Migranti, la geopolitica dei naufraghi

C’è una geopolitica dei naufraghi. A delinearla è Martino Diez per Fondazione Oasis.

Migranti, la geopolitica dei naufraghi
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

22 Giugno 2023 - 15.44


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C’è una geopolitica dei naufraghi. 

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A delinearla è Martino Diez per Fondazione Oasis.

Scrive Diez: “C’è un elemento nel funesto naufragio avvenuto al largo del Peloponneso che è passato abbastanza inosservato nella stampa italiana: la geografia. A bordo del peschereccio partito dalla Cirenaica e inabissatosi nelle acque del mar Ionio, non c’erano soltanto egiziani o palestinesi, ma anche bengalesi, pachistani, afghani e siriani. Come erano arrivati in Libia? Non certo via terra. Ecco un elemento che, nell’epoca del GPS e dell’eclissi della spazialità, rischia di sfuggire a molti. Facciamo allora un passo indietro. Dal Pakistan o dall’Afghanistan non è difficile entrare in Iran, più o meno ignorati dalle autorità. Tra Iran e Iraq il confine è notoriamente poroso, per non parlare di quello tra Iraq e Siria, che fu completamente abolito da ISIS non più di qualche anno fa. Insomma, arrivare a Damasco dal subcontinente indiano è una questione relativamente semplice, naturalmente per quanto possa esserlo muoversi clandestinamente e alla mercè delle angherie dei trafficanti e (spesso) delle autorità. Fino a qualche anno fa, la strada dell’Asia portava poi dalla Siria in Turchia, ma al momento questa rotta è stata bloccata, un po’ per i fondi che l’Unione Europea versa ad Erdoğan a questo scopo, ma anche e soprattutto per il malcontento della popolazione turca. Anche alle recenti elezioni presidenziali il tema ha tenuto banco e persino Erdoğan, che negli anni ha accolto più di tre milioni di siriani scommettendo sulla caduta imminente di Asad, è stato costretto a una parziale retromarcia sulla questione, incalzato non solo dalle opposizioni, ma anche dai suoi stessi alleati.

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 Chiusa la strada verso nord, ai migranti non resta dunque che dirigersi verso sud, puntando a ricongiungersi alla cosiddetta rotta centro-mediterranea che dal Sahara conduce in Libia o in Tunisia e di lì in Italia o in Grecia. Soltanto che tra la Siria e le coste africane c’è un ostacolo in apparenza insormontabile: Israele. Lo Stato ebraico ha anch’esso i suoi problemi d’immigrazione clandestina, principalmente dall’Africa. Ma per ovvie ragioni di sicurezza non permette alcun movimento sul confine siro-libanese (due Paesi con cui è tuttora in guerra) e sorveglia molto strettamente la frontiera con la Giordania, compresa la piccola striscia di Eilat sul Mar Rosso che taglia in due il mondo arabo, impedendo il passaggio via terra dal Sinai egiziano alla Penisola arabica e al Levante.

 A risolvere il problema ci ha pensato però una linea aerea, Cham Wings (“Ali del Levante”), con sede a Damasco. Aprendo il sito Internet,l’apparenza è quella di una qualsiasi compagnia aerea, con tanto di programma fedeltà e offerte speciali. Le destinazioni servite sono del tutto logiche partendo dalla Siria: il Golfo soprattutto, Iran, Iraq, Pakistan, Mosca, Yerevan. Senonché la compagnia opera anche dei voli charter e due di questi servono regolarmente gli aeroporti di Benina (Bengasi) e Labraq (Beida) in Cirenaica, a tre/quattro ore circa di strada dal porto di Tobruk.

Commentando la tragedia di Pilo, Jalel Harchaoui, tra i maggiori esperti di Libia, ha scritto su Twitter: «Nonostante l’ampiezza di questo orrore, vedrete che i voli di Cham Wings su Benina e Labraq continueranno con la stessa frequenza in costante crescita. In che altro modo pensate che pachistani e bengalesi siano finiti nel peschereccio che è salpato da Tobruk?». Sempre secondo lo studioso algerino, la compagnia aerea è di fatto posseduta da Maher al-Asad, fratello di Bashar. Nulla di sorprendente vista la condizione attuale della Siria, la cui economia è nelle mani di una ristrettissima élite che si arricchisce con traffici illeciti, oltre ai migranti la droga sintetica Captagon, che sta mietendo vittime in tutto il Medio Oriente. 

