Matteo Renzi ama stupire. Soprattutto quanto è di scena all’estero. E ancor di più quando può esibirsi nella capitale del “Rinascimento saudita”. Riad. Lasciamo stare le polemiche di bottega su aerei privati messi a sua disposizione dalla mega miliardaria dinastia Saud, per costoro si tratta di una bazzecola, e anche i munifici cachet che il senatore Renzi percepisce, beato lui, per le sue conferenze. Stavolta, il leader di Italia Viva ha coniato un’altra iperbole per compiacere i regnanti sauditi e, visto che c’era, anche gli americani, cosa che non guasta mai per chi vuole godere di credito, politico, internazionale anche se nel Paese di origine conta sempre meno. Dopo il “rinascimento” ecco il “pilastro”.
Il Renzi-pensiero
Gli Accordi di Abramo sottoscritti da Israele con diversi Paesi arabi con la mediazione degli Stati Uniti e in particolare di Jared Kushner, ex consigliere di Donald Trump, rappresentano «uno dei pilatri» non solo della precedente amministrazione Usa, ma anche per le generazioni future dei Paesi occidentali. Così le agenzie di stampa danno conto di quanto sostenuto ieri da Renzi nel corso del dialogo «Raggiungere la pace e la prosperità», insieme all’ex consigliere del presidente degli Stati Uniti.
«Jared ha svolto un grande lavoro con gli Accordi Abramo», ha detto Renzi, sottolineando la «profondità» delle intese che hanno portato Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan ad avviare relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico e il Marocco a riallacciare i rapporti con Israele.
«Con i social media rischiamo di essere sempre concentrati sulla quotidianità. Non pensiamo alle prossime generazioni, pensiamo al prossimo post da pubblicare su Instagram o al prossimo tweet. Rischiamo di creare una generazione senza una visione a lungo termine. Credo che la decisione di investire negli Accordi di Abramo sia stata molto importate, perché ha fatto capire il senso di investire nelle generazioni», ha detto Renzi, unico europeo tra gli otto membri del Consiglio di fondazione della Future Investment Initiative, che comprende il governatore del Fondo di investimento pubblico saudita (Pif) Yasir al Rumayyan; l’ambasciatrice saudita negli Stati Uniti, Reema Bint Bandar; il fondatore e presidente della società emiratina Emaar properties, Mohamed Al Abbar; il fondatore di X-Price Foundation, Peter H. Diamandis; il presidente della King Abdullah University of Science and Technology, Tony Chan; la docente di Chimica Farmaceutica dell’Universita’ della California, Adah Almutairi; l’amministratore delegato dell’Istituto Fii, Riccardo Attia.
Una lettura consigliata
Che al senatore Renzi interessi il nulla del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, è cosa risaputa. Ma per chi si inerpica su sentieri impervi come è quello della geopolitica mediorientale, qualche buona lettura farebbe bene. Noi di Globalist gliene consigliamo una: quella di Anshel Pfeffer, storica firma di Haaretz, in particolare ciò che ebbe a scrivere in occasione della visita, nel luglio scorso, del presidente Usa Joe Biden in Israele.
Scrive Pfeffer: “Hanno detto che gli accordi di Abramo sono stati un’altra vuota trovata di pubbliche relazioni da parte dell’amministrazione Trump e che, una volta che alla Casa Bianca ci sarà qualcun altro al comando, tornerà la vecchia ortodossia diplomatica, secondo la quale ogni vero impegno tra Israele e gli Stati arabi sarà condizionato dalla questione palestinese.
Mercoledì scorso, Biden è atterrato all’aeroporto internazionale Ben-Gurion all’inizio del suo tour in Medio Oriente e ha chiarito di aver aderito pienamente all’eredità del suo predecessore.
La cooperazione regionale tra Israele e i regimi arabi è stata in cima alla sua agenda. O, come recita la Dichiarazione di Gerusalemme che ha firmato giovedì con Yair Lapid, vuole “espandere il cerchio della pace per includere sempre più Stati arabi e musulmani”.
E i palestinesi senza Stato? Biden vuole ancora che abbiano uno Stato oltre a Israele ma, come ha ammesso al suo arrivo, “so che non è a breve termine”. Per ora, i palestinesi non sono nel cerchio della pace. Che ne è di coloro che vogliono ancora porre fine all’ingiustizia dell’occupazione di milioni di persone sotto il dominio israeliano?
Per lunghi decenni, la sinistra ha utilizzato un approccio basato su bastone e carota per cercare di convincere gli israeliani a scendere a compromessi con i palestinesi. Il bastone era la minaccia di quello che Ehud Barak chiamava “tsunami diplomatico”, un’ondata di sanzioni diplomatiche e finanziarie che avrebbe distrutto l’economia israeliana se il conflitto non fosse stato risolto.
