Mediterraneo, le stragi di migranti non fanno notizia: la vergogna del relativismo etico
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Mediterraneo, le stragi di migranti non fanno notizia: la vergogna del relativismo etico

Dal 24 febbraio a oggi nel Mediterraneo sono morte affogate centina di persone, molte le donne e i bambini.

Mediterraneo, le stragi di migranti non fanno notizia: la vergogna del relativismo etico
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

25 Maggio 2022 - 18.13


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Quei morti non meritano le prime pagine dei quotidiani o maratone televisive. Non “fanno notizia”. La comunità internazionale non s’indigna. L’Europa gira la testa da un’altra parte. Per non vedere. Per non riflettere sui crimini conseguenti l’esternalizzazione delle frontiere. Per non ritornare – vero presidente Draghi ? – sullo sciagurato rifinanziamento di quell’organizzazione a delinquere denominata Guardia costiera libica.  E visto che senza memoria non c’è futuro, al nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, iper attivo, di ciò gli va dato merito, sul fronte della guerra in Ucraina, vorremmo ricordare la sua sciagurata definizioni delle navi delle Ong: i taxi del Mediterraneo. Per non parlare poi delle invettive dei vari Salvini, Meloni e via insultando.

Ci si scandalizza, giustamente, per i massacri di civili consumati in Ucraina, come quello di Bucha. E le stragi di civili nel Mediterraneo? Quelle non contano. Sono al massimo buone per riempire report la cui esistenza in vita mediatica dura al massimo il giorno in cui vengono presentati. Una informazione mainstream alimenta un relativismo etico vergognoso, insopportabile, indegno della civile Europa. Il 24 febbraio è iniziata l’invasione russa dell’Ucraina. Da quel giorno non è passato giorno che siano stati spesi fiumi di parole e articolesse per raccontare, anche nei minimi, orripilanti particolari le stragi compiute dall’esercito russo. Biden si è indignato. Con lui il suo sodale britannico, l’improponibile Boris Johnson. E a ruota, sia pure con tonalità diverse, tutti i leader europei. Dal 24 febbraio a oggi nel Mediterraneo sono morte affogate centina di persone, molte le donne e i bambini. I gommoni strapieni su cui tentavano la fuga dagli orrori della guerra, della pulizia etnica, dello sfruttamento disumano, della povertà assoluta, si sono ribaltati più e più volte. A provare a soccorrerli sono state quasi sempre le navi di quelle ong a cui è stata dichiarata guerra da governi complici dei gendarmi della sponda sud del Mediterraneo. 

Strage senza fine

E’ notizia di oggi. Ennesimo naufragio nelle acque del mediterraneo, questa volta al largo delle acque della Tunisia, vicino alle coste di Sfax.  Secondo quanto riferisce l’Oim, l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, sull’imbarcazione partita da Zouara, Libia, c’erano un centinaio di persone, 76 delle quali sarebbero ancora disperse. Circa 24 sono state tratte invece in salvo. “Tutti sapevano cosa sarebbe successo”. Hanno fatto sapere da Open Arms: “A mezzanotte Astral, l’imbarcazione della Ong spagnola, ha trovato un’imbarcazione in condizioni critiche e ha cercato di assicurare i naufraghi con giubbotti salvagente, ma l’instabilità dovuta al peso dell’acqua imbarcata ha fatto rovesciare imbarcazione”.


Secondo l’ong che ha documentato quanto stava accadendo “le autorità non hanno risposto alla chiamata  di Mayday. L’equipaggio si dà da fare per recuperare i naufraghi dall’acqua nella notte buia utilizzando 3 zattere di salvataggio di Astral, non sappiamo se ci sono dispersi.  Nessuna notizia da Tunisia, Malta e Italia. Tutti sapevano cosa sarebbe successo”.  Per Open Arms è evidente: si tratta di “omissione di soccorso”. “È difficile comprendere l’inerzia deliberata delle autorità di Tunisia, Malta e Italia, su un caso così chiaro; barca molto instabile con più di 100 persone alla deriva per diverse ore senza risposta, pur avendo avvertito delle sue gravi condizioni. È inaccettabile”. Parole di critica e un appello anche da Flavio di Giacomo, portavoce Oim Italia: “Un altro naufragio al largo della Tunisia, che avrebbe provocato al meno 76 dispersi. Sono oltre 650 a questo punto le persone morte nel Mediterraneo quest’anno. Eppure resta inascoltato l’appello a rafforzare il pattugliamento”.