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 Ovviamente la vicenda di Cham Wings è soltanto una tessera, e neppure la più importante, in un mosaico molto più ampio. Anche se si interrompesse il traffico di esseri umani che passa per l’aeroporto siriano, le partenze dalla Libia non si arresterebbero. Con il Sahel nelle condizioni attuali, con la Tunisia sull’orlo del tracollo, con il Sudan sprofondato nella guerra civile, chiunque può se ne va, spesso è una questione di vita e di morte. E se anche l’Egitto dovesse collassare (un’eventualità esclusa nel breve periodo, ma non a lungo termine), l’esodo assumerebbe proporzioni bibliche. Senza contare che la rotta aerea siriana non è certamente la sola. Per esempio, per quanto riguarda il Pakistan, si parla di voli regolari verso l’Egitto o la Libia, dove i migranti sono presi in carico dai trafficanti. Ciò non toglie che la storia della compagnia low-cost ci consegni alcune interessanti lezioni: sul regime siriano, sui suoi alleati e sull’economia delle migrazioni, che non è fatta solo di scafisti (loro sono i “pesci piccoli”).

 Soprattutto però questa vicenda dimostra che la migrazione è un fenomeno globale, con cui si ritrovano a fare i conti tutti gli Stati. L’interesse dell’Europa e del nostro Paese in particolare è di governare questo fenomeno. Come ha ricordato recentemente il Cardinal Zuppi, non ha senso contrapporre il sostegno alla natalità e l’apertura alle migrazioni. Una cosa non esclude l’altra. Anche se le politiche messe in atto o annunciate in Italia invertissero la tendenza in atto (e come non augurarselo?), gli effetti non si vedranno prima di due decenni. Perciò la scelta al momento è soltanto tra chi vogliamo che governi il flusso dei migranti: l’Italia e l’Unione Europea o Cham Wings e Maher al-Asad? Non decidere è già una decisione. Nel frattempo, la compagnia damascena continua a volare. Senza confini, come recita il suo slogan”.

La banda Haftar che detta legge in Cirenaica

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 Ne scrive il Post: “Nel 2022, secondo una stima dell’Unhcr ottenuta dal Foglio,i migranti partiti dalla Cirenaica verso l’Italia furono circa 17.500, in aumento del 25 per cento rispetto al 2021.

La Cirenaica prende il nome da una città che non esiste più, l’ex colonia greca di Cirene, nell’est della Libia. Da sempre questa regione è al centro di intensi traffici per via della sua vicinanza con la Grecia e Cipro ma anche con l’Egitto e il resto del Nord Africa.

Oggi in Cirenaica arrivano soprattutto migranti dall’Egitto, con cui condivide un lungo confine di terra, ma anche dal Sudan, dato che per un sudanese non è complicato ottenere un visto per entrare in Egitto. Le principali città della Cirenaica sono anche i porti da cui partono le imbarcazioni di migranti: Bengasi – che ha un aeroporto internazionale collegato soprattutto con l’Egitto e la Turchia – Tobruk, Bardia e Agedabia.

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Nella Cirenaica si trova anche Kufrah, una città nel sud della Libia da cui arrivano migranti da tutto il cosiddetto Corno d’Africa, quindi da Etiopia, Eritrea e Somalia, che però spesso proseguono verso l’ovest della Libia e si imbarcano per l’Italia nella regione di Tripoli.

Luca Marelli della ong Sea-Watch, che soccorre i migranti in mare e gestisce anche un aereo che monitora gli arrivi via mare dalla Libia e dalla Tunisia, spiega che negli ultimi mesi i porti più coinvolti della Cirenaica sono stati Tobruk e Bengasi. «Abbiamo fotografato più volte barchini in vetroresina che possono portare fino a 30 persone, oppure ex pescherecci», su cui invece spesso salgono decine di persone.

