Come reagirebbe Hannah Arendt se Israele fosse accusato di crimini contro l'umanità?

È il titolo di un articolo di straordinaria fascinazione culturale, oltreché di grande interesse politico. A scriverlo, per Haaretz, è Robert Zaretsky che insegna all'università di Houston

Come reagirebbe Hannah Arendt se Israele fosse accusato di crimini contro l'umanità?
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

30 Maggio 2024 - 18.38


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Il tema è di quelli che intrigano, che fanno riflettere. 

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Come reagirebbe Hannah Arendt se Israele fosse accusato di crimini contro l’umanità

È il titolo di un articolo di straordinaria fascinazione culturale, oltreché di grande interesse politico. A scriverlo, per Haaretz, è Robert Zaretsky. Il professor Zaretsky insegna all’Honors College dell’Università di Houston ed è editorialista del Jewish Daily Forward. Il suo nuovo libro, “Victories Never Last: Reading and Caregiving in Time of Plague”, è stato pubblicato nel marzo 2022 dalla University of Chicago Press.

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“L’anno prossimo ricorrerà il 50° anniversario della morte di Hannah Arendt. Nel mezzo secolo, e soprattutto nell’ormai più di mezzo anno trascorso dal 7 ottobre 2023, la pensatrice ebrea e rifugiata dalla Germania nazista, pur trovando pochi motivi di speranza, rifiutava tuttavia di rassegnarsi alla disperazione.

Come dichiarò in La condizione umana, “la durata della vita dell’uomo che corre verso la morte porterebbe inevitabilmente tutto alla rovina e alla distruzione, se non fosse per la facoltà di interromperla e di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che è insita nell’azione come un promemoria sempre presente del fatto che gli uomini, sebbene debbano morire, non nascono per morire, ma per cominciare”. Proprio questa interruzione si è verificata con l’annuncio della scorsa settimana del procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan, che ha richiesto mandati di arresto contro i leader politici e militari sia di Hamas che di Israele. Il procuratore ha dichiarato che esistono fondati motivi per ritenere che non solo Yahya Sinwar, Muhammad Deif, Ismail Haniyeh, ma anche Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant abbiano commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Per spiegare questo colpo giudiziario sentito in tutto il mondo, Khan ha dichiarato: “Se non dimostriamo la nostra volontà di applicare la legge in modo equo, se viene vista come applicata in modo selettivo, creeremo le condizioni per il suo collasso”. L’indignazione suscitata dalla decisione di Khan è stata travolgente sia tra gli ebrei israeliani che tra quelli diasporici. Ricorda la tempesta di polemiche che seguì la pubblicazione, nel 1963, di Eichmann in Jerusalem di Arendt: A Report on the Banality of Evil. In effetti, Arendt offriva sia una cronaca che un commento del processo del 1961 ad Adolf Eichmann, l’ufficiale delle SS accusato di crimini contro l’umanità e il popolo ebraico per il suo ruolo centrale nello svolgimento della Soluzione Finale. Due concetti utilizzati dalla Arendt nel libro – semplicità e banalità – si sono rivelati particolarmente infiammabili. Con il primo termine, Arendt accusava gli Judenräte, i consigli ebraici di nomina nazista, di aver permesso la catastrofe che colpì l’ebraismo europeo. Sebbene Arendt fosse spesso dura e critica nei confronti dei consigli, aveva anche per lo più ragione sulle conseguenze della loro collaborazione con i funzionari nazisti. Quanto alla banalità, raramente una parola ha suscitato tanta indignazione e incomprensione. Arendt ha usato questo termine, che compare solo una volta nel libro, per sottolineare la sconsideratezza di Eichmann, la sua totale incapacità di vedere il mondo dalla prospettiva di un altro. Fu questa qualità irrilevante a permettergli di commettere i suoi crimini indicibili. Ma un terzo concetto introdotto dalla Arendt, la pluralità, ha una rilevanza vitale per le accuse contro i leader di Hamas e di Israele citati da Khan nella sua richiesta di mandato alla Corte penale internazionale.