Questo non si è materializzato e nemmeno il movimento Bds, che ha recentemente celebrato il suo diciassettesimo anniversario, non è riuscito ad avere alcuna trazione nel mondo reale al di fuori dei social media. L’economia israeliana è fiorita e ora ha relazioni diplomatiche con più Paesi che mai. La carota doveva essere l’apertura del mondo arabo, con tutte le opportunità che ne derivano per il commercio, il turismo e i legami di sicurezza. Questo premio scintillante spetterebbe a Israele solo se prima ponesse fine all’occupazione. Come si è scoperto, Israele sta ottenendo questo premio senza averne prima pagato il prezzo.
Non doveva essere così. Israele doveva essere come il Sudafrica. Se non si fosse allineato alle richieste della comunità internazionale, avrebbe subito sanzioni debilitanti e un isolamento internazionale che lo avrebbe costretto a farlo.
Non è una coincidenza che le organizzazioni per i diritti umani abbiano iniziato ad accusare Israele di “apartheid” solo dopo gli Accordi di Abramo. Perché ora? I resoconti dettagliati dell’occupazione e della discriminazione dei palestinesi nei vari rapporti sull’apartheid descrivono un regime israeliano che è stato in vigore per lunghi decenni. Ma l’ipotesi di lavoro per tanto tempo è stata che l’occupazione fosse insostenibile e che Israele non potesse continuare a eludere la punizione per i suoi crimini per così tanto tempo.
Quando è emerso che Israele non solo era impunito, ma veniva anche premiato, le organizzazioni per i diritti umani hanno finalmente deciso di lanciare la loro bomba atomica. Ma ormai era troppo tardi. Le discussioni sulla giustificazione o meno dell’etichetta di apartheid non sono più rilevanti. È tutto accademico ora che il treno di Abramo ha lasciato la stazione. Ci sarà chi non accetterà i fatti e continuerà a pensare che la normalizzazione sia reversibile – che a un certo punto Israele farà qualcosa ai palestinesi che farà sì che gli emiratini e i sauditi minaccino di andarsene se Israele non cambia rotta. Ma negli ultimi due anni, dalla firma degli accordi, ci sono stati due periodi di tensione all’interno e intorno ad Al-Aqsa e al Monte del Tempio, uno dei quali è sfociato in una guerra totale a Gaza, e non si è sentito un fiato da quella parte. Forse non sarà così anche in futuro, ma finora sembra che i legami con Israele non siano condizionati dalla situazione dei palestinesi e non ci sono indicazioni che la situazione cambierà nel prossimo futuro.
Un’altra possibilità è quella di negare ancora di più l’evidenza e dire che tutto questo non ha importanza, perché i leader dei Paesi arabi che si stanno impegnando con Israele non rappresentano in realtà il loro popolo. Che tutto questo non ha valore perché si tratta solo di sporchi accordi tra autocrati. Da un certo punto di vista, questo è vero, ma è anche una vera e propria ipocrisia.
Quando il processo diplomatico con i palestinesi sembrava andare da qualche parte, nessuno che fosse realmente al corrente di ciò che stava accadendo sul campo si illudeva che Israele stesse per fare la pace con una democrazia modello. Lo diceva anche Yitzhak Rabin quando auspicava un’Autorità Palestinese che trattasse con Hamas “senza la Corte Suprema e senza B’Tselem”, cioè senza l’inconveniente dello Stato di diritto o della società civile guardiana dei diritti umani.
Coloro che cercano di svalutare gli accordi di Israele con i dittatori arabi solo perché sono dittatori non sembrano avere simili dubbi quando si tratta di perseguire accordi con l’Iran. Ironia della sorte, questa era l’argomentazione della destra: Israele non avrebbe mai avuto pace con gli arabi finché non si fossero democratizzati.
Nel mondo reale, siamo a questo punto. Il conflitto arabo-israeliano è finito e il conflitto israelo-palestinese non merita più il sostegno, la simpatia e il capitale politico di cui poteva godere un tempo. Questo significa, per chiunque voglia sinceramente trovare un modo per mantenere viva almeno una prospettiva di soluzione della questione palestinese, accettare i fatti e lavorare con essi. Nel prossimo futuro Israele non subirà pressioni in tal senso. I principali attori arabi della regione sono interessati a relazioni più strette con Israele, indipendentemente da qualsiasi progresso compiuto sul fronte palestinese. Questi sono i parametri, per ora.
Qualsiasi cambiamento – conclude Pfeffer – dovrà quindi provenire dall’interno delle società israeliana e palestinese e sarà graduale e dolorosamente lento. Joe Biden lo ha accettato. Ma la prossima settimana tornerà a Washington. Chi resta qui deve fare i conti con la realtà sul campo”.
Il “Rinascimento” insanguinato
Quanto poi alla sua infelice sortita sul “Rinascimento saudita”, riproponiamo ai nostri lettori alcuni passaggi dell’intervista che chi scrive fece in quell’occasione a Riccardo Noury, storico portavoce di Amnesty International Italia.
Il senatore Matteo Renzi ha affermato e ribadito che in Arabia Saudita è in atto un vero e proprio “Rinascimento”. Risulta anche a Amnesty International?