Come spesso accade in Libia, il traffico di esseri umani viene gestito dalle milizie armate che controllano di fatto il paese dall’inizio della guerra civile, 12 anni fa. È uno dei settori più redditizi, insieme al contrabbando, e permette alle milizie di sostenersi economicamente e aumentare la presa sul territorio. Succede anche in Cirenaica.  «Sappiamo da fonti sul campo che ci sono libici legati ad Haftar che si sono attivamente messi a giocare una partita nei flussi dei migranti che provengono dall’est, dunque dal confine egiziano», ha spiega ad Agenzia Nova Claudia Gazzini, analista che si occupa di Africa per il think tank International Crisis Group.

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Qualche mese fa il Foglio aveva scritto che a «regolare i flussi dei migranti in Cirenaica» è una milizia che fa capo al maresciallo Khalifa Haftar chiamata “Uomini-rana”, nota soprattutto per avere combattuto lo Stato Islamico a Sirte, in Libia.   Più di recente sempre il Foglio ha scritto che il traffico di esseri umani in Cirenaica è gestito in parte da Saddam Haftar, figlio di Khalifa Haftar, capo militare di una milizia chiamata Tariq Ben Zeyad (Tbz).

Cinque mesi fa Amnesty International ha pubblicato un lungo e dettagliato rapporto rapporto sui metodi violenti con cui agiscono Saddam Haftar e la Tbz. Secondo Amnesty dal 2017 al 2022 la TBZ ha commesso «crimini di guerra e altri crimini di diritto internazionale contro migliaia di presunti o reali critici e oppositori delle Forze armate arabe libiche», cioè l’esercito che fa capo a Khalifa Haftar, suo padre.

Il legame fra Khalifa Haftar e suo figlio Saddam però non è chiarissimo. «Buona parte delle attività più oscure di Saddam come il traffico di esseri umani», ha spiegato l’analista Jalel Harchaoui al Foglio, «non sono controllate da suo padre. Se l’Italia crede che dopo avere raggiunto un’intesa a Roma Haftar sia in grado di imporla a tutti una volta tornato a Bengasi, è fuori strada».

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Il rapporto di Amnesty 

Nel rapporto ubblicato il 19 dicembre 2022, Amnesty International ha accusato il gruppo armato Tariq Ben Zeyad (Tbz) di aver commesso, dal 2017 al 2022, crimini di guerra e altri crimini di diritto internazionale contro migliaia di presunti o reali critici e oppositori delle Forze armate arabe libiche (Faal), l’autorità di fatto che da Bengasi controlla ampie parti della Libia.

Il Tbz è guidato da Saddam Haftar, figlio del generale Khalifa Haftar, comandante delle Faal. Il vice di Saddam Haftar è Omar Imraj. È uno dei gruppi armati più influenti tra quelli che operano alle dipendenze delle Faal ed è composto da soldati di carriera che combatterono nel 2011 accanto a Mu’ammar Gheddafi e da combattenti provenienti dalle tribù alleate alle Faal.

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“Emerso nel 2016, il Tbz ha seminato il terrore nelle zone controllate dalle Faal attraverso un catalogo di orrori: omicidi illegali, maltrattamenti e torture, sparizioni forzate, stupri e altre forme di violenza sessuale, sfollamenti forzati, senza timore di subire conseguenze, ha dichiarato Hussein Baoumi, ricercatore di Amnesty International su Libia ed Egitto.

“È ampiamente giunto il momento di un’indagine sulle responsabilità di comando di Saddam Haftar e Omar Imraj. Chiediamo che siano rimossi immediatamente da posizioni nelle quali potrebbero commettere ulteriori violazioni dei diritti umani o dalle quali potrebbero interferire nelle indagini. Chiediamo anche alla Faal di chiudere tutti i centri non ufficiali di detenzione gestiti dal Tbz e scarcerare le persone che vi si trovano detenute arbitrariamente”, ha aggiunto Baoumi.

