Davanti a ministri, capi di Stato e di governo dell’area Med, diplomatici ed esperti, riuniti a Roma per la conferenza Med Dialogues, conclusa ieri, Giorgia Meloni offre di sé l’immagine di una premier dialogante, e a una conferenza con quella dizione non poteva essere altrimenti, che guarda al Mediterraneo non come luogo di battaglie navali ma come area di cooperazione. Sarà la platea ad ispirare la premier, fatto sta che nel suo intervento di mezz’ora, Meloni lascia da parte blocchi navali, respingimenti e porti sbarrati e rilancia la suggestione di un “Piano Mattei” per l’Africa.
Giorgia dixit
Riavvolgiamo il nastro e partiamo dalle affermazioni più impegnative svolte nel suo intervento dalla presidente del Consiglio, quelle che hanno destato più interesse nella platea internazionale che l’ascoltava e sul piano mediatico. Primo punto: la gestione dei rimpatri deve essere “europeizzata“. Questo approccio “è indispensabile” e “ci vuole più Europa sul fronte sud“, perché “da soli non possiamo gestire un flusso con dimensioni ormai ingestibili”. L’esecutivo di centrodestra, sul fronte interno, sta studiando un nuovo decreto flussi, che si annuncia con quote non lontane da quella di 69.700 ingressi fissata nell’ultimo, un anno fa. Con i ministri di Interno e Agricoltura, segue il dossier anche il titolare degli Esteri Antonio Tajani. “Vorremmo avere lavoratori che arrivano nel nostro Paese già formati, che abbiano già una destinazione operativa, cioè sapere dove devono andare a lavorare. E poi vorremmo premiare i Paesi che fanno accordi con noi”, chiarisce prima di accogliere Meloni assieme all’ambasciatore Giampiero Massolo alla conferenza organizzata dall’Ispi.
Recitano le agenzie che la premier parla circa mezz’ora, in una giornata segnata dall’ennesimo naufragio, con tre dispersi e una quarantina di persone messe in salvo dopo il ribaltamento di una barca al largo di Lampedusa. L’intervento ha anche l’effetto di tenere alto il livello dell’allarme, perché dopo il caso della Ocean Viking, anche alla luce del piano in 20 punti presentato due settimane fa dalla Commissione europea, “l’aria è positivamente cambiata”, per dirla con le parole usate l’’altro ieri dal vicepremier Matteo Salvini. “Per la prima volta la rotta del Mediterraneo centrale è stata considerata prioritaria in un documento della Commissione europea, è una vittoria – rivendica la presidente del Consiglio -. Non sarebbe accaduto se l’Italia non avesse posto la questione del rispetto della legalità internazionale e la necessità di affrontare il fenomeno delle migrazioni a livello strutturale”. “Il Mediterraneo ha bisogno di essere percepito prevalentemente come una comunità di destino e non come un luogo di morte causato dai trafficanti di vite umane”, la tesi di Meloni, che chiede all’Ue di “rilanciare la cooperazione migratoria con i partner dell’Africa e del Mediterraneo, che devono essere maggiormente coinvolti nel contrasto a traffico esseri umani”.
In sostanza, “ci vuole più Europa sul fronte sud“, l’esortazione della capa del governo, secondo cui “molte delle politiche europee rischiano di essere incomplete se non collocate in una più ampia dimensione mediterranea”. La critica riguarda i migranti e non solo. A un’Unione che “non riesce a controllare più niente” delle catene di approvvigionamento energetico, chiede “un segnale forte“, ossia “spostare il baricentro degli scambi energetici europei proprio verso il Mediterraneo”. E si può leggere anche un messaggio ai partner europei dietro il ragionamento sull’energia come “bene nazionale ma anche inclusivo e quindi comune”.
Dal canto suo, Meloni dall’inizio del mandato ripete di voler puntare su un ‘piano Mattei per l’Africa’, “un approccio con una postura non predatoria ma collaborativa”, perché “la nostra prosperità non è possibile se non c’è anche quella dei nostri vicini”. E perché così si “contrasterebbe più efficacemente il preoccupante dilagare del radicalismo islamista, soprattutto nell’area subsahariana”. Sono realtà, dice pensando anche Iran e Afghanistan, “così complesse” in cui “non c’è avvenire” senza libertà per giovani e donne. In questo scenario è “urgente” la stabilizzazione della Libia, dove Tajani si prepara ad andare per “un accordo generale” sui migranti. L’esecutivo tiene stretti rapporti anche con la Tunisia, la Turchia, nonché con i Paesi dell’Africa subsahariana come Mauritania e Niger, con i cui presidenti Meloni negli ultimi due giorni ha avuto lunghi incontri.
