Un libro che consigliamo vivamente di leggere. Per la ricchezza della documentazione, la forza delle argomentazioni, il coraggio e l’onestà intellettuale del suo autore. Il libro in questione è La prigione più grande del mondo (Fazi Editore, 2022, pp.400, euro 20,00), da poco nelle librerie. L’autore è uno dei più autorevoli storici israeliani: Ilan Pappè. Il professor Pappé è docente presso l’Università di Exeter ed è stato senior lecturer di scienze politiche presso l’Università di Haifa. Pappé è uno dei “nuovi storici” che, dopo la pubblicazione di documenti britannici e israeliani a partire dai primi anni ‘80, hanno riscritto la storia della fondazione di Israele nel 1948.
La forza delle idee
Riportiamo di seguito la scheda di presentazione dell’opera di Pappé. E’ un buon viatico: “Dopo la sua acclamata indagine sulla pulizia etnica della Palestina avvenuta negli anni Quaranta, il famoso storico israeliano Ilan Pappé rivolge l’attenzione all’annessione e all’occupazione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, esponendoci la prima critica globale relativa ai Territori Occupati palestinesi. Frutto di anni di ricerche, il nuovo lavoro di Pappé rappresenta probabilmente l’analisi più completa mai scritta sulla genesi dei Territori Occupati e sulla vita quotidiana all’interno di quella che l’autore definisce, appunto, «la prigione più grande del mondo». Pappé analizza la questione da molteplici punti di vista: attraverso l’analisi di materiali d’archivio recentemente declassificati, ricostruisce sotto una luce nuova le motivazioni e le strategie dei generali e dei politici israeliani – e lo stesso processo decisionale – che hanno gettato le basi dell’occupazione della Palestina; rivolgendo poi lo sguardo alle infrastrutture legali e burocratiche e ai meccanismi di sicurezza messi in atto dagli occupanti, rivela il modo in cui Israele è riuscito a imporre il suo controllo a oltre un milione di palestinesi; infine, attraverso i documenti delle Ong che lavorano sul campo e i resoconti di testimoni oculari, Pappé denuncia gli effetti brutalizzanti dell’occupazione, dall’abuso sistematico dei diritti umani e civili ai blocchi stradali, dagli arresti di massa alle perquisizioni domiciliari, dal trasferimento forzato degli abitanti autoctoni per far spazio ai coloni al famigerato muro che sta rapidamente trasformando anche la stessa Cisgiordania in una prigione a cielo aperto. Il libro di Pappé è al contempo un ritratto incisivo e commovente della quotidianità nei Territori Occupati e un accorato appello al mondo perché non chiuda gli occhi di fronte ai crimini contro l’umanità a cui è soggetta da più di settant’anni la popolazione indigena della Palestina”.
Non è il primo libro del professor Pappé destinato a far discutere. Coscienza critica d’Israele, nel suo libro Dieci miti su Israele, pubblicato da Verso Books, così descrive la pratica dell’arresto senza processo attuata senza soluzione di continuità dalle autorità israeliane nei confronti dei palestinesi.
“L’arresto senza processo è un’esperienza traumatica. Non conoscere le accuse nei propri confronti, non avere alcun contatto con un avvocato e quasi nessun contatto con la propria famiglia sono solo alcune delle preoccupazioni che assillano un prigioniero. Più brutalmente, molti di questi arresti sono usati come mezzo per spingere le persone a collaborare. Diffondere voci o svergognare persone per il loro orientamento sessuale, presunto o reale, sono pratiche spesso utilizzate come metodi per ottenere la complicità dei detenuti. Per quanto riguarda la tortura, l’affidabile sito Middle East Monitor ha pubblicato uno straziante articolo che descrive i duecento metodi utilizzati dagli Israeliani per torturare i Palestinesi. L’elenco si basa su un rapporto delle Nazioni Unite e su un rapporto dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem. Tra i vari metodi sono incluse le percosse, l’incatenamento dei prigionieri per ore a una porta o una sedia, versare acqua fredda o calda su di loro, strappar loro le dita, e torcere i testicoli…”.
Una intervista da incorniciare
E’ quella fatta allo storico israeliano da Vittorio Bonanni. E’ del 21 maggio 2009. Tredici anni dopo tiene come se fosse oggi.
