di Antonio Salvati
Siamo da pochi giorni entrati nel 2025. Dal 2022 i venti di guerra non soffiano più lontano da noi ma anche in una Europa che ha vissuto fino ad oggi nell’illusione di aver conquistato la pace per sempre. Comprendiamo sempre più che la guerra è come un virus, una infezione letale che abbiamo lasciato prosperasse lontano da noi, come nella guerra di Siria, e che invece sta contagiando tutti, come accade in Ucraina.
guerra distrugge ogni aspirazione ad un futuro migliore, alla giustizia sociale, alla lotta al cambiamento climatico, al riequilibrio tra il sud e il nord del mondo ed è per questo che va evitata con ogni mezzo. Difficile fare previsioni sui diversi fronti di guerra, nel pieno della stagione della forza, con l’esibizione pornografica delle armi, le propagande ingannatrici, che tutto confondono.
La pace è, ahinoi, considerata un tradimento o un’ingenuità pericolosa. In Ucraina, dall’invasione del 24 febbraio 2022, gli obiettivi sono cambiati diverse volte. All’inizio, con l’avanzata su Kiev, ci fu il tentativo russo di provocare il collasso della presidenza Zelensky. Poi l’obiettivo si trasformò nel cedere meno terreno possibile al contrattacco ucraino. Quindi sventare la fin troppo annunciata offensiva ucraina.
, nella fase che dura tuttora, trascinare l’Ucraina in una guerra di logoramento che solo il sostegno occidentale (oltre 81 miliardi di euro di aiuto militare dai soli Usa, Gran Bretagna e Germania tra febbraio 2022 e ottobre 2024) le ha consentito di sostenere. Il 20% del territorio ucraino (quello, tra l’altro, più ricco di risorse) è controllato dai russi. Gli Usa vivono la delicata fase di transizione verso una presidenza Trump le cui intenzioni sono ancora da decifrare, la UE è debole e divisa, l’Ucraina è devastata da una guerra che l’ha vista esaltarsi come nazione ma rischia ridursi in uno stato di profonda prostrazione come popolo (aveva 41 milioni di abitanti all’inizio del conflitto e ora sono intorno a 30). Le pur grandi difficoltà in cui versa la Russia putiniana, soprattutto in campo economico, non sembrano al momento tali da influire in misura decisiva sulle strategie del Cremlino. Anche se diversi analisti sottolineano che il Putin bellicista in pubblico potrebbe nascondere un Putin privato assai più incline alla trattativa. Che non dispiacerebbe a Trump, che ben conosce l’arte del patteggiamento e dello scambio. In questo senso, una tregua in Ucraina potrebbe essere ora più che gradita. Vedremo.
In Sud Sudan, non si trova la pace e i negoziati agonizzano. In Sudan si combatte: undici milioni di sfollati, 400.000 morti civili a causa di violenza, carestia, malattia, mentre solo nello Stato di Karthoum, la capitale, sono morte 61.000 persone nei primi 14 mesi di guerra. Il pacifico Burkina Faso è diventata la nazione al mondo più colpita dal terrorismo: attacchi a villaggi, chiese, moschee, con centinaia di morti, che si fa fatica a contare. Civili, donne, bambini, uomini disarmati: la vita di un burkinabé non vale niente. E quante popolazioni sottoposte all’insicurezza e alla violenza, come in Mozambico, in Kivu (praticamente in guerra), e altrove. Dovunque non si dialoga e si negozia più.
In Medio Oriente, occorre fermare subito le ostilità e trattare. Secondo Anna Foa per salvare Israele è «necessario contrapporre al suprematismo ebraico, proprio dell’attuale governo Netanyahu, l’idea che lo Stato di Israele deve esercitare l’uguaglianza dei diritti verso tutti i suoi cittadini e deve porre fine all’occupazione favorendo la creazione di uno Stato palestinese». Qualunque sostegno ai diritti di Israele – esistenza, sicurezza – non può prescindere da quello dei diritti dei palestinesi. Senza una diversa politica «verso i palestinesi Hamas non potrà essere sconfitta ma continuerà a risorgere dalle sue ceneri. Non saranno le armi a sconfiggere Hamas, ma la politica». Senza la pace non si può ricostruire l’immensa distruzione che appare oggi ai nostri occhi. Che non è solo distruzione materiale, ma lacerazione degli spiriti feriti dalla violenza e dalla morte. Ma non c’è altra via. E ci vorranno tanti anni per riparare questi animi feriti e violentati: generazioni. Occorre chiedersi seriamente se l’escalation è la strategia vincente. Forse presto questo governo di estremisti cadrà e le bombe smetteranno di ucciderei civili a Gaza. E coi necessari compromessi la vita ripartirà in Israele e nei territori palestinesi. Ma dopo questa forte esplosione e diffusione di odio sarà difficile realizzare una vera pace. La strada sarà lunga. Per questo Netanyahu e il suo governo sono responsabili non solo per quello che hanno fatto ai palestinesi di Gaza, ma anche per quello che la loro politica ha comportato per la stessa Israele. L’odio lasciato da tutti questi traumi non è scontato che cesserà un giorno. Ma non ci sono altre strade oltre la pace.
