Il pensiero di un Grande non muore con lui. Resta in vita, come i suoi bellissimi libri. Così è per Abraham Bet Yehoshua. Un “visionario pragmatico”. E’ l’idea che chi scrive si è fatto di lui in tanti anni di frequentazione e di conversazioni avute. Visionario per la sua determinazione a guardare oltre il momento presente, provando a progettare un futuro che non fosse la perpetuazione dello status quo. Pragmatico, perché ha sempre parametrato le sue idee, le sue convinzioni, alla realtà delle cose. Senza subirla, quella realtà, ma neanche negandola. E con la straordinaria umiltà, propria solo dei Grandi, a rimodulare i propri convincimenti se essi non trovavano più concrete possibilità di realizzazione.
Una visione incompiuta
Quella dello Stato binazionale. L’ultima “provocazione” di Yehoshua. Su questo ebbi modo d’intervistarlo nel settembre del 2017 quando, allora scrivevo per Huffington Post, partecipai ad una missione in Israele e Palestina al seguito di Roberto Speranza e Arturo Scotto. L’incontro avvenne nella residenza del nostro ambasciatore a Tel Aviv. Da quel giorno sono trascorsi quasi cinque anni. Ma sembra oggi.
Ecco una parte di quell’intervista. “Per anni Yehoshua è stato un tenace sostenitore di una pace fondata sulla separazione: due popoli, due Stati. Ma ora l’orizzonte è cambiato, ragiona lo scrittore israeliano, è l’idea dei due Stati rischia di diventare una sorta di mantra ripetuto stancamente pur di non fare i conti con la realtà: e la realtà, annota Yehoshua, impone di abbracciare un’altra causa, di tentare un’altra strada: quella di uno Stato parzialmente binazionale, che riguardi, almeno in prima battuta, i palestinesi della West Bank e di Gerusalemme Est: “Da democratico – sottolinea con foga Yehoshua – non possono rinunciare al principio che tutti i cittadini devono essere eguali di fronte alla Legge, senza distinzione per appartenenza etnica o religiosa. Come progressista, guardo con preoccupazione al peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi e credo che in questo momento è importante la prosa più che la poesia, e ciò significa che riconoscere agli abitanti della Cisgiordania diritti sociali di primaria importanza, quali sono, ad esempio, il diritto alla sanità e alla pensione, sia un tratto fondamentale, perché tangibile, di ciò che può volere dire uno Stato binazionale. Prendere atto della realtà non vuole dire subirla, ma neanche cancellarla in nome di una idea, quella dei due Stati, divenuta ormai impraticabile”.
Mette definitivamente nel cassetto l’idea di una pace fondata sul principio “due popoli, due Stati”? Insomma, Abraham Yehoshua corregge se stesso?
“Non sono tipo da parlare in terza persona, non mi ritengo così importante, però stiamo al gioco: Abraham Yehoshua, dopo cinquant’anni nei quali ha sostenuto e battagliato per questa prospettiva, ha preso atto che il tempo e gli uomini l’hanno resa impraticabile. E non mi riferisco solo alla destra israeliana, ma anche alla dirigenza palestinese. Prenderne atto non significa, però, accettare lo status quo e dimenticare la condizione di oppressione nella quale vivono i palestinesi. D’altro canto il fatto che tutti, da Netanyahu ad Abu Mazen, continuano a far riferimento a “due Stati”, significa che c’è qualcosa che non va, che non funziona. Significa che ‘due popoli, due Stati’ è diventato un mantra che viene ripetuto per mettersi a posto la coscienza, specie in Europa, e chiudere gli occhi di fronte ad una realtà che questa prospettiva nega. Oggi il gap per quanto riguarda le condizioni di vita tra Israeliani e Palestinesi è cresciuto enormemente, la forbice si è allargata. Personalmente non me la sento di considerare questo, il peggioramento delle condizioni di vita dei Palestinesi, come un fatto secondario, irrilevante rispetto ai grandi disegni politici. Sarò diventato un vecchio pragmatico, ma non un cinico che se ne frega di come vivano centinaia di migliaia di palestinesi a poche decine di chilometri dalla mia città (Haifa, ndr). Da democratico, penso che ogni cittadino debba essere uguale di fronte alla Legge e godere degli stessi diritti sociali e civili. E questo può avvenire solo in uno Stato binazionale”
Vorrei tornare all’idea dei due Stati. In precedenza, Lei ha affermato che a renderla impraticabile non è stata solo la politica dei governi, come quello attuale, della destra. E’ un j’accuse alla dirigenza palestinese, passata e presente?
