Ucraina, ora è guerra per procura

Nell'analisi di Umberto De Giovannangeli, il labile confine tra il legittimo sostegno a chi si difende da un'invasione e il portare avanti una guerra "per procura".

Ucraina, ora è guerra per procura
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2 Aprile 2022 - 16.17


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C’è una sottile linea rossa che separa il sostegno a chi si difende da un’invasione dalla determinazione di una guerra per procura. In Ucraina, questa red line è stata superata. Dalle ultime decisioni di Washington. E da quelle prese da alcuni alleati europei, tra cui l’Italia.

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Quella red line superata

Trecento milioni di dollari di ulteriori aiuti militari per l’Ucraina. Il Pentagono ha disposto un nuovo sostegno di 300 milioni di dollari a favore di Kiev per rafforzare le difese durante l’invasione russa. In particolare nel pacchetto di aiuti sono compresi missili guidati da laser, droni ‘kamikaze’ Switchblade (con testate esplosive) e droni leggeri di tipo Puma (da ricognizione). L’amministrazione Biden, inoltre, lavorerà con gli alleati per trasferire agli ucraini tank di fabbricazione sovietica da impiegare nel Donbass: lo scrive il New York Times, citando un ufficiale americano e sottolineando che è la prima volta che gli Usa inviano carri armati in Ucraina dall’inizio della guerra. Si tratta di aiuti militari necessari a Kiev per contenere la nuova offensiva russa, prevista nei prossimi giorni. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ne è sicuro: “Le forze russe si stanno ammassando nel Donbass, verso Kharkiv, e si stanno preparando per attacchi ancora più potenti. Ora si stanno ritirando dal nord dell’Ucraina in un modo lento ma evidente. Chiunque torni in questa zona deve stare molto attento. È ancora impossibile tornare alla vita normale, bisogna aspettare che la nostra terra venga bonificata e finché si sarà certi che non ci saranno nuovi bombardamenti”. L’invio di tank all’Ucraina risponderebbe alla volontà di Zelensky di spingersi in avanti sul territorio, per condurre un contrattacco contro le forze armate russe. 

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Tank e non solo

Gli Usa stanno fornendo all’Ucraina materiale nel caso la Russia usi armi chimiche”. Lo ha detto nei giorni scorsi la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki.

L’Italia si allinea

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A larghissima maggioranza, il Parlamento italiano ha dato luce verde al “decreto Ucraina”. Nel decreto è previsto l’invio di armi moderne e micidiali all’esercito ucraino.

Ora, in molti in queste settimane si sono cimentati a definire la guerra in corso: guerra di aggressione, guerra “giusta” (vista dall’aggredito) etc. In Ucraina indubbiamente c’è la guerra. L’Italia inviando armi a uno dei due eserciti in lotta interviene in modo at- tivo nella guerra e questo non le è dato dalla sua costituzione. Da quell’articolo 11 della Costituzione Italiana che stabilisce che il nostro paese “ripudia la guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali”. Il “decreto Ucraina” confligge con il dettato costituzionale. Vi sembra poca cosa?

Un’altra pratica è possibile. 

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Scrive su Avvenire  il professor Stefano Allievi: Nessuna opposizione alla guerra è credibile se non si paga un prezzo personale e non si attiva una testimonianza diretta. Chi combatte come partigiano lo fa costruendo la resistenza armata, e chi vuole sostenere la resistenza armata senza combattere in prima persona, anche per non allargare il conflitto ad altri fronti, lo fa inviando armi. Chi combatte usando l’arma economica e la moral suasion, lo fa con le risoluzioni dell’Onu, con sanzioni che producono un costo anche su chi le dichiara e l’isolamento internazionale dell’aggressore, con il supporto al dissenso interno e la promozione di tavoli di trattativa che manifestino un sostegno attivo all’aggredito, aprendo tuttavia a soluzioni praticabili per terminare il conflitto prima possibile, riducendo le sofferenze della popolazione civile e cercando di limitare quelle dei soldati di ambo le parti. Chi aiuta i profughi a trovare una sistemazione, manifestando così concretamente la propria solidarietà, combatte per così dire su un fronte interno, alla propria coscienza e al proprio Paese. Ma forse si può fare un passo ulteriore. I cittadini comuni che vogliono sostenere la causa dell’aggredito in maniera pacifica non hanno altra arma che sé stessi. Possono manifestare sostegno alle scelte fatte dai propri governi, anche se implicano un costo pure per sé. Possono impegnarsi attivamente per promuovere discussione e consapevolezza, senza abdicare mai al dovere di sostenere le ragioni dell’aggredito contro l’aggressore: in maniera equilibrata, ma non equidistante. Possono finanziare gli aiuti personalmente, o attivarsi direttamente nella solidarietà e nell’ospitalità. Ma credo che potrebbero fare anche altro. 

