Non c’è volontà di «entrare in conflitto» con Israele, ma allo stesso tempo lo Stato ebraico «non ha giustificazioni» per condurre «interventi esterni» sul suolo siriano «dopo il ritiro delle forze iraniane». Mohammad al-Jolani prosegue la sua strategia diplomatica dopo aver assunto il controllo della Siria, spodestando il regime di Bashar al-Assad.
Il leader di Hayat Tahrir al-Sham (HTS) ha dichiarato che gli obiettivi del suo gruppo sono «chiari»: «ricostruire e sviluppare» la Siria dopo «la distruzione sistematica» attuata dal regime. Di questi temi, il capo dei ribelli jihadisti ha discusso anche con interlocutori occidentali.
Per la prima volta anche gli Stati Uniti, per bocca del Segretario generale Antony Blinken, ufficializzano «contatti diretti» con la nuova leadership siriana nonostante Hts sia stata designata come organizzazione terroristica straniera dal Dipartimento di Stato americano nel 2018. Questo comporta severe sanzioni, tra cui il divieto di fornire qualsiasi «supporto materiale» al gruppo o ai suoi membri, anche se non impedisce i colloqui. «Il nostro messaggio al popolo siriano è questo: Vogliamo che abbiano successo e siamo pronti ad aiutarli a farlo», dichiara ancora Blinken. Allo stesso tempo al-Jolani tende la manco anche a Russia e Iran.
«Non abbiamo alcuna ostilità» verso Mosca o Teheran, spiega. Immagini satellitari però mostrano l’inizio di un ritiro, almeno parziale, delle truppe russe dal Paese con aerei cargo atterrati in un aeroporto militare russo in Siria intenti a caricare attrezzature pesanti, insieme ad elicotteri smantellati e preparati per il trasporto. Di Siria parla anche Giorgia Meloni. La presidente del Consiglio, al termine di un colloquio con il primo ministro libanese Najib Mikati, sottolineando la necessità di «preservarne l’unità e l’integrità territoriale e l’importanza di assicurare l’inclusività e la protezione delle minoranze».
Per quanto riguarda il fronte del conflitto nella Striscia di Gaza invece Hamas apre alla possibilità di una tregua che potrebbe arrivare entro la fine dell’anno o comunque prima dell’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump qualora il tycoon riesca «a impedire al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di ostacolare» i colloqui in corso. Secondo un funzionario del gruppo palestinese citato dai media sauditi infatti i progressi nei negoziati sono «tangibili» ed esiste una «grande opportunità» che si possa arrivare «ad un accordo con Israele per il cessate il fuoco e lo scambio di prigionieri». Fra questi comunque lo Stato ebraico non intendere liberare il popolare leader di Fatah, Marwan Barghouti. L’uomo sta scontando cinque ergastoli in una prigione israeliana per aver preso parte alla pianificazione di tre attacchi terroristici in cui morirono cinque israeliani durante la Seconda Intifada. E per la prima volta dopo la cacciata dalla Siria di Bashar al-Assad prende la parola anche il leader di Hezbollah, Naim Qassem. Il successore di Hassan Nasrallah ribadisce che il sostegno a Gaza è «un dovere verso l’intera nazione araba» e «la Resistenza continuerà», anche «per diversi anni, se necessario».