Pluridecorato della seconda guerra mondiale, studioso della storia militare, Michel Howard pronunciò un discorso che ebbe molto rilievo il 30 ottobre 2001, a Londra. Per lui il desiderio di immediate e decisive azioni dopo l’11 settembre rischiava di creare una “psicosi bellica totalmente controproducente per gli obiettivi perseguiti. La qualità che serve in una seria campagna campagna anti terrorismo – segretezza, intelligence, sagacia politica, quieta spietatezza, azioni coperte e infinita pazienza- spariscono nell’ansia mediatica di risultati immediati”.
La battaglia osservò Michel Howard, però doveva essere per i cuori e le menti: se innocenti civili fossero colpiti nel calore della risposta, l’atrocità d’origine sarebbe presto dimenticata “rafforzando l’odio e le reclute dei terroristi, seminando intanto dubbi nelle menti dei sostenitori dell’America”. Ricordando che l’impero britannico gestì molte emergenze del genere -dalla Malesia a Cipro all’Irlanda- ricordò che mai ricorse al termine “guerra”, ma a quello “emergenze”. La differenza sta, spiegò, negli strumenti che venivano impiegati: non l’esercito, ma la polizia e l’intelligence, che sebbene rafforzati e dotati di poteri speciali restarono sempre nella cornice dell’autorità civile. Dunque, tornando alla conquista dei cuori e delle menti, sostenne la tesi che l’obiettivo di fondo era isolare i terroristi, non dargli la legittimazione di “combattenti”, ma ricondurli a quello che li si ritiene, criminali.
La tesi di Michel Howard a mio avviso colse punti importanti che oggi troviamo in tantissimi conflitti. Putin non ha dichiarato “guerra” all’Ucraina, ha avviato un’operazione militare speciale. Al di là dei calcoli di altra natura, questo gli è servito a non dare dignità di combattenti, di belligeranti, agli ucraini, li ha considerati alla stregua di terroristi. Ma allora bisognava chiedergli se tutto il popolo ucraino, che colpisce indiscriminatamente, fosse terrorista, o “nazista”, per usare il suo linguaggio. La sua operazione militare speciale ha negato agli occhi dei russi l’evidenza di una guerra al popolo ucraino e non ai presunti “nazisti”, proprio per non perdere i cuori e le menti.
In Siria Assad ha fatto lo stesso. Dietro la sua guerra ai terroristi, da lui sapientemente alimentari- soprattutto l’Isis -il nemico perfetto-, si vedeva stagliarsi in tutta evidenza una guerra al popolo siriano che lui ovviamente ha negato, conquistando i cuori e le menti di molti di noi, con la scusa del terrorismo, al quale come i neocon di Bush dichiarava “guerra” per difendere in realtà il suo sistema totalitario e cleptocratico. Ma i cuori le menti di molti occidentali si sono fatti conquistare dalla guerra al terrore.
Possiamo dunque vedere nei nostri e negli altrui cedimenti la forza e la pericolosità del meccanismo. Che è meno evidente e riconoscibile nel caso dei conflitti interni agli Stati, ma che diventa fortissima quando in ballo ci sono culture e identità differenti.
E’ come se la criminalizzazione dei terroristi, sempre presenti, comportasse e necessitasse la criminalizzazione dei popoli, con il risultato frequente di consegnargli i cuori e le menti di molti che non sono terroristi. A Gaza, ad esempio, un sondaggio condotto proprio il 6 ottobre dimostrava che la maggioranza della popolazione dissentiva da Hamas, condividendo la proposta dei due popoli in due stati e non quella di Hamas, la distruzione di Israele.
In definitiva la guerra al terrorismo sortisce comunque un effetto di polarizzazione, nella quale sono i moderati a risultare schiacciati. Torniamo al 2001 e alla guerra al terrorismo dichiarato dagli Stati Uniti. Quali sono stati i suoi esiti? Oggi possiamo affermare che la scelta di Trump, confermata da Biden, ha restituito l’Afghanistan ai talebani. Mentre in Iraq la scelta di Obama, confermata da Trump, ha consegnato il Paese alle milizie filo-iraniane.