E’ stato al suo fianco per una vita. come consigliere, come ministro. Come amico. Uzi Baram è stato tutto questo per Yitzak Rabin. Lo è stato fino all’ultimo momento, quella maledetta notte del 4 novembre 1995. Una notte che doveva essere di festa – con Piazza dei Re a Tel Aviv strapiena di gente che si era riunita per sostenere il loro Primo ministro attaccato ferocemente dalla destra per gli accordi di pace sottoscritti con Yasser Arafat – e che si è trasformata in tragedia che ha cambiato il corso della storia in Medio Oriente, quando un giovane estremista di destra, Yigal Amir, fece fuoco su Rabin mentre scendeva dal palco, ferendolo mortalmente. Uzi Baram era vicino a Yitzhak, come sempre.
Lo ha sostenuto nella scelta che gli è costata la vita: l’accordo con l’Olp guidata dal nemico di sempre, diventato compagno di un’avventura di pace finita tragicamente: Yasser Arafat.
Trent’anni dopo, Baram ricorda quei giorni che avrebbero aperto una stagione di speranza in Israele, in Palestina. Trent’anni dopo gli accordi di Oslo-Washington, di quella speranza non c’è più traccia in Terrasanta.
Un racconto memorabile
Scrive Baram su Haaretz: “Quando ci recammo alla riunione di gabinetto in quel giorno di agosto del 1993, ci rendemmo conto che stavamo per toccare la storia? Eravamo davvero consapevoli della portata dell’enorme responsabilità che gravava sulle nostre spalle? Ci rendiamo conto che il processo di Oslo è stato in definitiva un enorme fallimento?
All’ultima domanda posso rispondere in modo inequivocabile. Se i giovani delle colline sono ora i padroni dei territori occupati e se Bezalel Smotrich è la persona responsabile della sicurezza in quei territori, allora è stato sicuramente un enorme fallimento. Non c’è altro modo per descrivere la svolta governativa e ideologica che si è verificata qui tra il 1993 e il 2023.
Sono diventato un sostenitore della candidatura di Yitzhak Rabin a primo ministro nelle primarie del 1992. Essendo una figura di spicco del laburismo, non fu una decisione facile per me. Il Rabin noto per aver detto “rompiamogli le ossa” sarebbe stato in grado di raggiungere una soluzione diplomatica? Convinsi anche Aryeh “Lova” Eliav a unirsi a me. Sebbene Rabin si fosse impegnato a portare avanti un processo di pace, non aveva mai fornito un quadro chiaro di ciò che avrebbe significato. Noi avevamo già in mente delle linee chiare: Volevamo portare avanti un accordo con i palestinesi e sì, sapevamo che questo avrebbe richiesto un dialogo con l’Olp. Eravamo consapevoli che Rabin non condivideva la nostra visione generale, ma credevamo che avrebbe vinto le elezioni e che si sarebbe verificato un cambiamento. Ho saputo dei contatti a Oslo da Shimon Peres, anche se non quando erano nelle fasi iniziali. Mi fu chiesto di cercare di ammorbidire la posizione del Primo Ministro sui colloqui, la cui essenza mi era sconosciuta, ad eccezione dei contatti con i rappresentanti dell’Olp. Dal momento in cui Rabin prese l’iniziativa, sapevamo che stavamo cercando di cambiare il corso della storia. La Guerra dei Sei Giorni aveva portato un enorme senso di euforia e l’inizio dell’imperialismo strisciante di Rabbi Moshe Levinger e Hanan Porat. La guerra dello Yom Kippur ha creato un clima di sospetto nei confronti degli arabi. Tra questi due poli, abbiamo presentato Oslo.
All’epoca c’era una buona atmosfera nel governo. Nonostante le tensioni tra loro, Rabin e Peres mantenevano un dialogo continuo e, in un certo senso, si completavano a vicenda. Questa “buona atmosfera” era reale: c’era un lavoro di squadra e una responsabilità comune. Arye Dery – che oggi fa parte del peggior governo che il paese abbia mai visto – era una parte importante di quella squadra e convinse il rabbino Ovadia Yosef a sostenere lo sforzo di pace. Rabin non solo lo apprezzò per avergli portato il sostegno degli elettori religiosi, ma anche per il suo contributo unico al processo.
Il chiaro fallimento di Oslo deriva anche dalle aspettative contrastanti delle due parti. I leader dell’Olp erano sicuri che il riconoscimento di Israele avrebbe portato al ritorno ai confini del 1967. Ma non avevano alcuna possibilità di raggiungere questo obiettivo finché le dispute tra le fazioni palestinesi fossero continuate e gli attacchi terroristici non fossero diminuiti. All’epoca abbiamo incontrato tutti i membri dell’Olp. Ho incontrato personalmente Yasser Arafat e altri leader dell’Olp a Ramallah, Betlemme e Gaza. L’impressione che ho avuto è che la maggior parte di loro avesse capito che non avrebbero potuto distruggere Israele, quindi avevano scelto di scommettere sul processo di pace, ma le loro aspettative erano diverse dalle nostre.
