All’inizio di questa settimana, mi è capitato di trascorrere la giornata in compagnia di Patrick Zaki, l’attivista egiziano per i diritti umani al centro di una vicenda ben nota all’opinione pubblica internazionale e soprattutto a quella italiana. Per aver scritto e pubblicato un articolo in cui sottolineava il trattamento vessatorio e discriminatorio del governo egiziano ai danni della minoranza copta a cui lui appartiene – minoranza non inferiore al 10% come sbandierato dalla propaganda filogovernativa bensì prossima a un più significativo 20% – Zaki è stato condannato sommariamente a una lunga pena detentiva, di cui ha scontato 22 mesi, prima di ottenere la grazia del presidente al-Sisi. Nel suo articolo, Zaki in verità non calcava nemmeno troppo la mano, ma evidentemente in Egitto la libertà di espressione non è tutelata e il suo autore è finito nelle patrie galere per un semplice reato di opinione. La pressione internazionale esercitata sul regime dal caso di Zaki ha spinto al-Sisi al provvedimento di grazia.
Di Patrick mi ha colpito la simpatia e la contagiosa voglia di vivere, ma soprattutto di lui mi ha impressionato la grande lucidità di analisi e giudizio. Zaki ha poco più di trent’anni e i casi della vita lo hanno fatto crescere, trasformandolo, attraverso la dura esperienza del carcere, nel pensatore articolato e nel paladino delle libertà individuali che molti conoscono e apprezzano. Non tutti, però. C’è chi sulla stampa italiana cerca di dipingerlo come un idealista da strapazzo, uno sciocco che maschera la propria inadeguatezza intellettuale sotto una bonomia di facciata. Nulla di più lontano dal vero. Nulla di più insensato e insensibile: un ragazzo di trent’anni che sconta ventidue mesi di carcere semplicemente per aver espresso le proprie idee – peraltro, le idee stesse di cui l’Occidente non manca mai di dirsi paladino – merita ben altra considerazione.
A riprova della sua onestà intellettuale, quando un giornalista nel corso della conferenza stampa tenutasi presso la sede della CGIL di Piacenza – la più antica d’Italia insieme a quella milanese – gli ha chiesto se, a suo dire, Hamas si configurasse come un’organizzazione terroristica, Patrick ha strabuzzato gli occhi e, senza mai perdere il sorriso, ha risposto a sua volta con una domanda: “E se io ti chiedessi se, secondo te, l’esercito israeliano è un’organizzazione terroristica, come risponderesti?”. La domanda del giornalista faceva seguito alla dichiarazione forte di Zaki secondo cui Netanyahu sarebbe stato un criminale di guerra.
Parole semplici che mi hanno fatto tornare con la memoria ai giorni della scuola media, nel cuore fosco degli anni di piombo, quando non passava giorno senza che i media dessero notizia di un attentato dinamitardo o un attacco a fuoco ai danni di esponenti delle istituzioni. La narrazione ufficiale non ha mai cessato di dipingere i terroristi, soprattutto quelli delle Brigate Rosse, come soggetti assetati di sangue e privi di una vera visione di sistema, disumanizzandone i contorni, destabilizzandone completamente l’eventuale pensiero politico. Demonizzare la filosofia e le azioni di un dissidente politico che abbia abbracciato la lotta armata caratterizza da sempre il percorso delle potenze coloniali. Non si è mai sentito di un colonizzatore che abbia deciso di abbandonare di propria iniziativa una colonia e le sue risorse, a meno che tali risorse avessero smesso di essere ritenute essenziali e la gestione della colonia stessa avesse finito per essere una palla al piede. E, comunque, la cessione del potere a chi avrebbe dovuto detenerlo legittimamente è quasi sempre avvenuta sotto la pressione delle armi.