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La rotta tunisina

Arrivano nelle aree di Porto Empedocle, Sciacca, Licata, nell’Agrigentino, su barconi di legno di 10-12 metri, che spesso vengono anche abbandonati. In alcuni casi gli occupanti delle imbarcazioni riescono a scendere e far perdere le loro tracce, in altri gli uomini della Guardia di Finanza o della Capitaneria di porto li hanno individuati.  Più a ovest, verso Trapani o Mazzara, gli immigrati sbarcano, invece, da gommoni che portano dalle 20 alle 40 persone alla volta. In alcuni casi, assieme agli esseri umani, sono stati recuperati anche carichi di sigarette o stupefacenti. 

E’ la rotta tunisina, che attraversa il confine tra Tunisia e Libia. A confermarlo è Reem Bouarrouj, responsabile immigrazione di Ftdes (il Forum des Droits Economiques et Sociaux ): “Tra gli immigrati in Libia – dice – sta iniziando a circolare la voce. Sanno che la Guardia Costiera e le milizie impediscono le partenze dalla costa e così puntano alla Tunisia”. Nell’area di confine tra Libia e Tunisia vige, ormai da tempo, un patto d’azione tra trafficanti di esseri umani e miliziani dell’Isis che, in rotta da Siria e Iraq, hanno fatto di quest’area frontaliera la trincea avanzata dello Stato islamico nel Nord Africa.

Annota Paolo Howard, in un documentato report su Affari Italiani: “Considerare la rotta tunisina quale mera alternativa a quella libica appare riduttivo. Sono i migranti tunisini a imbarcarsi dai porti di Sfax e Kerkenna, raramente gli stranieri…I protagonisti della rotta restano i giovani tunisini che, stretti nella morsa di una economia impoverita e di un clima politico asfissiante, fuggono a bordo dei social media prima ancora che delle imbarcazioni di fortuna”.

A Sud, le nostre frontiere esterne sono composte da Paesi che non sono solo più di transito, per migranti e rifugiati, ma di origine. E’ il caso, per l’appunto, della Tunisia. Sono i migranti tunisini a imbarcarsi dai porti di Sfax e Kerkenna, raramente gli stranieri. […]. ad oggi i protagonisti della rotta restano i giovani tunisini che, stretti nella morsa di una economia impoverita e di un clima politico asfissiante, fuggono a bordo dei social media prima ancora che delle imbarcazioni di fortuna.

“Mi sento morto. Il mio paese non mi rispetta, non ho più alcuna speranza. L’unica speranza che ho è partire.” Intervistato nel centro di Tunisi da un’emittente televisiva, così racconta con lucida, drammatica fermezza un giovane che si appresta la notte stessa ad attraversare il mare con un gruppo di amici. 

I fattori che spingono le persone a intraprendere un viaggio pericolosissimo si sono moltiplicati a seguito della pandemia, secondo Romdhane Ben Amor, responsabile comunicazione presso il Ftdes. È interessante notare il mutamento del fenomeno: non solo giovani uomini, ma sempre più donne e famiglie decidono di intraprendere il progetto migratorio alla ricerca di una vita migliore in Europa. “Oltre ai fattori socio-economici, la scintilla che ha scatenato quest’ultima ondata migratoria è da ricercarsi nella crisi politica che si protrae da febbraio. Un altro elemento è la rete di trafficanti dietro al quale si cela un’intera economia sotterranea — dalla logistica alla concezione delle imbarcazioni — che sta iniziando ad emergere nelle regioni, in particolare nelle regioni costiere.”

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Chi decide di migrare oggi ha maggiori informazioni riguardo ai diritti che tutelano i migranti. “La famiglia era il primo ostacolo per il progetto migratorio dei giovani. Ma questa resistenza comincia a diminuire in quanto i genitori, esasperati dalla loro condizione, si rendono conto che il percorso educativo dei loro figli non garantisce più la riuscita della famiglia e la possibilità di migliorare la loro condizione sociale. Le famiglie cominciano allora a investire in questo progetto, considerando la garanzia di non rimpatrio dei figli minori, o l’assistenza che i familiari con problemi sanitari e handicap possono ricevere.”

Un bilancio scioccante

I morti nel Mediterraneo negli ultimi 15 anni sono stati 30.000: donne, uomini e bambini in cerca di una nuova terra per sfuggire alla povertà. Ma in quanti quella terra, tanto agognata, non l’hanno mai neanche toccata? Italia, Spagna, Grecia e Cipro sono le principali destinazioni del Mediterraneo, dove i migranti più fortunati trovano la salvezza anche grazie all’intervento di associazioni come la Sea-Watch, organizzazione umanitaria senza scopo di lucro che svolge attività di ricerca e salvataggio in mare. Gli effetti di queste migrazioni non sono senza conseguenze, ad esempio Cipro, popolata negli anni ‘60 da alcune centinaia di migliaia di abitanti, oggi supera il milione. L’isola, da tempo terreno di scontro tra Turchia e Unione Europea, rappresenta per molti la porta di accesso all’Europa. Infatti gli arrivi che prima del 2016 erano soprattutto dal mondo arabo, dal Medio Oriente e dal subcontinente indiano oggi riguardano anche persone provenienti dall’Africa subsahariana; spesso, nel 14,2% dei casi, si tratta di minori non accompagnati.