Narrazione e realtà
Dalla platea di Roma, la presidente del Consiglio ha affermato che “per la prima volta la rotta del Mediterraneo centrale è stata considerata prioritaria in un documento della Commissione europea, è una vittoria -. Non sarebbe accaduto se l’Italia non avesse posto la questione del rispetto della legalità internazionale e la necessità di affrontare il fenomeno delle migrazioni a livello strutturale”. Ma i documenti lasciano il tempo che trovano se restano tali. Nel migliore dei casi un saggio di buone intenzioni.
La narrazione, rilanciata alla grande dalla stampa mainstream, è quella sfoggiata dalla presidente del Consiglio e dai suoi ministri più impegnati sul fronte migranti.
La realtà è quella declinata da Valerio Nicolosi su Linkiesta. Scrive tra l’altro Nicolosi: “Nell’ultima riunione dei ministri della Giustizia e dell’Interno dei governi Ue è stato approvato un documento molto vago che parla di «cooperazione tra gli Stati» senza specificare di che tipo e soprattutto senza aggiungere nulla al Patto europeo per le migrazioni e asilo, che già prevede una quota redistributiva su base volontaria e la solidarietà dei Paesi che non vogliono accogliere nei confronti di quelli di primo approdo.
Si parla anche di potenziare gli accordi con gli Stati di partenza per dei rimpatri veloci, cosa già prevista e praticata a livello comunitario con molte nazioni, addirittura con l’Afghanistan, dove venivano riportati i profughi fino all’agosto del 2021 perché dichiarato Paese sicuro. Come è andata a finire lo sappiamo, ma da parte dei Ventisette non c’è stato neanche un accenno di autocritica su questa scelta.
L’unica novità è un contentino all’Italia: coinvolgere lo Stato di bandiera dopo che una nave effettua un soccorso. Questo è il cavallo di battaglia di Matteo Piantedosi e la riunione dei ministri europei ha accolto questa richiesta di Roma per dimostrare vicinanza all’Italia nei giorni in cui la crisi diplomatica con la Francia aveva isolato il governo Meloni dal contesto Ue. Come lo si potrà fare non è chiaro visto che le leggi internazionali non lo prevedono.
Nulla di nuovo insomma. Ma intanto il flusso non si ferma e la guerra avviata contro le Ong non ha portato risultati: novemila arrivi in Italia a novembre e poco più del dieci per cento attraverso le navi umanitarie, un dato in linea con quello fornito dallo stesso Viminale nei mesi scorsi e che parlava del quattordici per cento dei soccorsi coperti dalle Ong, mentre il restante ottantasei è effettuato dalla Guardia Costiera italiana, dalla Guardia di Finanza o, in minima parte, sono sbarchi autonomi.
Eppure solo pochi giorni fa in un’intervista al Corriere della Sera la presidente Giorgia Meloni parlava di pull factor e di «naturale convergenza» tra Ong e scafisti. Sul pull factor non c’è niente di nuovo perché è un’accusa vecchia che periodicamente rispunta, ma non ha mai trovato un riscontro nei dati.
Una ricerca di Matteo Villa (Ispi) e Eugenio Cusumano (Università di Leiden) già nel 2020 avevano smontato questa tesi che oggi torna con forza grazie a un fantomatico documento di Frontex mai reso pubblico e che la stessa agenzia europea di controllo delle frontiere ha commentato al Manifesto il 17 novembre: «La situazione migratoria è il risultato di una combinazione di molti fattori di spinta e attrazione, uno dei quali potrebbe essere la presenza di imbarcazioni di soccorso in alcune aree particolari» aggiungendo però che anche «meteo, vicinanza di navi delle Ong e degli Stati membri, situazione nei Paesi di arrivo» potrebbero essere una tra questi fattori di attrazione.
Nessuna «naturale convergenza», per dirla alla Meloni, tra Ong e partenze ma le navi umanitarie rientrano tra i tanti fattori che “potrebbero” influenzare le partenze.
In tutto questo ci sono due piste giudiziarie da tenere in considerazione: per Matteo Salvini continua il processo per il blocco della nave Open Arms dell’agosto 2019, le accuse sono omissione di atti d’ufficio e sequestro di persona, per aver negato lo sbarco a Lampedusa delle persone soccorse dalla nave spagnola.
