In un Paese che si sente permanentemente in trincea, l’unità nazionale è molto più che una formula di governo. L’Unità nazionale come elemento identitario, fondante della “psicologia della nazione”. Quel Paese è Israele. Ma quando l’”unità nazionale” finisce per diventare pensiero unico, quando cancella l’essenza di una democrazia – il confronto tra idee, programmi, visioni, valori alternativi – allora scatta l’allarme rosso.
L’unità molesta.
A farlo scattare, l’allarme, è una delle più brillanti forme di Haaretz: Noa Landau. Scrive Landau: “Il festival di addio del fine settimana per la morte della Regina Elisabetta ha offerto una pletora di cliché in lode della mamlakhtiyut unificante del Regno Unito – una parola ebraica scivolosa i cui molti significati includono la statualità e il porre gli interessi della nazione al di sopra di quelli di un individuo o di un partito. I tributi ufficiali hanno sottolineato il suo grande successo nell’incarnare, nel corpo e nello spirito, l’essenza della nazione britannica, fungendo da falò tribale umano (o cubetto di ghiaccio, nel suo caso) attorno al quale si è riunita, nel corso di 70 anni, la comunità immaginaria che è la Gran Bretagna contemporanea. In effetti, la sua immensa abilità, che affinò fino a raggiungere un glorioso livello artistico, consisteva nel promuovere un’anti-persona pubblica, una perfetta tabula rasa, su cui proiettare qualsiasi valore sociale consensuale.
Elisabetta fu il vero “partito dell’unità” della sua nazione e della sua epoca.
Ma in Gran Bretagna, la base comune di valori, il consenso unificante, che è stato proiettato su e da lei, è in fondo un insieme di valori liberal-democratici. Con tutta l’ipocrisia che ne consegue (guidata dall’eredità dell’imperialismo e del colonialismo, ovviamente), con tutte le correnti del conservatorismo, con la Brexit e Boris Johnson, è così che la maggior parte dei britannici si vede ancora. Pertanto, quando i britannici parlano di statalismo e unità intendono, più o meno, un denominatore comune che è liberale nel suo senso politico più ampio.
Nell’attuale discorso israeliano si nota un crescente desiderio di unità nazionale, come quella che avrebbe creato Elisabetta. Ma la questione non è se saremo uniti, poiché l’unità da sola non ha senso, ma piuttosto chi e cosa uniremo. L’appello all’unità nazionale espresso, ad esempio, dal ministro della Difesa Benny Gantz nella campagna elettorale del suo nuovo Partito di Unità Nazionale, significa legittimare Benjamin Netanyahu e raccogliere il consenso della destra che ora domina il Paese. L’unità offerta da Gantz è contro gli “estremi” di sinistra e di destra – come se fossero la stessa cosa – contro “l’odio” di qualsiasi tipo, indipendentemente dal suo obiettivo.
E soprattutto non ha sostanza, come se non ci fosse una lotta critica tra due visioni del mondo.
In Israele, o in Gran Bretagna, un consenso unito era e sarà sempre una copertura per i rapporti di forza all’interno della società; una spugna e uno specchio per i valori della maggioranza, non un’arena neutrale e oggettiva come il liberalismo ha cercato di sostenere. L’enorme pericolo rappresentato dalla finzione di un consenso liberal-democratico in Israele, e l’aspirazione a un’unità nazionale che apparentemente lo rifletterà, è la menzogna che il centro politico racconta a se stesso sullo spazio neutrale dell’unità in un momento in cui la destra politica sta spingendo questo consenso verso destra con tutte le sue forze e senza scuse. E poiché il centro è relativo, per definizione, non c’è da stupirsi che Gantz, la presunta incarnazione del centro israeliano, si sia alleato con Gideon Sa’ar, di destra, tra tutti.