Lo scorso anno sono morte o sono andate disperse oltre 3mila persone in mare, nel tentativo di raggiungere l’Europa. A indicare questa cifra mostruosa è l’Onu. Si tratta del doppio del bilancio registrato nel 2020, che contava 1544 morti o dispersi. Shabia Mantoo, portavoce dell’Agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), spiega che “su questo totale, 1.924 persone sono state dichiarate morte o sparite nelle rotte del Mediterraneo centrale e occidentale, mentre altri 1.153 sono morti o ritenuti scomparsi sulla rotta marittima dell’Africa del Nord-Ovest verso le isole Canarie”.

Un Rapporto illuminante

“Nel 2021 sono stati 67.040 i migranti arrivati in Italia via mare, quasi il doppio rispetto ai 34.154 del 2020. I minori stranieri non accompagnati sono stati 9.478, a fronte dei 4.687 dell’anno precedente. Ancora oggi circa due migranti su tre sono ospitati nei Cas, i centri di accoglienza straordinaria pensati per far fronte all’arrivo dei grandi numeri”, rimarca il Rapporto annuale del Centro Astalli, presentato il 22 aprile scorso.  “Il sistema dell’accoglienza diffusa (Sai), con piccoli numeri e progetti d’integrazione più mirati – rileva anche il servizio ai rifugiati dei Gesuiti -accoglie solo circa 25.000 persone delle 76.000 presenti nelle strutture convenzionate”.
“Le persone in situazioni di particolare fragilità, vittime di tortura, violenza intenzionale o abusi sessuali, che nel corso dell’anno sono state accompagnate dal Centro Astalli attraverso l’azione coordinata del servizio medico e dello sportello legale sono state numerose. Quasi tutte le donne seguite dal servizio di ginecologia (213 nel 2021) hanno subito torture, violenza di genere o abusi, nei Paesi di origine o durante i viaggi”, denuncia il rapporto. “Le vittime di tortura che si sono sottoposte a una visita per il rilascio del certificato medico-legale da presentare alla Commissione Territoriale – si legge ancora – sono state 334, in prevalenza uomini ma con una percentuale di donne in aumento (il 32% del totale), provenienti soprattutto da Nigeria, Senegal ed Eritrea.
Spesso il disagio di queste persone, che fatica sempre più a emergere nelle prime fasi dell’arrivo, esplode più tardi: nei centri di accoglienza in convenzione con il Sai la percentuale di rifugiati vulnerabili è in aumento (37% sono vittime di tortura e violenza): lavorare su percorsi di integrazione quando è venuta meno una presa in carico tempestiva della vulnerabilità rappresenta un aggravio molto serio sulla riuscita dei percorsi di autonomia”. “Una sottolineatura doverosa – prosegue il rapporto – riguarda coloro che hanno vissuto l’esperienza del carcere in Libia: in modo pressoché unanime raccontano di abusi, violenze e persecuzioni. Nel 2021 si sono aggiunti a loro i migranti che sono riusciti ad arrivare in Italia passando dai Balcani e che raccontano di percosse e violenze da parte di forze dell’ordine nel tentativo di respingerli”.

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Così il Rapporto.

“Ora c’è una guerra in casa nostra, in Europa. È giusta tutta la mobilitazione in atto, ma delle altre 33 guerre chi se ne è occupato prima? Con milioni di persone costrette a lasciare la propria terra e cercare una terra promessa. Ben venga l’accoglienza, ma per quelli con la pelle nera?”. È l’interrogativo che si pone don Luigi Ciotti, presidente nazionale di Libera, intervenuto nel corso di un convegno organizzato dalla Dia nel palazzo Salerno di Napoli. “L’accoglienza è vita che accoglie la vita, non possiamo fare selezione sull’accoglienza a seconda delle situazioni. Ci sono altre centinaia di morti nel Mediterraneo – è la riflessione di don Ciotti -, ma non fanno più notizia”.

E non fanno più notizia, viene da aggiungere, perché si vuole che non facciano più notizia. Perché quei morti innocenti reclamano giustizia e verità. Non sono numeri. Sono esseri umani. Ognuno con la sua storia, il suo dolore, la sua speranza. Una speranza “annegata” nel Mediterraneo.

Il presidente Usa e con lui un codazzo di vassalli, alleati è altra cosa, hanno invocato una Norimberga ucraina. Ma nessuno di costoro ha mai parlato, evocato, auspicato una “Norimberga del Mediterraneo”. Il perché è chiaro: in una “Norimberga del Mediterraneo” dovrebbero finire sul banco degli imputati. Per crimini contro l’umanità.

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