Migranti, dopo il Libiagate il Sudangate: Italia e Ue ricattate dai criminali in divisa

Dopo il “Lybiagate”, ecco disvelarsi il “Sudangate”. A tirarlo fuori è sempre lui, Nello Scavo. Ossia i generali che bussano cassa a Italia e Ue per bloccare i migranti

Migranti, dopo il Libiagate il Sudangate: Italia e Ue ricattate dai criminali in divisa
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

26 Aprile 2023 - 15.08


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Uno scoop eccezionale. Di un giornalista che fa onore alla nostra bistrattata, spesso a ragione, categoria. Dopo il “Lybiagate”, ecco disvelarsi il “Sudangate”. A tirarlo fuori è sempre lui, Nello Scavo. 

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Quelle brutte frequentazioni che si ripetono

Scrive Scavo su Avvenire: “È il 7 febbraio di quest’anno quando i paramilitari di Rsf inviano un messaggio a Roma e a Bruxelles. I capi dell’autoproclamata Forza di intervento rapido lo fanno esibendo ancora una volta sui social network i volti spaventati di alcune decine di migranti. Sono subsahariani catturati nel deserto. « Il Sudan – scrive Rsf – è un Paese di transito per gli irregolari che vogliono raggiungere l’Europa attraverso il Mar Mediterraneo, favoriti dalla mancanza di moderni sistemi di controllo lungo i confini con l’Egitto, la Libia e il Ciad». La richiesta di equipaggiamento per il controllo dei confini diventa così esplicita e non più sottobanco. 

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La Rsf, capitanata dal vicepresidente del Consiglio sovrano di transizione Mohamed Hamdan Dagalo, sa infatti che è specialmente l’Italia a voler installare lungo gli invisibili confini di sabbia un sistema di sorveglianza multiruolo. Fermare i migranti prima dell’ingresso in Libia, o riportarli in Sudan proprio dalle regioni meridionali libiche, è perciò il pretesto perfetto per accreditarsi quali interlocutori di riferimento, e intanto drenare risorse e mezzi da usare nel lavoro di gendarmeria frontaliera quanto nei combattimenti interni. La dottrina di Roma, affinata a partire almeno dal 2017, è chiara: sostenere chi si fa carico di contenere i flussi migratori adoperando fondi italiani e di Bruxelles, senza troppo sottilizzare sui diritti umani. 

È il “Libyagate” che si ripete più a Sud. Con il risultato di avere legittimato e armato i paramilitari che stanno mettendo sottosopra il Sudan e gettando scompiglio nell’intera regione. In ballo c’è un vecchio progetto “Made in Italy”, il cui valore nel tempo si è più che triplicato. Nel 2009 una delle aziende della ex Finmeccanica (oggi Leonardo) si era aggiudicata l’appalto da 300 milioni per il monitoraggio dei confini libici. Buona parte dei fondi li avrebbe messi a disposizione l’Unione Europea. 

Ma la rivoluzione contro Gheddafi mandò tutto per aria. Provarono a vendere il progetto anche ad Assad, in Siria, ma la guerra nel frattempo scoppiata anche lì spense la trattativa. Una porzione di quel vecchio piano è stata messa in prova nel Niger, attraverso compagnie private che mettono a disposizione uomini e mezzi aerei: se qualcosa va storto o qualcuno commette crimini, gli Stati potranno scaricare le colpe sui mercenari. In Sudan il lavoro sporco è stato appaltato proprio a Rsf che non di rado viene ammessa all’interno del territorio libico, da dove vengono operate le espulsioni di massa dei migranti. Nei giorni scorsi era stato il segretario generale dell’Onu a denunciare i respingimenti nel deserto, di comune accordo tra milizie libiche e paramilitari sudanesi. « Il 31 dicembre, il Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale di Kufrah (nel Sud della Libia, ndr) ha espulso più di 400 migranti e richiedenti asilo – ha scritto Guterres la settimana scorsa -, tra cui donne e bambini, principalmente provenienti dal Ciad e dal Sudan, la maggior parte dei quali espulsi verso il Sudan». 

