Oxfam a Gaza c’è. E da molto prima dell’inizio della guerra di annientamento. C’è come portatrice di aiuti ma anche come testimone scomodo di massacri che nessun diritto di difesa o di guerra al terrorismo, invocati da Israele, potrà mai giustificare.
In risposta all’ultimo attacco israeliano alla cosiddetta “zona sicura” di Al-Mawasi, come descritto da Israele, il direttore regionale di Oxfam per il Medio Oriente, Sally Abi Khalil, ha dichiarato: “Ancora una volta siamo testimoni dell’assoluto disprezzo di Israele per le vite dei palestinesi e per il diritto internazionale. Questo approccio atroce alla guerra, che prevede il lancio di bombe su tende che ospitano civili sfollati, tra cui donne e bambini, a cui era stata promessa sicurezza, insieme all’abominevole complicità degli Stati che continuano ad armare Israele, deve finire”. “Nessun luogo a Gaza è sicuro: abbiamo bisogno di un cessate il fuoco ora, che il trasferimento di armi a Israele finisca immediatamente e che Israele sia chiamato a rispondere di tutte le violazioni del diritto internazionale”.
Le bombe e la fame: un mix devastante
Continuano a peggiorare i dati sulla fame nella Striscia secondo il nuovo report sulla Classificazione integrata delle Fasi della sicurezza alimentare (Ipc) appena pubblicato. Il documento rileva che persiste in tutta la Striscia di Gaza un alto rischio di carestia finché il conflitto continuerà e l’accesso umanitario sarà limitato; che circa il 96% della popolazione della Striscia di Gaza (2,15 milioni di persone) si trova ad affrontare alti livelli di insicurezza alimentare acuta (Ipc Fase 3 o superiore) e che regolarmente, più della metà della popolazione non ha cibo da mangiare in casa e oltre il 20% passa interi giorni e notti senza mangiare. Per Paolo Pezzati, portavoce per le crisi umanitarie di Oxfam Italia, “i dati contenuti nel report testimoniano il vergognoso fallimento dei leader mondiali nell’affrontare l’emergenza umanitaria a Gaza: non si sono ascoltati i tanti avvertimenti arrivati negli ultimi mesi e soprattutto non si è fatto nulla per impedire a Israele di usare la fame come arma di guerra”. “Il leggero miglioramento delle condizioni nel nord del Paese – aggiunge Pezzati – dimostra che Israele quando vuole può ridurre le immani sofferenze di cui è vittima la popolazione civile. Purtroppo, però la stessa analisi denuncia come la fase di apertura a un maggior ingresso degli aiuti umanitari sia già finita e stiamo già assistendo all’imposizione di nuove limitazioni. Le conseguenze della deliberata quanto crudele politica israeliana che priva la popolazione palestinese di beni essenziali, sono senza precedenti: al momento 2,15 milioni di persone, oltre il 96% della popolazione di Gaza soffre di malnutrizione acuta. Ad Al-Mawasi, dichiarata ‘zona sicura’ anche per l’accesso agli aiuti umanitari, si registra la più alta concentrazione di persone al mondo rimaste letteralmente senza cibo, acqua e servizi igienici”. Pezzati denuncia la morte per fame di altri due bambini nella zona di Beit Lahiya. Il bilancio delle vittime per mancanza di cibo e acqua è ora di 31 persone. Oltre al cibo in questo momento anche l’acqua pulita è quasi introvabile, accelerando la diffusione di malattie”. Per Oxfam “senza un cessate il fuoco altre vite andranno perse. Non c’è più tempo. I leader mondiali devono esercitare ogni forma possibile di pressione diplomatica su tutte le parti in conflitto, affinché accettino un cessate il fuoco permanente. Pretendendo immediatamente che Israele consenta l’ingresso a Gaza degli aiuti necessari a impedire che altri bambini palestinesi muoiano di fame”. “È poi fondamentale – conclude Pezzati – che la distribuzione possa avvenire in sicurezza dentro la Striscia rimuovendo tutte le restrizioni e i posti di blocco che la rendono ad oggi di fatto quasi impossibile”.
