“Tunisia, la nuova Libia”. “Tunisia, la rivoluzione tradita”. “Uno Stato fallito di nome Tunisia”. Sono alcuni titoli dei tanti pezzi che Globalist ha dedicato all’implosione del Paese nordafricano. Un titolo ficcante, come l’analisi che supporta “, è quello del Il Manifesto: “Ue in aiuto a Tunisi se, come Tripoli, diventa gendarme dei migranti”.
Di grande interesse è l’analisi a firma Giuliana Sgrena: “Alla fine – scrive Sgrena – il presidente tunisino Kais Saied è tornato sui suoi passi e ha incontrato il commissario europeo per l’economia Paolo Gentiloni, contrariamente a quanto annunciato in un primo tempo. Lo sgarro, che non avrebbe potuto permettersi in questo momento, era motivato dall’orgoglio di un presidente che incontra solo i suoi pari. Atteggiamento all’insegna dell’autoritarismo che guida il suo operato di presidente della repubblica che ha assunto tutti i poteri e accusa tutti coloro che sembrano credere agli allarmi occidentali sulla situazione fallimentare dell’economia tunisina di essere traditori. Contro il «complotto» sono scatenati anche i social sostenitori del presidente.
Kais Saied, detentore della verità assoluta, accusa i corrotti e gli speculatori di essere i responsabili di tutti i mali della Tunisia. Compreso quello dell’immigrazione di profughi provenienti dai paesi della regione subsahariana che utilizzano la Tunisia come passaggio verso l’Europa.
«Non vogliamo alimentare la polemica continua e non costruttiva sui molti temi che riguardano la Tunisia, tra cui quello dell’immigrazione clandestina e della situazione economica. Coloro che amano la Tunisia devono evitare le dichiarazioni negative che possono avere gravi ripercussioni sulla situazione turistica ed economica del paese», ha dichiarato a radio Mosaique Mohamed Trabelsi, capo della diplomazia e dell’informazione del ministero degli esteri.
L’irritazione contro le prese di posizioni europeeespresse dal ministero degli esteri viene esorcizzata dal presidente che in tempo di Ramadan preferisce affrontare il problema dell’inflazione, tradizionale in questo periodo, che riguarda soprattutto i prezzi dei prodotti alimentari, discutendone con gli imam della moschea di al-Zeituna nella medina.
L’allarme europeo sulla situazione economica in Tunisia, che purtroppo si trascina da qualche mese provocando anche la scarsità di beni di prima necessità per la difficoltà nelle importazioni, coincide con l’ondata di emigrazioni in partenza dai porti della Tunisia, dove nei giorni scorsi è avvenuta una delle tragedie cui purtroppo gli ultimi tempi ci hanno abituati. La crisi della Tunisia si è indubbiamente aggravata dopo la sospensione del prestito del Fondo monetario internazionale di 1,9 miliardi di dollari, sulla cui concessione si concentrano ora le pressioni dei paesi europei, in particolare l’Italia e la Francia.
Ulteriori prestiti si fanno dipendere da quello più consistente del Fmi che è però condizionato da riforme – soprattutto il risanamento delle imprese pubbliche -da parte del governo tunisino.
La crisi della Tunisia non è solo economica ma anche decisamente politica dopo il «golpe» di Saied. Sebbene il parlamento europeo abbia approvato una risoluzione che condanna la violazione dei diritti umani da parte del regime tunisino con molti dissidenti in carcere, i governi europei, soprattutto quello italiano, tentano di ripetere con la Tunisia l’operazione anti-immigranti già fallita con la Libia e con la Turchia. Aiuti economici, fornitura di motovedette e sistemi di controllo, oltre al rimpatrio nei paesi di origine – già accettato da alcuni paesi – favoriscono la linea xenofoba di Saied, ma viene criticata da chi teme che si voglia fare della Tunisia il nuovo gendarme dell’Africa nel mar Mediterraneo.
E questo è in effetti il vero obiettivo che si nasconde dietro le preoccupazioni e gli impegni di aiuti economici a Tunisi, etichettati come «piano Mattei» già riconvertito nel più scontato piano Marshall» riproposto a ogni occasione senza che trovi mai una definizione precisa e tantomeno una realizzazione. Alla promozione dei vari «piani» tendono i vari messaggeri inviati a Tunisi.