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Le agenzie Onu avrebbero voluto visitare i migranti e intervistarli, ma «alle organizzazioni internazionali non è stato concesso l’accesso». Tuttavia grazie a contatti locali e testimonianze raccolte dopo la deportazione è stato possibile accertare che prima dell’espulsione i migranti sono stati sottoposti «a traffico di esseri umani, torture, violenze sessuali e di genere, estorsioni». A molti non viene data scelta. Diventano schiavi delle milizie. Vite a perdere da dare in pasto all’artiglieria. Già nel 2018 un report del “Clingendael”, l’istituto olandese per la formazione nelle relazioni internazionali, aveva accusato Bruxelles di avere fornito indirettamente agli ex janjaweed oltre 160 milioni di euro per rafforzare i gruppi armati confluiti nella Forza di reazione rapida (Rsf ). Tra loro diversi comandanti accusati di crimini di guerra e genocidio nella regione sudanese del Darfur. Un gruppo di attivisti per i diritti umani sudanesi ed eritrei ha scritto a Bruxelles. 

«L’Unione europea e i suoi Stati membri – è l’accusa hanno esternalizzato la politica migratoria attraverso la cooperazione diretta e indiretta con regimi e milizie del tutto irresponsabili». Nei mesi scorsi sono stati segnalati, e mai smentiti, alcuni viaggi di ufficiali dell’intelligence italiana in Sudan. Giunti a bordo di aerei dei Servizi segreti, avrebbero trattato con Dagalo e i suoi emissari. Poco dopo analoghi colloqui sono stati segnalati tra Rsf e inviati del Wagner group, l’esercito privato russo a disposizione del Cremlino, i cui aerei Ilyushin fanno la spola tra la base dell’esercito russo in Siria, a Latakia, e il confine sud tra Libia e Sudan. Con il risultato che in Ucraina Italia e Ue sostengono la resistenza contro la Russia e i mercenari Wagner, ma in Sudan, nel nome del respingimento dei migranti, si ritrovano dalla stessa parte”.

La premier bacchettata dalla Banca Mondiale

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Da uno scoop all’ennesima bocciatura internazionale incassata dal governo Meloni. 

A darne conto, in un’analisi ben documentata, è  greenreport.it: “In queste ultime settimane, dopo la strage di Cutro, il governo italiano di destra sta mostrando ancora la faccia dura verso i migranti ma non sta (e non può) mantenendo le promesse elettorali fatte quando chi governa oggi era all’opposizione, mentre migliaia di profughi, richiedenti asilo e migranti economici e ambientali continuano a sbarcare e mentre i ministri – tra un discorso truce sulla sostituzione etnica e l’altro – portano a 500mila il numero dei migranti “regolari” di cui l’Itala ha bisogno per far funzionare agricoltura, industria e sistema pensionistico e sanitario.

Se qualcuno volesse cercare una spiegazione di questa schizofrenica politica del “no ai migranti – avremo bisogno dei migranti” del governo Meloni, farebbe bene a leggersi il  nuovo “World Development Report 2023: Migrants, Refugees, and Societies” della Banca mondiale che ci ricorda che «Le popolazioni di tutto il mondo stanno invecchiando a un ritmo senza precedenti, rendendo molti Paesi sempre più dipendenti dalla migrazione per realizzare il loro potenziale di crescita a lungo termine».

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Il rapporto identifica invece nel trend attuale «Un’opportunità unica per far funzionare meglio la migrazione per le economie e le persone. I Paesi ricchi, così come un numero crescente di Paesi a reddito medio, tradizionalmente tra le principali fonti di migranti, affrontano una diminuzione della popolazione, intensificando la competizione globale per lavoratori e talenti. Nel frattempo, si prevede che la maggior parte dei Paesi a basso reddito vedrà una rapida crescita della popolazione, mettendoli sotto pressione per creare più posti di lavoro per i giovani».