“È così. Diciamo che le leadership palestinesi non hanno perso occasione per perdere “l’Occasione”. Nell’estate 2005, Israele (allora il primo ministro era Ariel Sharon, ndr) decise il ritiro da Gaza e lo smantellamento degli insediamenti nella Striscia: la risposta palestinese non fu l’accelerazione di un negoziato, ma i razzi sparati da Gaza contro le città frontaliere israeliane. Nel 2006-2007 l’allora primo ministro Ehud Olmert avanzò una proposta che andava nella direzione dei due Stati che Abu Mazen rigettò. E si potrebbe andare ancora indietro nel tempo, quando altri erano i protagonisti: penso, ad esempio ai negoziati di Camp David di luglio 2000 tra Barak e Arafat, con Clinton come facilitatore: anche lì la proposta avanzata dal primo ministro laburista andava in quella direzione, ma Arafat non ebbe la saggezza dimostrata da David Ben Gurion: prendi meno di quanto speravi, ma consideralo un inizio, un qualcosa di tuo, nel quale edificare uno Stato… Non mi voglio ergere a giudice, non sto qui a distribuire sentenze, ciò che voglio sostenere è che in questi cinquant’anni di rinvii e di rifiuti la realtà si è modificata e oggi l’unica alternativa allo status quo è lo Stato binazionale”.
C’è chi sostiene che quello dello Stato binazionale sarebbe un salto nel vuoto e che gli ebrei israeliani non accetterebbero mai di essere minoranza in uno Stato binazionale.
“La memoria è labile, soprattutto quando fa comodo per scansare i problemi. Nel ’47, Ben Gurion diede subito la cittadinanza agli arabi. Io credo che si possa guardare ad altre esperienze per modulare le forme di uno Stato binazionale: potrebbe essere una confederazione di cantoni, potrebbe essere una Repubblica presidenziale nella quale esistano due Camere: una che rappresentasse le istanze e le esigenze di ciascuna comunità nazionale e altra come rappresentanza di tutti i cittadini…
E i coloni?
“In questo scenario, il problema fondamentale non sono i coloni. Il problema fondamentale è la democrazia. È sancire che ogni cittadino è eguale di fronte alla Legge, che gode degli stessi diritti sociali, civili, politici. Il problema è quello di realizzare una cittadinanza piena. L’alternativa è istituzionalizzare uno stato di apartheid. È questo che si vuole? Mi creda, l’ebraismo è molto forte, anche troppo. Troverebbe comunque i modi per far valere le proprie ragioni in uno Stato binazionale. Ciò che ritengo inaccettabile, e questo sì anti-democratico, che i diritti di cittadinanza siano modulati e gerarchizzati a secondo dell’appartenenza etnica e religiosa. Il nostro sguardo deve alzarsi e abbracciare il mondo, guardano a ciò che è stato realizzato in altri Paesi che pure hanno al proprio interno comunità etniche diverse. Un esempio, è l’America. Negli Stati Uniti non vige una democrazia etnica? Il sistema a cui tendere non si definisce su basi demografiche, ma può reggersi su un sistema di Cantoni con una loro autonomia codificata. Ragioniamoci insieme, io dico. E guardiamo in faccia la realtà: la scusa dei due Stati ci sta portando verso l’apartheid”.
Lei ha sottolineato l’importanza di riflettere sul concetto di “confine” che chiama in causa il rapporto tra due pilastri dell’identità nazionale su cui si fonda lo Stato d’Israele: la democrazia e l’essere il focolaio nazionale del popolo ebraico?
“Sinceramente, non credo che ragionare su uno Stato binazionale voglia significare cancellare la storia d’Israele. Perché già da tempo Israele è uno Stato binazionale: il 20% della popolazione attuale d’Israele (1,1 milioni di persone, ndr) è araba e, viste le tendenze demografiche, è un numero destinato nei prossimi decenni ad aumentare sensibilmente. No, non credo davvero che uno Stato binazionale esteso ai palestinesi di Gerusalemme Est e della West Bank attenti all’identità ebraica. Il punto è un altro, e evidenziarlo fa male, ne sono consapevole, soprattutto a quel mondo della sinistra a me più vicino, e non solo Israele…”.
E quale sarebbe questa amara verità?
“Oggi vi sono centinaia di migliaia di palestinesi alle porte delle nostre città che non hanno alcun diritto. E che subiscono una occupazione sempre più invasiva. E ci sono cittadini israeliani, i coloni, che praticano la sopraffazione in quanto cittadini israeliani che, come tali, sono protetti dall’esercito. La sinistra può continuare a recitare il mantra ‘tutto si risolve con la nascita di uno Stato palestinese’, intanto, però, il numero dei coloni cresce di anno in anno e sfido chiunque a sloggiarli. Oggi non c’è alcuna autorità, nessun leader politico che potrebbe portarli via dalle terre che hanno occupato, ma il termine più giusto è: rubato. Allargare i diritti di cittadinanza ai palestinesi è il modo più concreto, a mio avviso, per contrastare questa deriva. I diritti di cittadinanza rappresentano una risposta concreta all’occupazione”.