La “normalità” che sa di morte.
La tragedia di Gaza non nasce il 7 ottobre. Quando i riflettori mediatici erano colpevolmente spenti, Oxfam continuava in una preziosa opera di informazione. E di denuncia, documentata, degli effetti del blocco israeliano; blocco che, è bene ripeterlo alto e forte, non è scaturito come risposta all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023.
Quando Oxfam stila questo rapporto, siamo lontani da quella tragica data.
“A oltre 15 anni dall’inizio del blocco israeliano su Gaza, ancora 2,1 milioni di persone vivono reclusi, in quella che di fatto è una prigione a cielo aperto. Un’intera generazione di giovani palestinesi, oltre 800 mila, hanno trascorso la loro intera vita in questa situazione, senza conoscere nient’altro.
È la denuncia che aveva lanciato Oxfam alla vigilia del quindicesimo anniversario dall’inizio delle restrizioni imposte sulla Striscia, di fronte ad una situazione di cui non si intravede nessuna soluzione negoziata tra le parti, nonostante gli sforzi umanitari sostenuti dalla comunità internazionale e dalle Nazioni Unite, che fino ad oggi hanno stanziato 5,7 miliardi di dollari in aiuti.
“Siamo di fronte ad una crisi divenuta cronica, che costringe organizzazioni come Oxfam – da anni operativa sul campo – a lavorare per garantire la mera sopravvivenza di una popolazione sfinita, eppure straordinariamente resistente –affermava in quel frangente Paolo Pezzati, policy advisor di Oxfam per le emergenze umanitarie – In questo momento 7 persone su 10 a Gaza dipendono dagli aiuti umanitari per far fronte ai bisogni essenziali di ogni giorno. Il controllo di Israele sulla Striscia è pressoché totale e si spinge a livelli paradossali e punitivi nei confronti della popolazione. Pensiamo alle regole sull’esportazione di pomodori, che di fatto impediscono ai produttori di vendere ciò che hanno coltivato. Rivolgiamo un appello al Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, affinché una revoca immediata del blocco su Gaza divenga prioritaria nell’agenda internazionale”.
#OpenUpGaza15: una campagna per ridare speranza
E’ la campagna di sensibilizzazione per restituire speranza a una generazione che rischia di perderla per sempre. Basti pensare che il 63% dei giovani a Gaza non riesce a trovare lavoro e 4 ragazze su 5 non hanno un’occupazione retribuita.
“Molte restrizioni israeliane hanno ragioni politiche, non certo di sicurezza. Le famiglie palestinesi di Gaza subiscono collettivamente una punizione illegale –aggiunge Pezzati – Israele impedisce l’esportazione di pasta di datteri, biscotti e patatine fritte, ha interdetto l’uso del 3G e del 4G sui cellullari, non c’è PayPal. Certamente questo non è un paese per giovani.”
Le storie dei giovani perduti di Gaza
La campagna #OpenUpGaza15 racconta la storia di 15 ragazzi, le privazioni quotidiane, gli ostacoli, le difficoltà con cui devono fare i conti per vivere e coltivare i propri interessi.
Come quella di Ahmad Abu Dagga che a 15 anni è bravissimo in scienze, ma teme che finirà la scuola senza aver mai visto un microscopio; o quella di Alaa Abu Sleih, 23 anni, nato con una disabilità, che quando si è rotto il pannello dei comandi della sua sedia a rotelle non ha potuto averne uno nuovo, mentre le gomme si stanno consumando e non sa come riuscirà a muoversi.
Le restrizioni limitano la possibilità di portare aiuti
In questo momento è perciò difficilissimo portare aiuti alla popolazione di Gaza, promuovere lo sviluppo per un’organizzazione come Oxfam, che al pari di altri lavora tra le mille restrizioni imposte da Israele sui servizi e sulla mobilità di risorse e persone. Val la pena ricordare a questo proposito che il 97% dell’acqua corrente non è potabile a Gaza e che la fornitura di elettricità è limitata a 12 ore al giorno.