Siamo contro il conflitto? Ci crediamo davvero? Siamo pronti a pagare un prezzo, a fare dei sacrifici, per questo? Siamo, davvero, credibilmente, contro la guerra e a favore della pace? Testimoniamolo. La sola altra arma che abbiamo – se vogliamo che tacciano altre armi – è il nostro corpo. Usiamolo: non in alternativa alle altre forme di lotta e resistenza, ma al contrario in collegamento e in collaborazione con esse – come un’arma ulteriore a disposizione dei resistenti e, perché no, dei governi. Andiamo a praticarla, questa solidarietà, questo impegno attivo contro la guerra e contro l’ingiustizia: con una grande marcia della pace (ma non a casa propria: troppo facile!) che coinvolga milioni di cittadini europei, che si mettano in cammino verso l’Ucraina, e poi verso la Russia (ma anche dentro l’Ucraina, e dentro la Russia, per quanto possibile). In maniera organizzata. Sostenuti dalla logistica pacifica dei governi e delle organizzazioni della solidarietà transnazionale. Ma disposti a correre dei rischi, come li corre chi combatte. Mettendo in conto la possibilità di essere attaccati: e non fermandosi al primo morto, come non lo fa la resistenza armata. Sfidando le bombe con la civiltà e la forza del dialogo e della testimonianza personale, ma moltiplicata per milioni: una pacifica forza di interposizione, un impegno attivo ma non bellicista e non belligerante”.

Dalla guerra in Ucraina si può uscire solo con una soluzione politica. E’ necessario un negoziato non solo tra russi e ucraini, ma che coinvolga anche Unione europea e Nazioni Unite. Alcuni punti sono stati messi in evidenza dalla bozza riservata di un possibile accordo, divulgata dal Financial Times il 15 marzo 2022. Si prevede il ritiro delle truppe russe, il riconoscimento della sovranità e dell’indipendenza di una Ucraina neutrale, che non ospiti basi militari e sistemi d’arma stranieri, che riconosca lo status speciale delle regioni di Donetsk e Luhanks e affidi ad un referendum sotto la sorveglianza dell’Osce la sorte della Crimea. Servirebbe poi un contingente Onu di peacekeeping che dovrebbe posizionarsi nelle aree calde di frontiera. Agli occidentali che vedono questo come un rischio per l’integrità dell’Ucraina ricordiamo cosa hanno fatto con il Kosovo, sostenendo e legittimando la sua separazione de facto dalla Serbia. Quello che è importante è che ogni soluzione sia condivisa, nel rispetto della volontà popolare, nel rispetto della democrazia, dei diritti umani e delle minoranze. E’ in questa direzione che vanno indirizzati gli sforzi della politica e della diplomazia, è su questa strada che l’Europa e l’Italia possono contribuire a fermare la guerra.

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Le ragioni della pace e dei pacifisti si sono sentite anche nel mezzo del rombo della guerra in Ucraina. Innanzitutto a Mosca, San Pietroburgo e in decine di città russe, dove centinaia di migliaia di persone hanno manifestato contro l’invasione, con 15 mila arresti. E centinaia di migliaia di dimostranti si sono visti a Berlino, Parigi, Londra e in moltissime città di tutto il mondo per chiedere di fermare la guerra. 

A Roma si è manifestato due giorni dopo l’inizio della guerra, il 26 febbraio a Piazza Santi Apostoli. Il 5 marzo 2022 decine di migliaia di pacifisti hanno riempito Piazza San Giovanni a Roma su proposta della Cgil e della Rete per la pace e il disarmo, di cui fanno parte decine di associazioni tra cui Arci, Associazione per la pace, Legambiente, Amnesty International e molte altre organizzazioni. Milano, Firenze, decine di altre città hanno visto manifestazioni importanti, susseguitesi tutte le settimane. In parallelo si sono attivate reti di solidarietà e accoglienza degli ucraini che fuggivano dalla guerra. La Tavola per la pace ha proposto una marcia straordinaria da Perugia ad Assisi per la pace e la fraternità. 

L’associazione Papa Giovanni XXIII ha provato ad organizzare una missione umanitaria per la pace in Ucraina, con la partecipazione di deputati pacifisti, iniziativa bloccata dal Ministero degli Esteri per motivi di sicurezza. Dall’esperienza della nave Mediterranea, che raccoglie i profughi in mare, è venuta la proposta di organizzare una sorta di carovana pacifista a Kiev, come nel 1992 “la marcia dei 500” con don Tonino Bello e monsignor Bettazzi a Sarajevo. La campagna Sbilanciamoci! ha evocato la necessità di riconvocare un’iniziativa come la Helsinki Citizens Assembly, che riuniva le associazioni per la pace e i diritti umani dell’Est e dell’Ovest. 

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Nelle iniziative dei pacifisti italiani, nei loro documenti, si è condannata l’aggressione russa, si è ribadita la contrarietà all’espansione della Nato all’est, si è chiesto un ruolo di pace delle Nazioni Unite, si è fatto appello alla nonviolenza e si è condannato l’invio delle armi nelle zone di guerra. Alcuni opinionisti hanno utilizzato l’argomento dell’invio delle armi per criticare le presunte incoerenze dei pacifisti. Hanno evocato in modo strumentale la guerra di Spagna e la lotta di liberazione in Vietnam per sostenere che bisogna sempre mandare le armi a quelli per cui parteggiamo. Ancora una volta la logica delle armi fa dimenticare le ragioni della politica. 

Durante la guerra del Vietnam – ricordava Aldo Natoli, allora dirigente del Pci – negli incontri con i dirigenti di Hanoi le richieste erano: “non mandateci armi, ma intensificate le manifestazioni per la pace, questo ci serve di più”. E quando ci fu la guerra di Spagna, il Servizio civile internazionale organizzò nel nord del paese campi profughi e aiutò la popolazione civile, ma non mandò armi. E, ancora, i pacifisti non hanno mai chiesto di mandare armi ai vietcong o ai palestinesi: hanno messo in campo tutti gli strumenti della pressione politica per ottenere giustizia e fine delle guerre. Lo stesso è avvenuto di fronte alle guerre dei Balcani, con carovane di pace e pratiche di solidarietà.

Umberto De Giovannangeli

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