista, ma solamente con istanze opportunistiche legate all’accaparramento dei fondi strutturali europei.
Un tempo nei cortei di sinistra in Italia andava molto lo slogan “Fuori l’Italia dalla Nato”. Oggi non sarebbe il caso di riaggiornarlo così: “Fuori Polonia e Ungheria dall’Europa”.