Non so come sarebbero andate le cose se Rabin non fosse stato assassinato. Avrebbe abbracciato il concetto dei due Stati, cosa che non ha mai dichiarato pubblicamente? La parte palestinese lo avrebbe visto come un leader affidabile? I gravi attentati terroristici che seguirono il suo assassinio lasciarono aperta la possibilità di continuare il processo?
Quello che so è che ogni volta che abbiamo partecipato alle riunioni di gabinetto, ci siamo resi conto dell’entità della responsabilità che avevamo. Ascoltavamo le preoccupazioni sollevate dai militari e ognuno era libero di valutare attentamente la propria posizione. Per me era ed è tuttora chiaro che Rabin guidava un governo serio, responsabile ed eccellente. Il governo “pienamente di destra” che abbiamo ora è la totale antitesi dei governi Rabin e Peres. Celebra il fallimento del processo di Oslo e porta Israele a una crisi esistenziale senza precedenti”.
Una lezione da non dimenticare
In un altro articolo per Haaretz, del 2021, Baram ricorda Rabin e collega quell’evento all’oggi, ad un passaggio cruciale per il futuro d’Israele.
“Anno dopo anno – annota Baram – alla cerimonia di commemorazione di Yitzhak Rabin, i membri della sua famiglia sollevano la questione dell’incitamento, anche da parte del nostro primo ministro – Benjamin Netanyahu. Negli ultimi anni, alcuni giornalisti hanno espresso il loro sdegno. Chi sono loro per farci la predica? Chi sono loro per offuscare l’immagine del nostro ammirato leader? Questa settimana mi è venuto in mente l’assassinio di Yitzhak Rabin nel 1995. A quel tempo, c’erano proteste contro di lui ogni giorno. Ricordo che durante le riunioni di gabinetto apriva una finestra che dava sui manifestanti e mormorava tra sé e sé parole di rabbia, amarezza e delusione. Rabin era uno statista popolare che spesso ha fatto significative aperture alla destra. Ma non appena è stato eletto primo ministro per un secondo mandato, l’incitamento contro di lui non ha conosciuto limiti. Lo ha inseguito ovunque e ha raggiunto l’apice al raduno di piazza Sion, dove i fanatici incitatori stavano su un palco, guidati da Netanyahu. Ricordo Benjamin Ben-Eliezer, che fu quasi strangolato da un gruppo di Ben-Gvir fuori dalla Knesset, che disse nella successiva riunione di gabinetto: ‘Questo porterà all’assassinio di un primo ministro’. Nessuno di noi gli credette allora. Dopo l’assassinio di Rabin, sembrava che Netanyahu e i suoi amici avessero imparato la lezione e che questo sarebbe stato il primo e ultimo assassinio in Israele. Pensavamo di conoscere Netanyahu. Nessuno di noi immaginava allora che avrebbe ripreso il suo incitamento, per non dire che lo avrebbe decuplicato nel 2021. Le persone che protestano fuori dalle case dei legislatori Yamina sono sicure di opporsi ai traditori, coloro che stanno dando un colpo mortale al paese. I rabbini estremisti, tra cui il rabbino Haim Druckman, hanno lanciato un appello ai loro seguaci ‘a fare di tutto per non far nascere il governo’. Gli incitatori rabbinici che ‘hanno fatto di tutto’ per impedire un possibile accordo di pace, e hanno creato un’atmosfera pubblica che ha reso più facile per Yigal Amir andare avanti con il suo complotto, sono tornati al centro della scena.
Netanyahu non si fa scrupoli a servirsi dei rabbini. È stato lo stesso quando ha cercato di ferire Benny Gantz usando il rabbino Guy Havura, e lo sta facendo di nuovo adesso, esercitando pressioni sui legislatori Yamina attraverso i loro rabbini. I rabbini sono diventati un braccio immorale della destra bibi-ista. Il loro ruolo nella lotta politica di questo primo ministro per la sopravvivenza sta trasformando questa in una oscura lotta religiosa, una lotta condotta da rabbini che sono i mentori di Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, non esempi di legge ebraica per il pubblico. L’atmosfera attuale è più combustibile che nel 1995. I social media stanno amplificando enormemente l’intensità dell’incitamento e il capo dello Shin Bet ha messo in guardia sui suoi pericoli. Molti giovani israeliani non c’erano quando Rabin è stato assassinato e se ne hanno sentito parlare, è stato detto che l’assassinio ha vanificato ‘la disgrazia’ degli accordi di Oslo. C’è un forte sentore di aggressione fisica nell’aria che potrebbe mettere in pericolo politici, giuristi e personale delle forze dell’ordine.
Tra pochi mesi – conclude Baram – ricorrerà il 26° anniversario dell’assassinio di Rabin, ucciso mentre cercava di guidare la sua nazione verso una nuova prospettiva di pace. Quello che gli è successo non deve essere dimenticato. Dobbiamo agire. Dobbiamo denunciare e dare l’allarme sulla possibilità di un altro assassinio politico. E sperare che qualcuno in alto ci ascolti”.
Un referendum per la pace
Un passo indietro nel tempo: settembre 2016.