Urgente un piano vincolante per la rimozione del blocco
“Le Nazioni Unite e i gli Stati membri devono usare tutta la diplomazia possibile per porre fine al blocco – conclude Pezzati – Tutte le parti devono impegnarsi per un piano con precise scadenze e stringenti meccanismi di rendicontazione. Crediamo davvero sia giunta l’ora di consegnare alla storia questi 15 anni di blocco.”
L’agonia di Gaza
Gaza, una prigione che torna a fare notizia quando si fa la conta dei morti, quando torna ad essere un teatro di guerra. Allora i riflettori si riaccendono, i media ne tornano a parlare. Dimenticando che la vera, grande tragedia di Gaza e della sua gente, è la normalità. Ed è nella ‘normalità’ che Gaza muore. Nel silenzio generale, nel disinteresse dei mass media, nella complicità della comunità internazionale, nella pratica disumana e illegale delle punizioni collettive perpetrate da Israele, nel cinico operare di Hamas, Gaza sta morendo. L’assedio sta privando una popolazione di 2,1milioni di abitanti, il 56% al di sotto dei 18 anni, del bene più vitale: l’acqua. A otto anni dal sanguinoso conflitto che nel 2014 distrusse buona parte del sistema idrico e fognario di Gaza, il sistema straordinario disegnato dalla comunità internazionale per la ricostruzione post-bellica (il cosiddetto Gaza Reconstruction Mechanism-Grm) non riesce ancora a rispondere ai bisogni degli oltre 2 milioni di abitanti della Striscia “intrappolati” in una delle zone più densamente popolate del mondo. Una situazione drammatica, rimarcava un precedente report di Oxfam, aggravata degli effetti del quindicennale blocco di Israele sulla Striscia, di cui le prime vittime sono oltre 2 milioni di persone che devono sopravvivere con uno scarsissimo accesso all’acqua e una situazione igienico-sanitaria in continuo peggioramento. Basti pensare che il 95% della popolazione – anche solo per bere e cucinare – dipende dall’acqua marina desalinizzata fornita dalle autocisterne private, semplicemente perché l’acqua fornita dalla rete idrica municipale (che presenta oltre 40% di perdite) non è potabile o perché oltre 40mila abitanti non sono allacciati alla rete. A questo si aggiunge un sistema fognario del tutto inadeguato con oltre un terzo delle famiglie che non è connesso al sistema delle acque reflue. Una situazione di carenza idrica di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, che in molti casi sono costretti a lavarsi, bere e cucinare con acqua contaminata e si trovano esposti così al rischio di diarrea, vomito e disidratazione.Gli effetti del blocco israeliano nella vita di tutti i giorni: commercio praticamente inesistente, famiglie divise e persone che non possono muoversi per curarsi, studiare o lavorare. Siamo all’annientamento di una popolazione: oltre il 65% degli studenti delle scuole gestite dall’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) a Gaza non riescono a trovare lavoro a causa delle dure condizioni di vita, dell’aumento della povertà e dei tassi di disoccupazione.
Questa è la vita a Gaza, se di vita si può parlare. E chi governa Israele come chi impone la sua legge nella Striscia, lo sanno bene. Come lo sa bene la comunità internazionale, capace solo di invitare alla moderazione o (l’Onu) a prospettare una commissione d’inchiesta, ripetendo una stanca litania che fa seguito all’esplosione della violenza. Tutti conoscono la realtà di Gaza, la tragedia umana che in essa si consuma. Ma questa consapevolezza non porta alla ricerca di un accordo, di una pace giusta, duratura, tra pari. Non impone rinunce per ridare speranza. Costa meno combattere, perché, tanto, a chi vuoi che possa interessare la sorte di due milioni di persone ingabbiate nella prigione chiamata Gaza. Ora poi che vengono osannati i “buoni bombardamenti”.
Così stanno le cose. Da decenni. Oxfam lo ha documentato. Reso pubblico. In modo che nessuno possa dire: non sapevo.