Israele torna alle urne per la quinta volta in tre anni: ecco cosa succede

I sondaggi anche stavolta indicano che non sarà facile formare un governo, nonostante la campagna agguerrita del leader dell'opposizione, Benjamin Netanyahu.

Israele torna alle urne per la quinta volta in tre anni: ecco cosa succede
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31 Ottobre 2022 - 14.18


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A un anno e mezzo dalle ultime elezioni, Israele torna nuovamente alle urne martedì prossimo, primo novembre: è la quinta volta in tre anni e mezzo, un unicum per lo Stato ebraico che non ha mai visto niente di simile dalla sua fondazione nel 1948. L’impasse politica che sembrava essere stata superata l’anno scorso con la nascita del ‘governo del cambiamento’ – una coalizione di otto partiti che riuniva destra, sinistra e centro, con la partecipazione per la prima volta di un partito arabo-israeliano – è tornata a tenere banco nel Paese.

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E i sondaggi anche stavolta indicano che non sarà facile formare un governo, nonostante la campagna agguerrita del leader dell’opposizione, Benjamin Netanyahu, che spera nel ritorno al potere anche per sfuggire ai suoi guai giudiziari.

Cecilia Scaldaferri su Agi.it ripercorre tutte le tappe.

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9 aprile 2019

Ad aprire la crisi politica nel novembre 2018 è il leader del partito nazionalista russofono Avigdor Lieberman, all’epoca ministro della Difesa. Il suo repentino abbandono del governo costringe il premier Netanyahu a indire elezioni anticipate. La novità si chiama Benny Gantz, ex capo di Stato maggiore, che annuncia la discesa in campo con un suo nuovo partito Blu e Bianco, nel quale confluiscono i centristi di Yesh Atid e altri due generali, Moshe Yàalon e Gabi Ashkenazi.

Obiettivo dichiarato, mandare a casa il leader del Likud, al potere da dieci anni ininterrotti. Ma il responso delle urne non è chiaro, tutti celebrano vittoria, nessuno ha i numeri sufficienti: i due principali sfidanti ottengono 35 seggi ciascuno alla Knesset su 120. Netanyahu viene incaricato dal presidente Reuven Rivlin di tentare di formare una coalizione di governo ma non ce la fa. Dopo settimane di negoziati serrati, il leader del Likud è costretto a gettare la spugna e vengono indette nuove elezioni anticipate per il 17 settembre.

17 settembre 2019

Lo scenario è pressoche identico, Netanyahu contro Gantz, in una campagna durissima; l’ex capo di Stato maggiore attacca a testa bassa e promette che non entrerà mai in un esecutivo con il leader del Likud. Finisce di nuovo in sostanziale parità, 33 a 32 per Blu e Bianco. Netanyahu viene nuovamente scelto per tentare di formare un governo e lancia la proposta dell’esecutivo di unità nazionale ma Gantz rifiuta.

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Di fronte all’insuccesso del leader del Likud, il 21 ottobre Rivlin dà l’incarico a Gantz, ma anche lui – dopo un mese di colloqui – è costretto a riconoscere il fallimento. Il 21 novembre, il procuratore generale Avichai Mandelblit incrimina Netanyahu per corruzione, frode e abuso di fiducia in tre casi, la prima volta di un premier sul banco degli imputati. Accuse respinte dal leader del Likud che denuncia un “golpe” nei suoi confronti. Intanto, nessuno riesce a trovare un’uscita alla crisi politica e si torna nuovamente alle urne, per la terza volta.

2 marzo 2020

Non c’è due senza tre, e la speranza del Paese è che queste elezioni possano portare Israele fuori dall’impasse politica in cui si dibatte da oltre un anno. Senza contare che gia’ arrivano i primi echi dell’epidemia di Covid che nel giro di poco si abbatte anche su Israele. Il Likud totalizza 36 seggi contro i 33 di Gantz che però, forte dell’appoggio di 61 deputati, ottiene l’incarico; ma di nuovo non riesce a mettere insieme una coalizione. Nel frattempo, lo Stato ebraico è costretto a decretare un duro lockdown per cercare di arginare il coronavirus.