Ma c’è un altro risvolto giudiziario che potrebbe influenzare le prossime scelte sulle politiche migratorie europee: l’European centre for constitutional and human right (Ecchr), una Ong tedesca, ha presentato insieme a Sea Watch un dossier alla Corte penale internazionale dell’Aja nel quale indica gli ex ministri dell’Interno italiani Marco Minniti e Salvini, l’ex e l’attuale premier maltese Jospeh Muscat e Robert Abela, l’ex direttore dell’Agenzia Frontex Fabrice Leggeri, l’ex Alto rappresentante dell’Unione europea per gli Affari esteri Federica Mogherini e dei membri del centro di coordinamento del soccorso marittimo italiani e maltesi, funzionari di Eunavfor Med e del Seae, il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) come responsabili dei respingimenti in Libia dei migranti.
Secondo il dossier tutti sapevano che tornando in Libia i migranti avrebbero nuovamente subito violenze e abusi, ma nonostante questo hanno continuato a finanziare la Guardia Costiera libica tra le cui fila spicca il nome di Bija, un ufficiale sul quale pende un mandato di cattura internazionale dopo che l’Onu lo aveva classificato come criminale proprio per traffico di esseri umani.
Eppure si torna a chiedere un nuovo codice di condotta per le navi umanitarie, accusate dagli esponenti del governo italiano di essere «taxi dei clandestini» (Antonio Tajani) e di fornire «viaggi organizzati» (Salvini), mentre si elude il vero problema: una gestione europea per la redistribuzione automatica dei rifugiati e corridoi umanitari dai Paesi limitrofi a quelli in guerra o colpiti da carestie. Perché mentre capiamo come chiudere le frontiere e fermare gli sbarchi al Viminale fanno i conti con il decreto flussi, necessario per mandare avanti interi settori produttivi. Coldiretti ha parlato di oltre centomila lavoratori per il settore agricolo, poi ci sono l’edilizia, la logistica e altri ancora. Numeri nettamente maggiori di quello di tutti i migranti arrivati in Italia nel 2022, senza contare che la quasi totalità di loro in pochi giorni era già sul confine francese per proseguire il viaggio”.
Così Nicolosi.
Il ministro va a vedere
Sempre dal meeting di Roma, Taiani fa sapere che prestissimo si recherà in Libia “per vedere un po’ come si può arrivare a un accordo generale”. Di cosi si tratti non è chiaro. Il ministro degli Esteri è abbottonatissimo anche in una intervista a La Stampa. E all’intervistatore che gli chiede se l’Italia ha un piano per la Libia, l’intervistato risponde con un laconico “Stiamo cercando soluzioni per trovare stabilità e pace”. L’intervistatore non molla la presa e lo incalza: Come? Chiede. La risposta di Taiani è l’indiretta conferma di quanto Globalist ha raccontato in decine di articoli: Roma non ha uno straccio di idea sul fronte libico: “Intanto con le elezioni, quella è la strada maestra per l’unità”, afferma il ministro. Ma che bella pensata, signor Ministro. A parte la mancanza assoluta di originalità: questa cosa l’aveva ripetuta in ogni dove il suo predecessore alla Farnesina, Luigi Di Maio, il fatto sostanziale è che queste elezioni, che si sarebbero dovute tenere esattamente un anno fa, sono state rinviate a data da destinarsi, perché in Libia ci sono due governi, due parlamenti, oltre 150 milizie armate che si contendono potere e territorio.
Se non vuol dar retta a quei sinistri di Globalist, al signor Ministro degli Esteri consigliamo vivamente la lettura di un documentato articolo-analisi di Fabio Tonacci su Repubblica. Scrive Tonacci: “Chi comanda in Libia? Uno e centomila, dunque nessuno. La Libia è un rompicapo che si fa più complicato ogni giorno che passa. Un caotico teatro dell’assurdo, dove nuovi attori si aggiungono ai vecchi – il generale Haftar, il poliziotto-trafficante Bija – che sembravano finiti e invece non se ne sono mai andati. Ci sono due governi e sono entrambi deboli: quello di Tripoli del premier Dbeibah è scaduto a giugno 2021 e non riesce a indire nuove elezioni; quello di Tobruk, affidato a Bashagha, non è riconosciuto dalle Nazioni Unite. Le vittime sono sempre loro, i migranti, che fame, conflitti e cambiamenti climatici trascinano in Libia per cercare chi un lavoro, chi un passaggio verso l’Europa, chi una possibilità. All’inizio dell’anno erano 621 mila, adesso la stima dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni è stata ritoccata al rialzo, 668 mila, a cui aggiungere i 43 mila richiedenti asilo. Le partenze per l’Italia crescono a un tasso che nel 2023 ci riporterà indietro nel tempo alla stagione 2015-2016. La guardia costiera libica, accusata