Un gruppo di ex ministri e membri della Knesset ha lanciato lunedì 5 settembre una campagna pubblica per chiedere un referendum sul futuro dei territori della Cisgiordania in occasione dell’avvicinamento 50 anniversario della Guerra dei Sei Giorni, accaduta fra il 5 e il 10 giugno 1967, che portò all’annessione da parte di Israele degli attuali territori della Cisgiordania. molte organizzazioni civili, insieme a personalità del mondo della cultura e accademico hanno aderito all’iniziativa. Fra questi: l’ex capo dello Shin Bet e ministro Ami Ayalon, l’ex capo del Labour Amram Mitzna, gli ex ministri Yuli Tamir, Uzi Baram, Ophir Pines e Michael Melchior, gli ex parlamentari Daniel Ben-Simon e Tzali Reshef, il fu capo della Polizia Alik Ron, la nipote di Yitzhak Rabin Noa Rotman, il direttore di Peace Now Avi Buskila e gli attori Gavri Banai e Ricky Blich. “Ogni giorno di più di nostra presenza in Giudea e Samaria ci avvicina alla fine di Israele come Stato democratico del popolo ebraico – dichiara Ayalon -. Il Primo Ministro Netanyahu vede il disastro avvicinarsi, ma non ha il coraggio di fare nulla. In mancanza di una leadership, è nostro diritto e dovere come cittadini di determinare il nostro destino. Solo una decisione derivante da un referendum potrà darci la vera espressione del desiderio della maggioranza e renderà possibile la costruzione dell’impresa sionista senza violenze fra noi”. In una lettera inviata a Netanyahu domenica 4 settembre i leader del gruppo scrivono: “Una decisione attraverso un referendum sul tema più critico per il futuro di Israele sarà una dichiarazione al mondo delle intenzioni di Israele, e costituirà una linea guida per i governi per lavorare nell’obiettivo di realizzarla e fino ad allora per compiere passi diplomatici in ogni campo, come determinare i confini e le aree degli insediamenti, in accordo con la decisione presa”.
Ma di quella proposta, come di tante altre, “King Bibi” fece carta straccia.
Profetica
C’è ancora uno spazio per rilanciare il dialogo israelo-palestinese?
“Se questo spazio deve essere trovato da coloro che si apprestano a governare Israele, allora dico no, questo spazio non esiste più. Non esiste perché si è scelto di indebolire e delegittimare un leader moderato, disposto al compromesso, qual è Abu Mazen, anche se questo ha finito per rafforzare gli estremisti di Hamas. Non esiste, perché nella visione di cui questa destra è portatrice la sicurezza è sempre congiunta con disegni di grandezza che non contemplano il riconoscimento di uno Stato palestinese. Non esiste, non può esistere una pace vera, durevole, che possa conciliarsi con la massiccia colonizzazione dei Territori palestinesi occupati. Non è conciliabile per il semplice, inconfutabile, dato di realtà che la politica di annessione di fatto di terre palestinesi, la trasformazione, anche sul piano dello status, di colonie in città israeliane, minano dalle fondamenta un accordo fondato sul principio di “due popoli, due Stati”.
Ma gli insediamenti sono cresciuti, e tanto, anche quando a guidare Israele erano primi ministri laburisti.“Su questo la sinistra dovrebbe riflettere e fare una salutare autocritica. Ma c’è una differenza sostanziale: nell’orizzonte della destra nazionalista, gli insediamenti hanno una legittimazione ideologica e non rispondono a ragioni di sicurezza. Per la destra più estrema, che oggi ha un ruolo decisivo all’interno del governo, i coloni, anche nelle componenti più radicali, sono degli eroi, i pionieri di Eretz Israel. In questa ottica, gli insediamenti in Giudea e Samaria (i nomi biblici della Cisgiordania, ndr) sono la concretizzazione del disegno della Grande Israele che è stato a fondamento del revisionismo sionista di Zeev Jabotinsky, da sempre il pensatore di riferimento della destra israeliana. Dove dovrebbe nascere lo Stato dei palestinesi? Su quali territori, entro quali confini? E ancora: certo, può esistere uno stato smilitarizzato ma non uno stato che non eserciti la propria sovranità sul territorio nazionale. Uno Stato del genere sarebbe una finzione. Netanyahu, e con lui i capi della destra radicale, considerano la nascita di uno Stato di Palestina non come una minaccia alla sicurezza d’Israele ma come un colpo mortale alla Grande Israele. Non è con la forza che Israele diventerà un paese normale. Vede, Yitzhak Rabin capì che la pace, che è altra cosa dalla resa dell’altro contraente, non può essere a costo zero. La pace dei coraggiosi è un incontro a metà strada. E’ la ricerca di un compromesso sostenibile. Ma coraggio, compromesso, dialogo, sono parole che non esistono nel vocabolario politico di chi governerà Israele”.
Sono alcuni passaggi di una lunga intervista concessa a chi scrive da Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare e vice sindaca di Tel Aviv, paladina dei diritti delle donne, figlia di uno dei miti d’Israele: l’eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan.
L’intervista è del 2020. Tre anni dopo, è di una drammatica, “profetica”, attualità.
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