«Un libro esplosivo» dice The Guardian. «Importante e provocatorio» sottolinea The Indipendent . «Persino sentimentale, quando parla delle vite perdute, cancellate degli arabi palestinesi» aggiunge il supplemento letterario del Times. La stampa anglosassone non ha risparmiato elogi nei confronti de La pulizia etnica della Palestina (Fazi, pp. 364, euro 19,00) quando nel 2006 è uscito in Gran Bretagna. In Italia invece la sua pubblicazione, avvenuta lo scorso anno, non ha avuto vita facile anche se poi è andata a buon fine. Ilan Pappe, l’autore di questo libro, «forse il più anticonformista degli israeliani, che conduce una battaglia radicale contro l’establishment politico e accademico di Israele», come dice lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa, è stato invitato più volte nel nostro Paese. Domenica era alla Fiera del Libro di Torino, quest’anno dedicata all’Egitto e l’anno scorso proprio ad Israele, in occasione del sessantesimo anniversario della sua nascita, scelta che suscitò non poche polemiche.
Pappe è stato protagonista di un appassionato dibattito sul “Fare storia della Palestina” qui a Torino. […]. “Perché non trasformare la questione mediorientale «in una questione “normale”, da interpretare secondo i parametri che noi usiamo per altre società o per altri luoghi del mondo»? E’ quello che appunto Ilan Pappé ha cercato di fare utilizzando termini come pulizia etnica già in uso per descrivere altri scenari di guerra
Professor Pappé perché non possiamo analizzare la storia mediorientale come tutti gli altri conflitti? O dobbiamo rassegnarci a questa sua eccezionalità, che almeno finora non ha aiutato ad arrivare ad una soluzione? Si tratta di una domanda che molti dei miei compatrioti troverebbero non solo strana ma inaccettabile. Il problema di israeliani e palestinesi è che essi ritengono di far parte di una situazione assolutamente unica che non ha nessun tipo di paragone con esperienze passate o presenti. E uno dei miei obiettivi, sia come storico che come attivista per la pace, è convincere queste due popolazioni che in realtà la loro situazione non è assolutamente unica e che proprio per questa ragione può essere anche risolvibile. Naturalmente è più difficile comunicare questo messaggio agli ebrei israeliani piuttosto che ai palestinesi. A questo proposito bisogna dire che gli israeliani non sono stati gli unici europei che sono andati in un paese non europeo e se ne sono impossessati, espropriando le persone che invece vi abitavano. Non sono stati gli unici a dire che quella zona era assolutamente vuota e che dunque nessuno è stato espropriato di nulla. E non è stato neanche l’unico popolo che è dovuto andare in un paese straniero perché perseguitato nel loro paese d’origine. Vittime che però hanno reso altre persone altrettanto vittime. E non sono stati neanche gli unici che hanno deciso di cambiare un bilancio demografico che non gli andava bene attraverso l’uso della forza. Nel 1948 gli ebrei erano solo un terzo della popolazione in Palestina. E ritennero erroneamente che soltanto uno Stato interamente ebraico avrebbe potuto rappresentare un buon posto per vivere. L’uso della forza in questo caso si definisce appunto “pulizia etnica” che continua ancora oggi. Io accuso dunque i miei compatrioti di aver perpetrato questo crimine ma dico anche che non sono assolutamente gli unici.
Lei accusa Israele di aver rimosso quanto successo nel ’48, con la nascita dello Stato ebraico ma anche con la conseguente “Nakba”, la catastrofe per i palestinesi. La rimozione, che può ovviamente riguardare anche i palestinesi per quanto riguarda il terrorismo, vedi il processo incompiuto che Hamas ha fatto appunto dal terrorismo alla rappresentanza politica, è un grosso limite per ogni tentativo di arrivare alla pace. Che cosa ne pensa? L’amnesia, cioè la voglia di dimenticare, fa parte della natura stessa della creazione dell’identità nazionale. Che è successo per esempio con molti paesi arabi che hanno rimosso il loro passato legato all’esperienza dell’Impero Ottomano per creare una nuova identità. Il punto principale è capire in che misura questa amnesia, questa cancellazione del passato abbia un’influenza sul presente. Nel caso dei sionisti questa cancellazione non è soltanto un problema intellettuale ma esistenziale. E soltanto se voi siete israeliani o conoscete molto bene Israele potete veramente capire fino a che punto arrivi questa spinta a cancellare il passato. Voglio tirare in ballo a questo punto mia suocera. Era fuori con i miei figli e ad un certo punto avevano visto degli splendidi alberi molto antichi. Lei chiese a mio figlio, che ha dodici anni ma già avanti negli studi storici, quanto tempo fa il posto dove vivevano era stato fondato. E lui rispose settanta anni fa. Ovvero viviamo in una colonia ebraica che è stata fondata settanta anni fa. E la nonna a questo punto sconvolta disse “incredibile, come fanno questi alberi che sembrano molto antichi ad avere solo settant’anni”. Era convinta insomma che prima del loro arrivo lì non ci potessero essere alberi! Gli alberi insomma dovevano essere arrivati per forza con i sionisti. E stiamo parlando di una donna colta ed intelligente.
