Iran, silenziano le tv libere, oscurano la rete, arrestano registi: la censura al tempo degli ayatollah

Occorre silenziare l’informazione indipendente, far tacere le voci libere, quelle che raccontano sui social l’Iran che non si arrende

Iran, silenziano le tv libere, oscurano la rete, arrestano registi: la censura al tempo degli ayatollah
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

19 Febbraio 2023 - 17.20


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Il regime teocratico-militare iraniano lo sa molto bene: per annientare la “rivoluzione dei diritti” non basta impiccare i manifestanti, a decine, né riempire le carceri di migliaia di oppositori. Occorre silenziare l’informazione indipendente, far tacere le voci libere, quelle che raccontano sui social l’Iran che non si arrende. La censura permanente, i siti oscurati, i giornalisti minacciati e costretti all’esilio. 

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Ridurre al silenzio.

La rete indipendente Iran International Tv ha chiuso gli studi londinesi per proteggere i suoi giornalisti, annunciando che le trasmissioni continuano dagli uffici di Washington. La Tv, con i suoi reportage, ha cercato di far luce sulle violente repressioni che il regime sta portando avanti contro le proteste scatenate a metà settembre dalla morte della 22enne curdo-iraniana Mahsa Amini, in un paese in cui i media e i giornalisti indipendenti sono costantemente perseguitati. In un Tweet il Direttore generale, Mahmood Enayat, scrive “Non posso credere che si sia arrivati a questo” sottolineando che le minacce iraniane giunte alla rete televisiva lo sono anche per tutto il pubblico. 

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La decisione è stata presa venerdì scorso dopo l’arresto, lo scorso fine settimana, di un uomo austro-iraniano nelle vicinanze degli studi televisivi, accusato “di aver raccolto informazioni che potrebbero essere utili a una persona che commette o prepara un atto di terrorismo”. La polizia britannica ha aggiunto che, nonostante l’arresto, si continua a essere “seriamente preoccupati per la sicurezza delle persone che lavorano nell’Azienda”. 

Lo scorso ottobre, il governo iraniano aveva annunciato sanzioni contro Iran International e Bbc News Persian, accusandoli di “incitamento alle rivolte” e “sostegno al terrorismo” per la loro copertura delle proteste antigovernative. A novembre, il ministro dell’Intelligence iraniano, Esmail Khatib, aveva dichiarato che Iran International era stata definita da Teheran un’organizzazione “terrorista” e che ogni tipo di cooperazione con la televisione sarebbe stata considerata una minaccia alla sicurezza nazionale che i suoi “agenti” avrebbero perseguito”.

Una film-maker coraggiosa.

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La racconta sul Fattoquotidiano.it Simone Bauducco: “Immagina che questa intervista in Iran sarebbe una reato e che potrei essere incarcerata se tornassi indietro”. Somayeh Haghnegahdar è una film-maker iraniana che da un anno vive da esiliata in Italia. “Ho dovuto lasciare il mio paese perché non riuscivo più a lavorare a causa della repressione e della censura” spiega al Fattoquotidiano.it. Dopo la laurea in cinema all’Università dell’Arte di Teheran, ha lavorato per oltre vent’anni come montatrice di film che hanno conquistato premi in diversi festival internazionali come il Sundance. Ma negli ultimi tre anni la sua professione era diventata quasi impossibile: “Non riuscivo più a fare nulla”. Una condizione vissuta da tanti artisti e artiste iraniane. “Ci sono diversi modi per attuare la censura e la repressione – spiega Haghnegahdar – se denunci un problema che esiste nella società, le autorità iniziano a chiederti delle spiegazioni, poi ti tengono sotto controllo”. In certi casi possono arrivare a “segnalarti in modo tale che nessuno possa più lavorare con te”. E poi c’è il carcere. “Oggi ci sono più di cento artisti in prigione oppure in attesa del verdetto ma che non hanno la possibilità di lasciare in prigione”.