Un ricordo prezioso
E’ quello di Gideon Levy, storica firma di Haaretz. Scrive Levy:
“A.B. Yehoshua è stato il visionario dello Stato unificato. Non è un caso che questa pietra miliare del suo pensiero sia stata tralasciata nei numerosi elogi funebri pronunciati su di lui dopo la sua morte, avvenuta martedì scorso. Yehoshua è stato l’unico della sua generazione e del suo status che ha osato attraversare il Rubicone. Non ha portato a termine la traversata, e forse non l’avrebbe mai fatto, perché la strada era ancora lunga; ma ha osato iniziare a percorrerla. Al contrario del suo caro amico Amos Oz e della sinistra sionista in generale, Yehoshua ebbe il coraggio di ammettere il fallimento della soluzione dei due Stati e di riconoscerne pubblicamente l’inutilità.
Il resto dei suoi amici di sinistra ha continuato e continua a rimanere impantanato in questa soluzione per acquietare le proprie coscienze. Ecco la soluzione. Tutto quello che dobbiamo fare è toglierla dallo scaffale. Ma lo scaffale è inesistente, la soluzione non esiste e probabilmente non è mai esistita. Affondando nel loro falso sogno, non fanno altro che allontanarci da qualsiasi soluzione e rafforzare l’occupazione. Molti mentono anche a se stessi, perché nel profondo del loro cuore sanno, ovviamente, che non ci saranno mai due veri Stati tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Yehoshua è stato quasi l’unico a riconoscerlo. Questa era la sua unicità, questa era la sua grandezza.
L’inizio è stato molto diverso. Leggendo l’intervista che ho avuto con lui nel nostro primo incontro, nella sua casa di Haifa, 35 anni fa, quest’estate (pubblicata sulla rivista Haaretz, 15 maggio 1987), quando è stato pubblicato il suo libro “Cinque stagioni”, emerge una persona completamente diversa, il portavoce della sinistra sionista al suo peggio. Yehoshua paragona l’ascesa del Likud al governo di allora alla notte in cui scoppiò la guerra dello Yom Kippur: “un odore di sangue, qualcuno è ferito, qualcuno è lacerato… come se i paracadutisti egiziani fossero atterrati nel [Passo] Mitla… come se i piloti egiziani stessero bombardando i campi d’aviazione israeliani… il mondo è crollato”. Il giovane Yehoshua vedeva il cambio di governo in elezioni legittime e democratiche come la fine del mondo, la fine del suo mondo.
Li odiava davvero, e non esitava a dirlo: “Ero al culmine del mio odio per i Likudniks. Quando li vedevo, mi venivano le convulsioni”. Già allora era uno dei leader spirituali del campo illuminato, quello che ancora oggi recita le parole “ebreo e democratico”. Anche oggi questo campo è certo che c’è un enorme abisso tra gli elettori del Likud e la sua altezzosità, e che il ritorno del Likud al governo significa la fine della civiltà. Anche Yehoshua è stato svezzato. Benny Ziffer ha scritto mercoledì su Haaretz che Yehoshua voleva ancora incontrare Benjamin Netanyahu prima di morire.
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Va da sé che nel 1987 Yehoshua parlava ancora di “separazione dai palestinesi” e della “visione dei due Stati”, come tutti nel campo parlavano a quei tempi. È stato affascinante vedere il processo successivo: graduale, misurato, in modo che non facesse troppo male. Nel dicembre 2016, Yehoshua ha proposto di dare la cittadinanza israeliana a 100.000 palestinesi che vivono nell’Area C. Ancora due Stati, ma voleva “ridurre il livello di malignità”. Due anni dopo è arrivato il momento decisivo: In due articoli su Haaretz (il 12 e il 16 aprile 2018) ha dichiarato il divorzio. Il piano per fermare l’apartheid: era arrivato il momento di dire addio alla visione dei due Stati.
Le inevitabili conclusioni che ha lasciato a chi verrà dopo di lui. Non era più abbastanza forte per passare alla fase successiva, l’inevitabile separazione dal sionismo. Se era giunto il momento della separazione dalla visione dei due Stati, doveva esserci anche una separazione dallo Stato ebraico o dallo Stato democratico. È impossibile avere entrambi. Cosa ha scelto Yehoshua? Alla fine dei suoi articoli fondamentali nel 2018, ha scritto: “Ciò che è in pericolo ora non è l’identità ebraica e sionista di Israele, ma la sua umanità – e l’umanità dei palestinesi che sono sotto il nostro dominio”. L’uomo che ha dedicato la sua abilità intellettuale alla questione dell’identità ebraica, che ha ricordato a tutti noi che il popolo ebraico non ha immaginato di immigrare qui per i secoli durante i quali avrebbe potuto, e ha preferito il desiderio e le lamentele, ha trovato qualcosa di più importante dell’identità ebraica e sionista: l’umanità. Addio, caro amico, e grazie per tutte le conversazioni”.
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