Ieri si è aggiunta una nuova preoccupazione – ripresa dai giornali tunisini – del «pericolo islamizzazione» sollevata dal ministro degli esteri italiano Tajani. «Non possiamo abbandonare la Tunisia – ha detto ancora il ministro – perché se cade questo governo, rischiamo di avere i Fratelli musulmani dentro casa. Non possiamo permetterci una islamizzazione del Mediterraneo. Ecco perché occorre agire subito». I Fratelli musulmani, rappresentati dal partito Ennahdha, sono già stati al potere in Tunisia e sebbene il presidente Saied abbia contrastato il partito di Rachid Ghannouchi, la sua visione del ruolo della religione è ancora più radicale «lo Stato deve operare per il raggiungimento degli obiettivi dell’Islam e della Sharia». E forse Tajani non si è accorto che organizzazioni che fanno riferimento ai Fratelli musulmani sono presenti nel Consiglio d’Europa e fanno campagne pubblicitarie finanziate anche dall’Unione europea, come quella bloccata dalla Francia: «La mia libertà è nell’hijab». Ma si sa che la vera preoccupazione di Tajani e di tutta la destra è quella di salvaguardare l’identità cristiana dell’Europa”.
Così Giuliana Sgrena
E l’Italia?
Altro report di grande interesse è quello di Pietro Batacchi, direttore di Rid (Rivista italiana difesa).
Annota Batacchi: “La crisi tunisina, un mix potenzialmente esplosivo tra crisi economica – in parte dovuta alla Guerra in Ucraina e alla guerra del grano – e crisi istituzionale, segna il fallimento definitivo della stagione delle primavere arabe.
Una stagione che non ha fatto altro che minare ulteriormente la stabilità di tutto il Medioriente, originando conflitti di ogni genere e guerre. La foto del Presidente Assad che incontra il Presidente degli EAU, Sheikh Mohamed (MBZ, Mohamed Bin Zayed), le potenze arabe che riaprono le ambasciate a Damasco: altri segni di questo fallimento.
Oggi, di quella stagione non resta più, dunque, neanche il caso virtuoso della democrazia tunisina, con un Paese diviso tra l’autocrate conservatore-indipendente, il Presidente Saied, e la Fratellanza Musulmana, laddove quest’ultima è strutturalmente incompatibile con i valori occidentali della liberal-democrazia di massa. Chi aveva innescato quella stagione, l’Amministrazione Obama, non ha ha poi voluto o saputo governarla/guidarla, come si converrebbe rispetto a processi e fenomeni così complessi, e a un certo punto “è sparito”. Altri, Francesi e Inglesi, hanno opportunisticamente cercato di ottenerne vantaggi ai danni di alleati come l’Italia, nel caso della guerra di Libia nel 2011, e altri ancora ne hanno approfittato per entrare dove erano assenti, la Turchia, o rientrare dove non c’erano più, la Russia. Un disastro, insomma, che ha toccato direttamente il nostro interesse nazionale.
Ecco, in questo scenario un Paese normale, dipendente per la sua sicurezza e il suo benessere dal Mediterraneo, avrebbe dovuto da anni dotarsi di una politica autonoma per la regione e perseguirla, con la diplomazia e con la forza, senza complessi e senza paure. Invece, nulla. Il Libro Bianco della Difesa del 2015 e la “Strategia di Sicurezza e Difesa per il Mediterraneo” degli ex Ministri Pinotti e Guerini, rispettivamente, vuoi per una ragione, vuoi per un’altra, sono rimasti lettera morta: ottime basi di partenza ma se poi non c’è la volontà e la forza politica di applicare una strategia, la strategia stessa resta un bell’esercizio incompiuto.
Ed oggi ci risiamo. L’Italia è nuovamente alle prese con l’instabilità del suo fianco meridionale, mentre è massicciamente e militarmente impegnata per difendere il fianco orientale della Nato: uno strabismo che se non gestito con equilibrio può essere pericoloso per i nostri interessi. Il punto di fondo è questo, fermo restando l’interesse fondamentale rappresentato dalla nostra appartenenza alla Nato e dal rapporto bilaterale con gli Usa, mai come oggi l’Italia – e qui ci rivolgiamo direttamente al nuovo governo – ha bisogno di una politica autonoma per il Mediterraneo. Gli Americani oggi guardano da altre parti e con una minaccia terroristica ridimensionata hanno poco o punto interesse per il fianco sud, con i Francesi il riapproccio in Mali è andato come andato (Mali oggi governato da Prigozhin), gli Inglesi stentano in generale pagando le conseguenze della Brexit. Non abbiamo, dunque alternativa al “fare da noi”.