Mohammad Rasulof, Morgan Ilanlou e Jafar Panahi, scarcerato pochi giorni fa dopo 7 mesi di detenzione.Sono solo alcuni dei nomi dei registi che si trovano in carcere. “Con questa ondata di repressione è diventato difficile per un film-maker girare con la telecamera per strada – racconta Haghnegahdar – ma è successo che i manifestanti hanno iniziato a filmare per strada con i loro telefoni. Lottano a mani nude e con gli smart-phone registrando e diffondendo al mondo quello che accade nelle strade iraniane”. Per chi vive l’esilio invece c’è un’altra forma di resistenza. Haghnegahdar fa parte dell’associazione dei film-maker indipendenti iraniani (iifma.net), che raggruppa oltre cento film-maker da tutto il mondo. “Molti di noi hanno subito censura e repressione nel nostro lavoro” prosegue Haghnegahdar elencando gli obiettivi del collettivo: “la liberazione dei prigionieri politici, aumentare l’informazione sulla protesta, sostenere i film-maker indipendenti iraniani, smascherare la propaganda del regime nel mondo culturale internazionale, fermare la violenza sistemica del regime”.

Come si portano avanti questi obiettivi stando all’estero? “Provando a fare il nostro lavoro – racconta la donna – per me è importante esprimere il mio pensiero, io non sono in Iran ma il mio cuore è lì con loro. Per questo anche se mi trovo in Italia continuerò a fare dei film per descrivere e raccontare al mondo la situazione”. Uno degli ultimi progetti a cui sta lavorando Haghnegahdar è un lungometraggio sulla storia di una blogger femminista iraniana: “Racconto del suo passato in Iran e del suo presente in Italia”. Il film è in lavorazione ma per essere terminato ha bisogno di un produttore: “Penso che sarà un’opera importante perché parla di temi internazionali come il patriarcato, il fondamentalismo nascosto e la violazione dei diritti delle minoranze sessuali. E quando si parla di diritti delle donne significa parlare dei diritti di tutti gli esseri umani”.

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La denuncia di Amnesty International. Un caso eclatante.

Il rifiuto da parte delle autorità di ammettere e accertare le responsabilità del peggiore caso di omicidi segreti di massadall’istituzione della Repubblica islamica dell’Iran, i massacri delle prigioni del 1988, ha perpetuato cicli di crimini di diritto internazionale e di impunità con l’obiettivo di stroncare ogni forma di opposizione politica.

È questa l’accusa lanciata, in occasione del 44esimo anniversario della Repubblica islamica dell’Iran, il 6 febbraio scorso, da Amnesty International, che ha denunciato ancora una volta il ruolo fondamentale svolto da esponenti della diplomazia iraniana nel negare i massacri, diffondere false informazioni e opporsi a qualsiasi indagine internazionale.

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“Le autorità attualmente al potere in Iran stanno adottando strategie analoghe per coprire i crimini di diritto internazionale con cui stanno cercando di reprimere le proteste scoppiate in tutto il paese dopo la morte di Mahsa (Zina) Amini, avvenuta nel settembre 2022 a seguito di maltrattamenti e torture.

“Le autorità della Repubblica islamica si tengono aggrappate al potere da decenni commettendo orrori su orrori nell’assoluta impunità. Continuano sistematicamente a nascondere la sorte di migliaia di dissidenti politici assassinati negli anni Ottanta, i cui corpi vennero gettati in fosse comuni. Occultano o distruggono quelle fosse comuni e minacciano i sopravvissuti e i parenti degli uccisi in cerca di verità, giustizia e riparazione”,ha dichiaratoDiana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. 

“Tali crimini non sono un ricordo del passato. Questo anniversario arriva mentre è un corso un tremendo bagno di sangue nei confronti dei manifestanti, anche attraverso esecuzioni e condanne a morte. C’è bisogno di un’urgente azione globale per assicurare alla giustizia le autorità iraniane coinvolte in crimini di diritto internazionale”, ha aggiunto Eltahawy.

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 La copertura dei massacri delle prigioni del 1988. 

Tra il 1988 e il 1990, diplomatici e autorità di governo dell’Iran promossero la medesima narrazione, liquidando le denunce delle esecuzioni di massa del 1988 nelle prigioni come “propaganda di gruppi di opposizione” e sostenendo che le uccisioni erano avvenute nel contesto di un’incursione armata dell’Organizzazione dei mojahedin del popolo, un gruppo armato di opposizione che aveva le sue basi in Iraq.