Verso la fine del suo racconto, Arendt afferma che il regime nazista, nel suo desiderio di “far scomparire dalla faccia della terra l’intero popolo ebraico, fece la sua comparsa il nuovo crimine, il crimine contro l’umanità – nel senso di un crimine ‘contro lo status umano’, o contro la natura stessa dell’umanità”. Questo crimine è diverso dagli altri, insiste l’autrice, perché è “un attacco alla diversità umana in quanto tale… senza il quale le parole stesse ‘umanità’ o ‘uomo’ sarebbero prive di significato”. Nei suoi scritti successivi, la Arendt sostituisce “pluralità” con “diversità”, ma il punto rimane lo stesso. Il termine non ha nulla a che vedere con il suo significato corrente: l’identificazione con uno specifico gruppo etnico, linguistico o religioso. Anzi, significa proprio il contrario: le differenze profonde e vitali che esistono non solo tra i gruppi, ma tra ognuno di noi. La pluralità umana implica che siamo tutti pienamente uguali e pienamente unici. Questo spiega perché l’autrice conclude notoriamente che “non ci si può aspettare che nessuno, cioè nessun membro della razza umana” condivida la terra con coloro che cercano di sradicare la nostra umanità condivisa e plurale. Il male radicale incarnato dalla Germania nazista – “che rende superflui gli esseri umani in quanto tali”, spiegò al suo mentore e amico Karl Jaspers – richiedeva la creazione di una nuova categoria giuridica: i crimini contro l’umanità. Con questo termine, che usava in modo intercambiabile con “genocidio”, la Arendt non intendeva una legge specifica, ma un termine ombrello che comprendeva tutti i crimini internazionali. Il foro appropriato per questi casi, affermava, era un tribunale penale internazionale. Come disse a Jaspers, “sarei del tutto favorevole a un tribunale internazionale con poteri adeguati”.

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Poiché nel 1961 non esisteva un’istituzione del genere, Arendt si rassegnò alla legittimità di un tribunale israeliano. Ma continuò a premere per l’espansione del diritto internazionale e per la fondazione di un tribunale penale internazionale. Se altri crimini contro l’umanità sono “un’effettiva possibilità del futuro”, avvertiva nell’epilogo di Eichmann a Gerusalemme, “allora nessun popolo sulla terra – meno di tutti, naturalmente, il popolo ebraico, in Israele o altrove – può sentirsi ragionevolmente sicuro di continuare a esistere senza l’aiuto e la protezione del diritto internazionale”. Questo passaggio dovrebbe ricordare al mondo che la risposta iniziale di Israele al massacro di Hamas non era solo comprensibile, ma anche assolutamente giustificabile. Nessun popolo al mondo, per riprendere la Arendt, ha più diritto di temere per la propria esistenza del popolo ebraico. Il passato, come ci ricorda anche il massacro del 7 ottobre, non sarà mai passato, tanto meno morto per gli ebrei in Israele e altrove.

Ma Arendt, che era giustamente preoccupata per il posto dei palestinesi nel pensiero sionista del dopoguerra, si affretterebbe ad aggiungere che ci sono altri promemoria altrettanto tetri. La cosa più importante è che probabilmente sosterrebbe le accuse dettagliate mosse dal procuratore della Corte penale internazionale, basate su prove che probabilmente vanno al di là di ogni ragionevole dubbio, secondo cui Israele, pur avendo il diritto di difendersi, è venuto meno al suo dovere di rispettare il diritto internazionale. Ciò comprende non solo il livello sproporzionato di uccisioni e distruzioni – che include l’attacco missilistico di questa settimana su un campo profughi a Rafah – ma anche l’uso deliberato di affamare la popolazione civile. Ironicamente, i critici israeliani e palestinesi hanno trovato un terreno comune nel deridere queste accuse, perché riflettono un’equivalenza morale tra le azioni di Hamas e quelle di Israele. Ma Arendt risponderebbe che il più vitale dei motivi comuni risiede invece nella “paradossale pluralità di esseri unici”. Così come Hamas ha posto fine alla vita di 1.200 esseri unici il 7 ottobre, Israele ha posto fine alla vita di decine di migliaia di esseri unici, molti dei quali civili, nei mesi successivi. L’assoluta equivalenza di tutte queste vite uniche, insisterebbe Arendt, è l’unica equivalenza che conta”.

Così il professor Zaretsky. Una conclusione , quella a cui giunge, che dovrebbe essere da lezione per chiunque abbia un briciolo di umanesimo nel cuore e nella mente. Hanna Arendt, ne siamo convinti, sarebbe d’accordo. 

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