Tra febbraio e settembre del 2022 Amnesty International ha intervistato 38 persone che risiedono o risiedevano in aree della Libia controllate dalle Faal, sia in presenza che da remoto, tra le quali ex detenuti, sfollati interni, comandanti militari e combattenti. L’organizzazione per i diritti umani ha anche esaminato dichiarazioni ufficiali e prove audiovisuali a carico del Tbz.

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Il 3 ottobre Amnesty International ha inviato le sue conclusioni al Governo di unità nazionale, all’ufficio del procuratore generale e al comandante delle Faal senza ricevere finora alcuna risposta.

Sequestri, uccisioni illegali e torture

Amnesty International è risalita ai nomi di 25 persone che, dal 2017 al 2022, sono state arrestate arbitrariamente e sottoposte a sparizione forzata da parte del Tbz a causa delle loro idee politiche o per motivi di affiliazione tribale, familiare o regionale.

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Tre degli scomparsi sono stati poi ritrovati morti, ai bordi delle strade o negli obitori di Bengasi, con segni di torture o di ferite da arma da fuoco. Quattro persone risultano ancora scomparse, tre restano in stato di detenzione e 15 sono state scarcerate dopo aver trascorso anche cinque anni senza accusa né processo, in alcuni casi dopo aver pagato riscatti esorbitanti. Tutte le persone tornate in libertà hanno denunciato di essere state sottoposte a torture quali pestaggi o frustate o di essere state tenute appese in posizioni contorte.

Due ex detenuti, intervistati in tempi diversi, hanno dichiarato di aver assistito alla morte di almeno cinque prigionieri, tra il 2017 e il 2021, a causa delle torture o per diniego di cure mediche nei centri di detenzione controllati dal Tbz.

 Sfollamenti forzati ed espulsioni

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Dalla fine del 2021 il Tbz ha costretto a sfollare migliaia di migranti e rifugiati da Sabha e dintorni. Amnesty International ha visionato una serie di post e una pagina Facebook di un membro del Tbz in cui si vedevano migranti e rifugiati fatti salire su camion diretti verso il confine del Niger, per “ripulire” la Libia dai “migranti clandestini”.

Il Tbz ha preso parte anche allo sfollamento forzato di migliaia di famiglie libiche durante le operazioni militari condotte tra il 2014 e il 2019 dalle Faal per prendere possesso delle città di Bengasi e Derna.

 Le responsabilità di comando

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Secondo le prove raccolte da Amnesty International, Saddam Haftar e Omar Imraj erano a conoscenza o avrebbero dovuto essere a conoscenza dei crimini commessi dai loro sottoposti ma non hanno fatto nulla per impedirli né per punirne i responsabili.

Ex detenuti hanno riferito che Omar Imraj visitava regolarmente il centro di detenzione di Sidi Faraj, a est di Bengazi, soffermandosi a parlare con prigionieri che mostravano chiari segni di tortura. Altri ex detenuti hanno dichiarato di essere stati minacciati da Saddam Haftar, sia prima che dopo la scarcerazione, di rimanere o ritornare in carcere.

“Puoi scegliere: o lavorerai con noi o vivrai come un animale che mangia e dorme senza speranze, sogni o ambizioni”: è la minaccia che Saddam Haftar ha rivolto a un attivista sottoposto a sparizione forzata e torture per mesi prima di essere rilasciato.

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Diversi familiari di ex prigionieri hanno testimoniato di aver supplicato direttamente Saddam Haftar e Omar Imraj affinché scarcerassero i loro cari.

“Se la comunità internazionale non muterà il suo approccio rispetto alla Libia, dando finalmente priorità ai diritti umani rispetto a interessi politici di corto respiro, innumerevoli altre persone alla mercè del Tbz rischieranno di essere sequestrate, torturate, fatte sparire o uccise. Chiediamo a tutti gli stati di esercitare la giurisdizione universale per indagare su sospetti crimini commessi da comandanti e membri del Tbz e, quando vi saranno prove sufficienti, di emettere mandati di cattura nei loro confronti e cercare di processarli”, ha concluso Baoumi.

Sono passati più di sei mesi dalla pubblicazione del rapporto. Il generale Khalifa Haftar è stato ricevuto in pompa magna a Palazzo Chigi dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. 

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