E la vecchia Italia che non fa più bambini e dalla quale i giovani fuggono alla ricerca di un lavoro stabile e ben pagato, è un caso di studio. A pagina 75,del rapporto si legge: «Le politiche per la natalità hanno avuto un impatto misto e relativamente limitato in tutti i paesi. Poiché il declino demografico è già avanzato, è improbabile che si inverta presto, se non per niente. L’Italia, ad esempio, conta attualmente circa 2,4 milioni di bambine sotto i 9 anni. Ognuna di queste ragazze dovrebbe avere 3,3 figli, se volessero costruire una generazione grande come quella dei loro genitori: un drammatico aumento del tasso di fertilità, rispetto a quello attuale di 1,3». E in un commento su La Repubblica la Banca Mondiale fa un esempio concreto: «Paradossalmente, uno degli elementi chiave dell’aumento dei tassi di natalità è l’assistenza all’infanzia, che in molti paesi è fornita in modo sproporzionato dai migranti. Migrazioni e politiche per la nascite non sono dunque due elementi di una semplice alternativa, ma anzi si completano a vicenda». Anche qui le teorie del ministro Lollobrigida e le misure pro-natalità del governo Meloni vengono derubricate a semplice propaganda inefficace. E anche l’ultima uscita della premier Meloni sul (necessario) incremento del lavoro femminile viene molto ridimensionata dal rapporto: «Italia, Grecia e Corea potrebbero potenzialmente aumentare la partecipazione delle donne al lavoro. Tuttavia, la portata di tali cambiamenti è alquanto limitata in molti Paesi ad alto reddito, dove la partecipazione alla forza lavoro è già elevata». E il Paese con il più alto livello di evasione fiscale e che vuole mette una flat tax per i ricchi dovrebbe tener conto anche di un altro aspetto rivelato dal rapporto: «In media, i contributi fiscali netti dei migranti e dei cittadini naturalizzati nei paesi dell’Ocse sono più alti di quelli dei nativi».

Axel van Trotsenburg, senior managing director della Banca mondiale, sottolinea che «La migrazione può essere una forza potente per la prosperità e lo sviluppo. «Quando è gestito correttamente, offre vantaggi a tutte le persone, nelle società di origine e di destinazione.

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Il rapporto conferma quanto in molti vanno dicendo da anni. «Nei prossimi decenni, la percentuale di adulti in età lavorativa diminuirà drasticamente in molti paesi. La Spagna, con una popolazione di 47 milioni, dovrebbe ridursi di oltre un terzo entro il 2100, con quelli sopra i 65 anni che aumenteranno dal 20% al 39% della popolazione». L’Italia segue lo stesso trend e anche Paesi in via di sviluppo come Messico, Thailandia, Tunisia e Turchia potrebbero presto aver bisogno di più lavoratori stranieri perché la loro popolazione non è più in crescita.

La Banca Mondiale evidenzia che «Oltre a questo cambiamento demografico, stanno cambiando anche le forze che guidano la migrazione, rendendo i movimenti transfrontalieri più diversificati e complessi. Oggi, i Paesi di destinazione e di origine abbracciano tutti i livelli di reddito, con molti Paesi come il Messico, la Nigeria e il Regno Unito che inviano e ricevono migranti. Il numero di rifugiati è quasi triplicato nell’ultimo decennio. Il cambiamento climatico minaccia di alimentare più migrazioni. Finora, la maggior parte dei movimenti guidati dal clima avveniva all’interno dei Paesi, ma circa il 40% della popolazione mondiale – 3,5 miliardi di persone – vive in luoghi altamente esposti agli impatti climatici».

La critica alle politiche migratorie “difensive” e “respingenti” è durissima e spiazzante: «Gli approcci attuali non solo non riescono a massimizzare i potenziali guadagni di sviluppo della migrazione, ma causano anche grandi sofferenze alle persone che si spostano in difficoltà. Circa il 2,5% della popolazione mondiale – 184 milioni di persone, inclusi 37 milioni di rifugiati – ora vive al di fuori del proprio Paese di nazionalità. La quota maggiore, il 43%, vive nei Paesi in via di sviluppo».

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Il rapporto sottolinea l’urgenza di gestire meglio la migrazione: «L’obiettivo dei responsabili politici dovrebbe essere quello di rafforzare la corrispondenza delle competenze dei migranti con la domanda nelle società di destinazione, proteggendo al contempo i rifugiati e riducendo la necessità di spostamenti fatti in situazioni difficili» e fornisce ai responsabili politici un quadro su come farlo.

Indermit Gill, economista capo e vicepresidente senior per l’economia dello sviluppo del gruppo della Banca mondiale, fa notare che «Questo rapporto sullo sviluppo mondiale propone un 

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