Amnesty International ha raccolto prove sul coinvolgimento di vari rappresentanti diplomatici e autorità dell’epoca in questa copertura, tra i quali (tra parentesi il ruolo svolto all’epoca): Mohammad Jafar Mahallati (rappresentante permanente presso le Nazioni Unite a New York), Sirous Nasseri(rappresentante permanente presso le Nazioni Unite a Ginevra), Mohammad Ali Mousavi (incaricato d’affari a Ottawa, Canada), Mohammad Mehdi Akhoundzadeh Basti (incaricato d’affari a Londra, Regno Unito), Raeisinia (primo nome ignoto, primo segretario dell’ambasciata a Tokio, Giappone), Abdollah Nouri (ministro dell’Interno), Ali Akbar Velayati (Ministro degli Esteri), Mohammad Hossein Lavasani e Manouchehr Mottaki (viceministri degli Esteri).

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In qualità di rappresentante permanente presso le Nazioni Unite in quel periodo, Mohammad Jafar Mahallati ebbe un ruolo particolarmente attivo nello screditare le denunce dell’allora Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Iran così come quelle di Amnesty International e nell’indebolire la reazione delle Nazioni Unite. Nel novembre 1988, in un incontro col Relatore speciale, negò che ci fossero state esecuzioni di massa e sostenne falsamente che “molte uccisioni avevano avuto luogo durante combattimenti”. 

Un mese dopo, definì “ingiusta” una risoluzione delle Nazioni Unite che esprimeva preoccupazione per le esecuzioni nelle prigioni e affermò che la principale fonte di quelle “informazioni false” era un’organizzazione terrorista con base in Iraq”. 

Secondo fonti giornalistiche dell’epoca, nelle settimane precedenti l’adozione della risoluzione, Mahallati cercò di farla ritirare o di “annacquarla”, condizionò la cooperazione del suo paese con le Nazioni Unite all’eliminazione, dal testo, di frasi critiche sulle violazioni dei diritti umani in Iran – comprese le esecuzioni di massa – e propose l’adozione di “un testo più morbido che avrebbe semplicemente espresso apprezzamento per la decisione dell’Iran di collaborare con la Commissione delle Nazioni Unite sui diritti umani”.

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Sempre Mahallati, il 28 febbraio 1989, scrisse una lettera ad Amnesty International nella quale, ancora una volta, negava “l’esistenza di qualsiasi esecuzione politica” e descriveva le vittime come “individui che, come da loro stesso ammesso, avevano lanciato un’offensiva contro l’Iran uccidendo 40.000 iraniani”.

 La copertura delle uccisioni nel corso delle proteste del 2022.

Le attuali autorità iraniane stanno ricorrendo a tattiche simili per screditare una nuova generazione di manifestanti e dissidenti qualificandoli come “teppisti”, negando il loro coinvolgimento in centinaia di uccisioni illegali e resistendo alle richieste di indagini internazionali e di accertamento delle responsabilità.

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Alla vigilia di una sessione speciale di novembre 2022 del Consiglio Onu dei diritti umani sulla repressione mortale delle proteste, i funzionari iraniani a Ginevra hanno distribuito lunghi documenti in cui si attribuivano le uccisioni dei manifestanti a “terroristi assoldati”, “suicidi” o “incidenti”, contestando addirittura la morte di alcune vittime.

Nello stesso periodo Amir Saeed Iravani, rappresentante permanente presso le Nazioni Unite a New York, chiedeva agli stati di astenersi dall’appoggiare una riunione informale dei membri del Consiglio di sicurezza denunciando “una maliziosa campagna di disinformazione” ai danni dell’Iran.

Ignorando numerosissime prove sulleuccisioni illegali da parte delle forze di sicurezza di centinaia di manifestanti e anche di persone che stavano solo assistendo alle proteste, bambini compresi, Iravani affermava che “il diritto alla libera espressione e di manifestazione pacifica è riconosciuto e assicurato dalla Costituzione della Repubblica islamica e il godimento del nostro popolo di tale diritto è stato sempre sostenuto dal governo”.

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“Da decenni il governo iraniano e i suoi rappresentanti diplomatici orchestrano campagne di diniego e disinformazione per trarre in inganno la comunità internazionale e derubare le persone direttamente colpite, e la società nel suo complesso, del diritto alla verità. È davvero giunto il momento che i diplomatici iraniani rivelino la natura e le fonti delle istruzioni ricevute da Teheran e cessino di contribuire alla segretezza che circonda i massacri delle prigioni del 1988, che hanno solo rafforzato l’impunità e aggravato la sofferenza dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime”, ha concluso Eltahawy.

La repressione sistematica, le esecuzioni di massa, la censura permanente, sono elementi fondanti del regime iraniano. Un regime irriformabile. E i protagonisti della “rivoluzione dei diritti” lo sanno bene. Sulla propria pelle.

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