Ecco un chiaro esempio delle sue implicazioni: Per anni, il centro-sinistra ha visto l’Alta Corte di Giustizia come un’arena di consenso, obiettività e neutralità, liberal-democratica nel suo nucleo. Ma molti sostengono, a ragione, che se si guarda alle sue sentenze sui territori non è mai stato così. Quel che è certo è che negli ultimi anni la destra è riuscita nella sua campagna per frenare la Corte con sentenze che riflettono valori di sinistra. Invece di lottare con tutte le sue forze sul carattere della Corte, di criticarla aspramente e di chiedere giudici che si adattino ai suoi valori, proprio come sta facendo la destra, il centro-sinistra sta facendo del suo meglio per preservare lo status quo, il mamlakhtiyutgiudiziario, che in pratica sta da tempo andando alla deriva verso destra. Gli appelli all’unità nazionale alla Regina Elisabetta II in Israele oggi significano unità con Netanyahu, unità con Itamar Ben-Gvir, invece di una battaglia ostinata e palesemente non mamlakhti per il futuro dei valori liberali”. Così Landau.
Il collante sionista
Globalist ha già recensito l’ultimo saggio di Ilan Pappé, tra i più autorevoli e coraggiosi storici israeliani, La prigione più grande del mondo. Storia dei Territori Occupati (Fazi Editore, 2022). Scrive Pappé: “Nell’immediato dopoguerra del 1967, il tredicesimo governo di Israele si riunì quasi ogni giorno intorno a uno dei due tavoli, discutendo intensamente sul destino della Cisgiordania e della Striscia di Gaza e sul futuro delle persone che vi abitavano. Dopo quassi tre mesi di consultazioni con una serie di provvedimenti che, in qualche modo, condannavano gli abitanti delle due regioni all’ergastolo nella più grande prigione dell’era moderna. I palestinesi che lì vivevano sono stati infatti incarcerati per crimini che non hanno mai compiuto e per reati che non sono mai stati commessi, confessati o chiariti. […].
Quel governo in particolare, quello che prese la più spietata e disumana delle decisioni, era espressione del più ampio consenso sionista immaginale: intorno a quel tavolo, ovale o rettangolare che fosse, erano rappresentate ogni corrente ideologica e ogni prospettiva. I socialisti del partito Mapam (il Partito unificato degli operai)sedevano accanto al revisionista Menachem Begin e condividevano la gloria e il potere con le varie fazioni che componevano il movimento laburista sionista. A essi si univano poi i membri dei partiti politici più laici e liberali, nonché quelli dei partiti più religiosi e ultrareligiosi. Mai, né prima né dopo il mandato di quel governo, un’alleanza così consensuale avrebbe guidato lo Stato di Israele nelle sue decisioni cruciali riguardo l’avvenire”. E ancora: “Dal momento che le decisioni prese riflettevano l’interpretazione sionista condivisa circa la realtà passata e presente della Palestina, intesa come uno Stato ebraico esclusivo, agli occhi dei futuri politici israeliani nessuno degli sviluppi verificatisi in seguito sembrava poterne minare la validità. L’unico modo per contestare la scelta compiuta all’epoca era mettere in discussione la validità stessa del sionismo”.
Pappé dà una lettura “radicale” dell’”unità nazionale”. Non il portato di uno “stato di necessità” figlio della percezione di una minaccia esterna, che mette in discussione non soltanto la sicurezza ma l’esistenza stessa dello Stato (e del popolo) ebraico, bensì la ricaduta politica, e di potere, di una ideologia aggressiva, colonizzatrice: il sionismo. Una ideologia che si fa sistema. Rimarca Pappé: “Questo sistema diventerà un organismo vivente assai difficile da combattere e smantellare, da qui dunque la comprensibile disperazione che ha caratterizzato questi ultimi anni e che si è espressa con attentati suicidi o con il lancio di razzi, nessuno dei quali ha però prodotto la benché minima speranza di persuadere gli israeliani a rimuovere un simile abominio.
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