Lo sa bene la Gran Bretagna, potenza coloniale per eccellenza, che detiene ancora il controllo di una porzione dell’Irlanda – le sei contee del nord – e che, nonostante tutto, non vuole saperne di abdicare al proprio ruolo di invasore. I suoi governi, persino quelli che hanno implementato gli accordi di pace, non hanno mai mancato di demonizzare il movimento indipendentista, trasformando l’IRA in un manipolo di tagliagole. La più spietata implementatrice di tale politica integralista è stata Margaret Thatcher, la cui responsabilità nel supplizio dei nove giovani che negli anni Ottanta si lasciarono morire in carcere seguendo l’esempio del loro capintesta Bobby Sands per essersi visti rifiutare lo status di prigionieri politici, grida tuttora vendetta. Fu un terribile autogol del governo britannico che mostrò al mondo quanto ipocrita fosse quella ex-potenza coloniale, spaventata da un gruppetto di idealisti in grado di far tremare con il proprio coraggio i pilastri di un impero. Fu pure la plateale dimostrazione che lotta armata partigiana e terrorismo sono due definizioni talmente stridenti che riferirle al medesimo fenomeno pare improponibile. Chi abbia avuto modo di incontrare personalmente figure che abbiano partecipato attivamente alla lotta armata saprà che i sensi di colpa ne hanno segnato l’esistenza. Non tutti hanno sulla coscienza vittime innocenti e alcuni sono convinti della liceità delle proprie azioni. Ma tutti, per lo meno quelli dotati di un cuore e di un cervello, concordano nel dire che la guerra non è mai una buona cosa e che ogni conflitto ha in sé momenti poco edificanti. E le conseguenze spesso sono fuori controllo, talvolta implicando scelleratezze inenarrabili.
Ma la lotta armata, soprattutto in un territorio come la Palestina, non è mai la causa bensì sempre la conseguenza. Nascere e crescere nel ghetto di Gaza non è vita secondo i criteri di quell’Occidente a cui Israele dice di ispirarsi e la sua negazione di tali diritti non può configurarlo come quella democrazia di cui sostiene di essere unica depositaria in Medio Oriente. I fatti del 7 ottobre, pur nella loro atrocità, non sono la scintilla che avrebbe fatto scoppiare un nuovo conflitto, come sbandierato dalla propaganda israeliana a cui si è accodata la stampa di molti paesi: quell’attacco è uno dei rari esempi di un’azione militare palestinese vincente in una guerra che si trascina da sempre e che per la Palestina ha fatto segnare quasi immancabilmente rovesci e disastri.
L’unica vera differenza, appunto, è che per una volta i palestinesi hanno vinto la battaglia, oltre a un numero di vittime israeliane mai registrato in decenni di guerra, una carneficina che ha scosso la sicurezza di un popolo talmente avvezzo all’idea di essere quasi inattaccabile da perdere completamente di vista le istanze che stanno alla base stessa del conflitto. Le immagini dell’attacco al rave party e dei giovani falciati dai mitra di Hamas non sono certo edificanti, così come non le sono quelle dei bombardamenti indiscriminati su Gaza. Eppure, contrariamente alla propaganda sionista, Hamas gode tuttora di un sostegno diffuso tra la popolazione palestinese, nonostante l’azione militare del 7 ottobre le abbia causato indicibili sofferenze.
Significa che gli ultimi decenni di inerzia hanno insinuato nella mente dei palestinesi la convinzione che la via percorsa dall’OLP – nei confronti del quale la disistima è elevatissima a causa di corruzione e supponenza – non possa portare a nulla di buono e che sia meglio morire combattendo che vivere nella consapevolezza di non contare nulla agli occhi del mondo. Pensare che il palestinese comune possa accettare che, con cadenza quasi quotidiana, il governo israeliano dichiari che non verrà consentito a Hamas o a Fatah di tornare a controllare Gaza che, dunque, la Striscia diverrà una zona cuscinetto militarizzata, è una bieca illusione.
Gli Stati Uniti, che si considerano “la patria degli uomini liberi”, ancor oggi si aggrappano al secondo emendamento della Costituzione, quello che consente a tutti i cittadini di armarsi. Tale clausola è fortemente contraddittoria e sta alla base della preoccupante diffusione della armi da fuoco nel paese, ma è pure, agli occhi degli americani, un cardine della democrazia: il diritto di ribellarsi al potere costituito, semmai il governo dovesse voltare le spalle ai valori fondanti del paese. È, di fatto, il diritto alla rivoluzione permanente, almeno a livello concettuale. Negare tale diritto ad altri popoli è il tripudio dell’ipocrisia.
Come ha sottolineato più volte lo stesso Patrick Zaki, sbandierare il concetto di democrazia sottraendosi ai vincoli che ne fanno la forma di governo più ambita è insensato. Perché la democrazia dà tanto, ma altrettanto chiede. Per questo, il giovane egiziano continuerà sempre a rivendicare il suo ruolo di semplice attivista per i diritti umani, per la minoranza coopta in Egitto e per le minoranze musulmane in Europa.
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