di Lorenzo Lazzeri
È trascorso un secolo dall’ufficializzazione della Repubblica Turca da parte di Mustafa Kemal Atatürk che, con la sua laica modernizzazione occidentale, ha iniziato la marcia che avrebbe condotto il suo Paese a prendere confidenza con la sfera occidentale e arrivare, negli anni Cinquanta, nella Nato. Poi è arrivato Erdoğan che ha innestato la retromarcia e preoccupato Nato e Occidente. Ma una novità c’è stata in queste ultime settimane, l’elezione di Ekrem Imamoglu a sindaco di Istanbul, nel ruolo e nella città che dettero l’avvio alla fulminea e longeva carriera politica di Erdoğan.
Dopo due decenni in cui il nazionalismo conservatore e il populismo di Erdoğan è cresciuto rendendo il sistema politico turco sempre più autoritario, emerge una nuova figura politica di rilievo che ha dimostrato di poter attrarre il sostegno non solo dalla base secolare del Partito Popolare Repubblicano, il Chp, un partito di centro sinistra di ispirazione socialdemocratica erede delle idee di Atatürk, ma anche di quello di altri moderati. Imamoglu, con un ampio margine di voti ha battuto il concorrente sindaco sostenuto con determinazione dal presidente Erdoğan, assumendo così la posizione di suo naturale antagonista anche a livello nazionale.
Il successo di Imamoglu e del Chp in 36 comuni su 81, inclusi i centri chiave come Ankara, Izmir, Antalya e Adana è una sferzata di novità. Una scintilla che nasce sulle difficoltà economiche del Paese e lascia immaginare un possibile futuro cambiamento della politica nazionale e internazionale della Turchia. Erdoğan, dal 2022 premier e poi indiscusso Presidente, per la prima volta è costretto a fare i conti con un concorrente e di conseguenza anche con la leadership del suo attuale partito.
Il “Sultano”, che dopo il tentativo di golpe del 2016, ha dato una stretta rabbiosa ai cordoni del controllo di ogni ingranaggio democratico, vede così incrinarsi quella sua politica doppia e vischiosa: il predicato percorso della laica modernizzazione occidentale iniziata dal venerato Atatürk da un lato e la praticata conciliazione dell’islam con la democrazia repubblicana dall’altra dove ha incrociato valori tradizionali e religiosi con evidente incoerenza con i valori kemaliani.
Valori che più di un secolo fa, il 23 aprile 1920, presero corpo con l’inaugurazione della Grande Assemblea Nazionale. Quel giorno fu l’inizio del percorso democratico e repubblicano sotto la guida di Mustafa Kemal, poi chiamato Atatürk (letteralmente “Padre dei Turchi”), che si ufficializzò con la fondazione della Repubblica di Turchia, il 29 ottobre 1923. Mustafa Kemal Atatürk fu il principale architetto delle riforme che hanno radicalmente modernizzato il paese con il distacco definitivo dall’impero ottomano e l’adozione di un sistema di governo basato su principi laici e democratici.
Inizialmente un semplice colonnello a capo di un gruppo di ribelli, e più tardi etichettato come dittatore, Atatürk riuscì a cacciare le forze di occupazione straniere e, soprattutto, a introdurre una serie di riforme rivoluzionarie, impedendo che l’elemento religioso potesse impattare sulla politica. Infatti abolì la legge della Sharia, adottò l’alfabeto latino, istituì una magistratura indipendente e rese il turco la lingua ufficiale dello Stato, trasformando la Turchia in una nazione moderna e progressista.
Oggi, dunque, l’elezione del sindaco di Instanbul rappresenta un significativo contraccolpo per Erdoğan, poiché questo voto è stato interpretato come un rifiuto delle politiche che si allontanano dagli ideali laici e progressisti di Atatürk. Valeria Talbot, a capo dell’Osservatorio Mena Ispi, commenta che le urne hanno trasmesso un messaggio chiaro: “Erdoğan non è invincibile”. In più le ultime elezioni locali hanno visto l’emergere di nuovi attori politici come il Partito del Nuovo Benessere, una formazione islamista che ha adottato una posizione ancor più fondamentalista di quella di Erdoğan, guadagnando terreno, specialmente nel sud-est a maggioranza curda. Una specie di accerchiamento che lo costringe a guardare con attenzione il nuovo che avanza sia all’ala conservatrice che a quella progressista.