Se questa espressione include anche aspetti riguardanti i diritti umani, direi che è un puro ossimoro. Non c’è nulla nella situazione attuale dei diritti umani in Arabia Saudita che possa far pensare ad un miglioramento: le carceri sono piene di dissidenti, in particolari di avvocati, difensori dei diritti umani e di attiviste che hanno combattuto anni per ottenere riforme che hanno posto fine a molti aspetti della discriminazione nei confronti delle donne, purtroppo stanno in galera per aver lottato per quelle conquiste. La pena di morte continua ad essere applicata in modo massiccio. E questo riguarda solo il fronte interno. Stiamo parlando di un Paese che ormai saranno sei anni a marzo, bombardo lo Yemen, e quindi direi che si possa parlare, a ragion veduta, di un periodo ancora oscuro per quanto riguarda i diritti in Arabia Saudita.
Un’altra affermazione del leader di Italia Viva è che l’Arabia Saudita nello scenario mediorientale sia un argine all’estremismo integralista. Non è anche questo un ossimoro?
Si potrà anche dire che l’Arabia Saudita del 2021 non è quella del 2001, dunque non è l’incubatrice ideologica dei terroristi che compirono i crimini contro l’umanità alle Torri Gemelle l’11 settembre del 2001. Ma se veniamo ad anni più recenti, quello che va evidenziato è che l’Arabia Saudita ha finanziato i gruppi più estremisti e crudeli islamisti nel conflitto in Siria. Che decapita e mette a morte attivisti della minoranza sciita all’interno della provincia orientale, dunque all’interno stesso dell’Arabia Saudita. Che ha invaso il Barhein nel 2011 dove c’era una rivolta della minoranza sciita. Che da sei anni combatte una guerra contro un gruppo estremista sciita che controlla parte dello Yemen. Affermare che Riyadh sia un baluardo di moderazione sembra un po’ singolare.
Te la butto già brutalmente: perché l’Italia ha questo atteggiamento ossequioso, accondiscendente, verso autocrati come Erdogan, al-Sisi e lo stesso principe ereditario saudita, tanto plaudito da Renzi, Mohammad bin Salman?
C’è sempre un tema che domina sugli altri. E questo tema non è mai quello riguardante i diritti umani. Intanto, si tratta di Paesi , in tutti e tre i casi che hai citato, che rappresentano clienti importanti dal punto di vista della fornitura di armi. Sono considerati partner su aspetti che non riguardano i diritti umani, anzi che ne presuppongono la violazione: penso al ruolo della Turchia come soggetto che è stato lautamente pagato per fermare le partenze di migranti verso la frontiera marittima orientale dell’Unione europea. All’Egitto viene attribuito un ruolo di soggetto stabilizzatore nella sua area, con particolare riferimento alla Libia. E alla fine di tutto questo, c’è un enorme equivoco sul significato dell’aggettivo “moderato”. C’è una tendenza a credere, e questo vale soprattutto per quanto riguarda l’Arabia Saudita, ad una narrazione assolutamente finta…
Vale a dire?
Una narrazione che presuppone di investire grandi somme di denaro in campagne di pubbliche relazioni, in organizzazioni di forum, e questa narrazione è quella che si nutre dello “sport washing”, per cui si punta a investire nello sport per far dimenticare la situazione interna. E da ultimo, e questo secondo me è ancora più grave, nel “pink washing”, cioè mostrare questa leadership illuminata o “rinascimentale” del principe bin Salman come quello che ha emancipato le donne nel suo Paese. La prova contraria è che le vere riformiste, le vere “rinascimentali”, quelle che hanno iniziato decenni fa a sfidare il divieto di guidare, stanno in galera. In galera per un reato che potremmo dire di “oscuramento reputazionale”, cioè hanno avocato a sé quelle riforme che MbS pretende che il mondo creda che le abbia fatte lui.
A proposito di acquiescenza. Amnesty International Italia è stata fin dal primo giorno a fianco di Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, per chiedere verità e giustizia. La risposta la si è avuta dalla magistratura e non dalla politica, tanto meno dal Governo italiano. Anche qui vale la genuflessione ad un presidente, Abdel Fattah al-Sisi, che viene considerato, pure lui come Mbs, uno stabilizzatore del Medio Oriente?
Vale lo stesso discorso. Gli storici parlerebbero di “appeasement”, cioè di una politica basata sull’accettazione a tutti i costi dell’interlocutore. Sul dimenticare le violazioni dei diritti umani, sul mantenere buoni rapporti a tutti i conti ed evitare di disturbare. I risultati li abbiamo sotto gli occhi: da qualunque punto di vista si voglia esaminare, e torno ai tre Paesi menzionati, Egitto, Arabia Saudita, Turchia, c’è una complicità indiretta nel peggioramento della situazione dei diritti umani, in tutti e tre quei Paesi. Perché nel momento in cui non si parla di diritti umani, si fa il gioco dell’interlocutore che li inibisce nei modi più brutali. Nel caso dell’Arabia Saudita anche facendo a pezzi un giornalista dissidente, Jamal Khashoggi, il regime “rinascimentale” zittisce ogni forma di dissenso.
Fin qui Noury. Alla faccia del “Rinascimento”. E, aggiorniamo noi, alla faccia del “pilastro di Adamo”, magnificato dal senatore Renzi.