di violare i diritti umani eppure finanziata coi soldi dello Stato italiano in nome di un contestato memorandum che il governo Meloni ha tacitamente rinnovato per altri tre anni il 2 novembre scorso, continua a intercettare i profughi in mare (centomila dal 2017 ad oggi) e a riportarli in un Paese che ormai neppure il più convinto sovranista può definire “sicuro”. Anche perché tornato a essere preoccupante incubatore del terrorismo di matrice islamica, con varianti autoctone dell’Is e di Al Qaeda che si stanno riorganizzando a ridosso dei confini. In questo scenario, l’Italia si è autorelegata in un angolo: non ha più voce in capitolo nel Paese che fu di Gheddafi, né interlocutori affidabili, né uno straccio di piano strategico per il governo dei flussi. Prova ne è il rinnovo del memorandum, senza dibattito in Parlamento e senza idee. “L’instabilità politica della Libia non consente nemmeno di negoziare sull’assistenza umanitaria, che si scontra con enormi difficoltà di accesso al Paese e limiti nelle attività”, osserva Giorgia Linardi, responsabile affari umanitari di Medici Senza Frontiere-Libia. “Rinnovare il memorandum, che drena fondi destinati allo sviluppo di questa terra per trattenervi i migranti a ogni costo, è un errore”. In Cirenaica, formalmente area del governo Bashagha ma soggetta alle scorribande di gruppi paramilitari e di fatto sotto l’influenza dell’Egitto e della Russia, presente con almeno duemila mercenari della Brigata Wagner, i trafficanti stanno mettendo in mare barconi con 500-600 persone sopra. In Tripolitania dal 2019 non si muove foglia che Ankara non voglia, non foss’altro per la flotta di droni kamikaze di fabbricazione turca che permette a Dbeibah di respingere gli assalti armati alla capitale. La Turchia di Erdogan ha anche preso in gestione per 99 anni il porto di Misurata e ha firmato un ricco accordo energetico col governo. Nei cinque centri di detenzione ufficiali a Tripoli, gli unici cui hanno accesso le agenzie Onu e le ong come Msf, sono rinchiuse 2.700 persone. Il Direttorato per il contrasto all’immigrazione illegale del ministero dell’Interno li chiama centri di accoglienza, ma sono prigioni, dove tengono la gente in condizioni pietose. Iperaffollati, sporchi, con poca acqua e poco da mangiare. Li gestisce un signore di nome Mohamad al-Khoja, leader di una milizia, indagato da tre agenzie governative libiche per aver fatto sparire 570 milioni di dinari dal fondo destinato alle forniture di cibo per i migranti. I migranti dei centri di Tajoura e Tarik al Sikka lo accusano di torture, abusi, pestaggi e anche sfruttamento, perché li usa come muratori nel cantiere del centro commerciale del fratello e come camerieri nella propria villa. “Controlla tutto al-Khoja”, racconta chi ha lavorato con lui. “Occupa i cortili dei dormitori per addestrare i combattenti della sua milizia”. E questi sono i centri ufficiali, il nodo visibile di una vasta ragnatela occulta di campi illegali di cui niente si sa. Si va dalle prigioni inaccessibili dell’Ovest nei pressi di Zuwarah, Sabrata e Zawiya, gestite dal gruppo paramilitare Ssa (Stability support apparatus) con l’aiuto del trafficante Bija, il comandante della guardia costiera di Zawiya scarcerato nel 2021, ai centri dell’Est in mano alle milizie del generale Haftar, tornato protagonista sia in Cirenaica sia nel Fezzan. Nonostante la Commissione internazionale d’inchiesta abbia documentato violazioni inquadrabili come crimini di guerra, dal 2023 la cornice d’intervento dell’Onu cambierà e la Libia verrà trattata non più come contesto umanitario ma “di sviluppo”. “Nei documenti sulla nuova cornice le esigenze umanitarie sono definite come “residuali””, spiega Linardi di Msf. “I tempi non sono maturi per questo passaggio: temiamo una pericolosa restrizione dello spazio umanitario”. Al governo italiano non basterà legarsi a un ipotetico e miliardario “piano Marshall per l’Africa”, troppe volte evocato a Bruxelles e mai realizzato, per tornare a contare qualcosa in Libia. Serve piuttosto una visione, un disegno generale e strategico per l’intero Nord-Africa che oltre al Viminale coinvolga direttamente la presidenza del Consiglio. Anche solo trovare un interlocutore affidabile e credibile sull’altra sponda del Mediterraneo sarà un’impresa, perché il problema della Libia – conclude Tonacci – non è il vuoto di potere, semmai il contrario: ci sono troppi poteri. E nessuno porta a Roma”.
Ora però le cose cambieranno. Il ministro Taiani va a Tripoli per “vedere un po’ cosa si può fare”.
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