Una versione dei fatti entrata a far parte della Storia ufficiale…
Questo atteggiamento difensivo ve lo trovate davanti in Israele ogni qual volta cercate di sfidare la storia ufficiale. Io nella mia vita ho attraversato tutto il sistema dell’istruzione israeliana. Mi sono concentrato sulla Storia e mi è sempre stato detto che questa zona era vuota, abbandonata, prima che arrivasse il movimento sionista alla fine del XIX secolo. E mi hanno anche detto che nel 1948 i palestinesi erano andati via volontariamente. Ovviamente chiesi al mio professore di spiegarmi come quelle persone fossero andate via volontariamente se quell’area era completamente vuota! E lui mi rispose che ero in cerca di guai. E da allora continuo a cercare di far loro capire che se c’era qualcuno costretto ad andare via o che è stato espulso vuol dire ovviamente che prima c’era. Ma c’è un problema più profondo. I crimini che sono stati commessi dai sionisti nei confronti del popolo palestinese e che io descrivo nel mio libro sono troppo atroci e terribili perché gli israeliani nel 2009 possano prenderne atto. Non perché non siano avvenute cose altrettanto terribili in altre parti del mondo. In fondo stiamo parlando di un milione di persone, della distruzione di cinquecento villaggi e di dodici città. E sappiamo bene, ed è presente nella nostra memoria collettiva, come in Europa sia successo ben di peggio. Ma tutto ciò è terribile per due motivi diversi: prima di tutto le persone che hanno commesso questo crimine hanno sempre detto di essere le vittime del crimine maggiore del ventesimo secolo. E non vogliono, per questo, che nessuno venga a giudicarli per quello che hanno fatto. Il secondo problema è che questo crimine sta continuando. E non avendo preso atto di quello che è successo nel 1948 non riescono a prendere atto di quello che sta succedendo adesso. Io sono nato ad Haifa. Una città dove un tempo vivevano settantacinquemila palestinesi. In ventiquattro ore, dunque in un giorno, sono stati portati via dalle loro case. E oggi ad Haifa ne sono rimasti pochissimi. E se parlate con gli studenti e con i cittadini israeliani di quello che è successo nel ’48 loro non solo non vogliono capire, ma neanche sentire e non riescono soprattutto a spiegarsi, invece, perché i palestinesi, per esempio ad Haifa, vogliono ricordarselo. E vogliono ricordarselo molto bene quello che è successo nel ’48 perché hanno paura che possa succedere nuovamente. Se siamo in grado di individuare quello che è successo nella storia passata, di conseguenza siamo più capaci di intervenire sulle cose presenti.
Domanda d’obbligo. Come si può uscire concretamente da questa situazione?
Bisogna cominciare a liberarsi del ruolo del mito nella storia, ma questo per noi è un compito assolutamente improbo. Mi sono sempre impegnato in un dialogo con la società e ho dovuto sempre fare i conti con rappresentazioni del passato assolutamente diverse da quelle che avevo in mente. C’è sempre stato un fortissimo elemento mitologico imposto alle persone. Per cambiare questo atteggiamento bisogna partire da un approccio diverso con la realtà. Ad esempio la prima Intifada nel 1987 ha avuto sugli israeliani un effetto di grande confusione perché, per come si è svolta, esulava da quella che era la loro idea del passato e di quello che era successo. E se la gente comincia a chiedersi che quello che è stato comunicato loro su un fatto, è diverso da quello che è realmente successo potrebbe cominciare a pensare che le autorità hanno mentito anche su fatti precedenti e magari anche su quello che è successo nel 1948, sulla Nakba appunto”.
L’intervista, dal titolo “Israeliani, soffriamo di amnesia”, finisce qui. Ora c’è da leggere l’ultima opera di Ilan Pappé. E’ tempo (e denaro) ben speso.
Argomenti: Palestina