Difficile fare congetture sulle condizioni dei migranti presenti nel nostro territorio e su quelli che arriveranno. Siamo ormai lontani anni luce dal lontano 1989 che rappresentò una svolta in quella percezione stereotipata ed «etnicizzata» del «Nero» immigrato. In agosto, un giovane sudafricano, Jerry Essan Masslo, viene ucciso nelle campagne di Villa Literno nel casertano da una banda di rapinatori. L’episodio ha per la prima volta un grande risalto mediatico: emerge dirompente, in Italia, una «questione razziale», smontando lo stereotipo bonario e sornione dell’«italiano brava gente».
Come osservato da Daniela Pompei della Comunità di Sant’Egidio, l’opinione pubblica italiana prende improvvisamente coscienza del fenomeno immigratorio, recepito sin allora principalmente attraverso la visione deformante del «lavoro straniero», e di un pericoloso seme dell’intolleranza, venuto alla luce in maniera plateale. Vengono concessi i funerali di Stato a Villa Literno, cui partecipano le alte cariche istituzionali, mentre interventi dell’ONU, del presidente della Repubblica e del papa manifestano sdegno e richiamano alla solidarietà. Con l’omicidio di Masslo la questione immigratoria comincia a politicizzarsi.
Ma la storia di Masslo, riportata da molti quotidiani, svela anche un volto complesso dell’immigrato africano, non riducibile a una categoria razziale o sociale generalizzata. Jerry era stato accolto dalla Comunità di Sant’Egidio nella nuova casa di accoglienza “La Tenda di Abramo”, dove partecipò commosso all’inaugurazione il 26 maggio alla presenza di dell’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, mentre frequenta la scuola di lingua e cultura italiana, avviata da Sant’Egidio dal 1982. Dopo il 1989 si apre un periodo contraddittorio, tra solidarismo collettivo e visioni lungimiranti, ma anche brusche prese di coscienza sull’animo razzista degli italiani.
Come notato dallo storico Gian Paolo Calchi Novati rileviamo una retrocessione dell’Africa, osservando che «nel mondo globale all’Italia, troppo preoccupata di “respingere” invece che “integrare”, finiranno per mancare quegli avamposti, fatti di persone, sentimenti e iniziative». Molti si chiedono se dopo la sentenza sul caso Open Arms non si sia creato un amaro spartiacque. Probabilmente il contrasto all’immigrazione clandestina non sarà più lo stesso. Non sarà più quello che, pur nella severità dei controlli dovuti per la sicurezza nazionale, ha contraddistinto – ha osservato Luigi Patronaggio – l’Italia come un Paese di accoglienza rispettoso del diritto delle genti e del mare, dei trattati internazionali e della Costituzione repubblicana.
Recentemente la Corte costituzionale e la Corte di cassazione, in conformità alle pronunzie della Corte europea dei diritti dell’uomo, hanno più volte affermato che il contrasto all’immigrazione clandestina non possa prescindere dal rispetto degli human rights, dei fondamentali diritti alla vita e alla salute, dal riconoscimento del diritto alla presentazione ed un serio esame di una istanza di asilo o di protezione umanitaria internazionale. Gli stessi giudici hanno affermato che il rispetto dei trattati internazionali, sottoscritti dall’Italia sul dovere di salvataggio in mare, prevale sulle indicazioni amministrative di contenimento dell’immigrazione clandestina.
ancora, più volte, è stato autorevolmente sentenziato che “porto sicuro” per i migranti che provengono dal mare non è un semplice posto dove essere messi in salvo, ma il luogo più vicino al punto di salvataggio dove gli stessi possono avere riconosciuti i loro diritti fondamentali, articolando con una valida assistenza legale le loro istanze di protezione internazionale e di asilo.
Eppure, il fenomeno migratorio in Italia è in decrescita, non ha la virulenza di altri Paesi dell’Unione Europea e che, dati alla mano, non costituisce l’unico problema d’ordine pubblico del nostro Paese. Una concreta politica sociale e di integrazione, peraltro, sarebbe – spiega Patronaggio – «in grado di contenere i riflessi negativi di una immigrazione irregolare molto più efficacemente dei denari spesi per le c.d. esternalizzazioni (leggasi trasferimento coatto dei migranti verso Paesi terzi) che non solo i giudici italiani ed europei hanno ritenuto illegittime ma che perfino la Supreme Court inglese ha ritenuto illegittima richiamandosi al principio di non-refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra e dalla Corte europea dei diritti umani». La migrazione è un fenomeno talmente importante che andrebbe affrontato confrontandosi per il bene del Paese con il faro sulla centralità della persona e della tutela dei diritti umani. Invece il governo e la maggioranza ne fanno strumento di propaganda senza ascoltare nulla.
È il grido d’allarme lanciato dall’on. Paolo Ciani, Segretario nazionale di Demos e vicecapogruppo PD alla Camera dei Deputati. Tante cose che oggi – sostiene Ciani – potremmo rivedere nei cittadini di tutto il mondo che provano ad arrivare in Europa. L’Italia e l’Europa potrebbero farsi promotrice di un nuovo approccio del nostro continente rispetto alle migrazioni. Un approccio non emergenziale, un approccio intelligente e – perché no? – anche “utilitaristico”.