Il 20 aprile, il colpo di scena: i due acerrimi rivali annunciano di aver trovato un accordo per un governo unitario d’emergenza che ha come primo obiettivo ‘salvare’ il Paese dall’epidemia. L’esecutivo durerà tre anni con una premiership a rotazione di 18 mesi ciascuno, a cominciare con Netanyahu. Un’intesa inedita che a maggio ottiene il via libera della Corte Suprema e poi la fiducia della Knesset.

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Ma la mossa di Gantz, da lui rivendicata come necessaria di fronte alla crisi sanitaria senza precedenti che ha investito il Paese, spacca la coalizione. Blu e Bianco va al governo con Netanyahu, con anche i laburisti di Amir Peretz, mentre lo Yesh Atid di Yair Lapid insieme a Moshe Ya’alon va all’opposizione, gridando al tradimento. Inizia una difficile coabitazione al potere tra Likud e Blu e Bianco che frana rovinosamente a dicembre sulla mancata approvazione della legge di bilancio. La Knesset viene sciolta e nuove elezioni indette per il 23 marzo.

23 marzo 2021

Lo scenario stavolta è diverso, il ‘campione’ dell’opposizione contro Netanyahu non è più Gantz, crollato nei sondaggi a causa del tradimento con Bibi. Ma allo stesso tempo la situazione non è cambiata granché, perché stando ai sondaggi nessun blocco ha la maggioranza per formare un governo. Il leader del Likud, in lotta per una sopravvivenza politica che lo possa salvare dai guai giudiziari, deve vedersela con tre principali avversari: il centrista Yair Lapid, l’ex alleato nel Likud Gideon Sa’ar, e il campione della destra ultra-nazionalista Naftali Bennett.

Proprio quest’ultimo, ago della bilancia, gira le spalle a Netanyahu e dopo oltre due mesi di negoziati raggiunge un accordo con Lapid per un ‘governo del cambiamento’: un’eterogenea coalizione che mette insieme otto partiti tra destra, sinistra e centro, alleati per la prima volta ai conservatori islamisti del partito arabo-israeliano Ra’am, e tenuti assieme da un unico denominatore comune, estromettere Bibi dal potere.

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La foto che ritrae Mansour Abbas insieme a Bennett e Lapid e’ storica: è la prima volta per Israele che un leader di un partito arabo-israeliano sottoscrive un’intesa con il capo di una formazione nazionalista ebraica.

1 novembre 2022

A fine giugno, dopo meno di 13 mesi in carica, la variopinta coalizione e’ vittima dei colpi incrociati dei suoi litigiosi membri e la pressione dell’opposizione nazional-religiosa guidata dal Likud. Sopravvissuto a picchi di tensioni per tutto l’anno di vita, l’esecutivo cade infine sulla bocciatura del rinnovo della legislazione civile che regola la vita dei coloni in Cisgiordania, affossato in aula da due ‘dissidenti’, il deputato del partito arabo-israeliano Ra’am, Mazen Ghanayim, e la parlamentare della sinistra radicale Meretz, Ghaida Rinawie Zoabi.

Insieme all’addio del deputato ribelle di Yamina Nir Orbach, da sempre molto poco allineato con la coalizione, il governo viene mandato sotto la soglia della sopravvivenza (59 deputati su 120), già in minoranza da aprile con la defezione della deputata di Yamina, Idit Silman.

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Consapevoli di aver esaurito tutte le opzioni per tenere insieme la coalizione, Bennett e Lapid preferiscono mettere fine all’agonia e presentarsi alle urne da una posizione di (relativa) forza. Il leader di Yamina passa il testimone al capo di Yesh Atid e annuncia che non si ricandida.

Il Paese torna alle urne estremamente polarizzato – la vera divisione resta ‘Bibi si’, Bini no’ – con i sondaggi che danno Netanyahu a un soffio dalla maggioranza di 61 seggi e l’estrema destra di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich in forte aumento. Cruciale la partecipazione dell’elettorato arabo ma secondo le previsioni l’affluenza della minoranza toccherà il minimo storico

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