Come? Occupandoci in prima persona della stabilità di quest’aerea: investendo economicamente, coltivando nuove élite politiche, stringendo rapporti militari bilaterali e articolando una nostra presenza militare, discreta ma robusta, in tutta l’area. Un reticolo di Stand In Forces, per addestrare i partner locali, per fare info-ops, e ricognizione e contro-ricognizione, per fare da deterrente ma, in caso di escalation, per fornire una prima capacità di risposta. Insomma, l’Italia deve occuparsi da sé del Mediterraneo combinando in una strategia chiara e coerente tutte le leve di potenza – economiche, culturali/comunicative, strategiche e militari – a prescindere dagli alleati, i cui interessi non è detto combacino con i nostri e la cui volontà non è detto sia coincidente con la nostra. Facciamolo. Lo dobbiamo ai nostri figli”.
La denuncia della società civile
Oltre 20 associazioni della società civile tunisina capitanate dal Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes) denunciano in un comunicato congiunto gli arresti arbitrari condotti dalle autorità tunisine nei confronti dei migranti subsahariani in Tunisia e chiedono al governo di “aggiornare e sviluppare un quadro giuridico in materia di immigrazione e asilo per allinearlo agli standard internazionali, nonché di dare priorità all’avvio di una strategia nazionale sull’immigrazione che garantisca l’integrazione e la protezione di diritti”.
“Negli ultimi giorni più di 300 migranti sono stati arrestati, a seguito di un controllo di identità o per la loro presenza in tribunale a sostegno dei loro parenti” – scrive il Forum – “allo stesso tempo, lo Stato tunisino sta facendo orecchie da mercante all’aumento di discorsi odiosi e razzisti sui social network e in alcuni media, che prendono di mira specificamente i migranti dall’Africa sub-sahariana; questo discorso odioso e razzista è persino portato da alcuni partiti politici, che svolgono azioni di propaganda sul campo agevolate dalle autorità regionali”.
Secondo l’ultimo studio dell’Istituto nazionale di statistica, risalente al 2021, il numero dei migranti subsahariani in Tunisia sarebbe di 21.466, compresi gli studenti. Queste cifre smentiscono il discorso razzista discriminatorio basato sull’approccio di amplificazione e sicurezza al trattamento delle questioni migratorie in Tunisia”.
La Costituzione regressiva
Così Amnesty International: “Dopo l’approvazione del 25 luglio 2022, tramite un referendum cui ha preso parte solo il 30,5 per cento degli aventi diritto, la nuova Costituzione della Tunisia è entrata in vigore il 27 agosto andando a sostituire quella del gennaio 2014.
“È molto preoccupante che la Tunisia abbia adottato una nuova Costituzione che compromette i diritti umanie mette in pericolo i progressi fatti dalla rivoluzione del 2011. Il nuovo testo costituzionale smantella molte garanzie sull’indipendenza del potere giudiziario, cessa di tutelare i civili dai processi in corte marziale e garantisce alle autorità il potere di limitare l’esercizio dei diritti umani o di rinnegare gli obblighi internazionali in nome della religione”, rimarca Heba Morayef, direttrice per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International.
“A differenza di quella del 2014, la nuova Costituzione è stata redatta a porte chiuse, con una procedura completamente sotto il controllo del presidente Kais Saied. Alle tunisine e ai tunisini non è stato spiegato come sono andate le cose né è stato chiarito perché la precedente Costituzione doveva essere sostituita”, aggiunge Morayef.
“La nuova Costituzione è stata sottoposta a referendum esattamente un anno dopo il giro di vite attuato dal presidente Saied. Durante l’ultimo anno, le autorità hanno preso di mira voci critiche e oppositori politici e hanno compromesso le protezioni sui diritti umanicon una velocità allarmante. La nuova Costituzione non dovrà essere il pretesto per arretrare rispetto agli obblighi internazionali sui diritti umani della Tunisia”, conclude Morayef.
A fronte di questa tragedia annunciata, l’Italia e l’Europa continuano a guardare al Nord Africa e ai Paesi della sponda sud del Mediterraneo solo e sempre in termini di esternalizzazione dei confini. E chiunque può garantirlo, spesso smentito dai fatti, è un interlocutore da sostenere, finanziare, armare. Non importa se è un autocrate senza scrupoli, un calpestatore seriale di diritti umani, un affossatore di rivoluzioni democratiche. L’importante è che sia disposto a fare il lavoro sporco al posto nostro. Per questo l’Italia e l’Europa sono complici del disfacimento della Libia e ora della Tunisia. Chi “semina” gendarmi raccoglie tempesta.
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