Interrompo un attimo il discorso avviato nel post precedente per parlare di uno spettacolo che ho visto l’altro ieri a Firenze: al teatro della Pergola andava in scena L’Incoronazione di Poppea, ultimo dramma per musica di Claudio Monteverdi (insieme a collaboratori) su libretto di Gian Francesco Busenello, rappresentato per la prima volta a Venezia nel carnevale del 1643. Regia, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi, allestimento già presentata al Teatro Real di Madrid.
Il testo monteverdiano è affascinante: la concezione drammatica e il libretto sono di estrema raffinatezza, e anche la musica possiede una notevole puntualità nel disegnare le sfumature psicologiche dei personaggi, anche se oscilla perennemente tra un declamato intonato (propriamente recitativo) e spunti musicali più vicini all’aria o all’arioso e non può riuscire, secondo me, nell’intento di catturare l’attenzione del moderno spettatore medio per tre ore e mezza filate. L’autore dell’Orfeo merita ammirazione per il modo in cui la musica si modella alla parola, secondo una concezione di verità drammatica che attraverso il grado intermedio di Gluck (autore di un altro celeberrimo Orfeo) si perfezionerà definitivamente nel Musikdrama (definizione che richiama, guarda caso, quella di Monteverdi) di impronta wagneriana. Per il resto Monteverdi mette in scena personaggi che hanno il pregio (e la sorprendente modernità) di non venir giudicati dall’autore secondo una scala morale, ma mostrano senza vergogne tanto la loro capacità di nefandezze quanto quella di amare, dichiarata fin dal prologo come la principale facoltà dell’essere umano.
Si trattava, secondo il costume squisitamente tardo novecentesco, di un’esecuzione filologica, tendente cioè al ripristino delle tecniche esecutive e delle pratiche originali, quali sia possibile ricostruire con i documenti a noi pervenuti, e sul podio (si fa per dire, visto che era seduto al cembalo) c’era l’americano Alan Curtis, riconosciuto a livello planetario come uno dei più importanti specialisti del ramo. Dunque strumenti desueti (cembali, tiorbe, arciliuti e quant’altro) in un fluire perpetuamente capriccioso di arpeggi e abbellimenti vari (tutte cose di cui non si trova traccia nei manoscritti), che accompagnavano meravigliosamente attenti e puntuali, questo va detto, quanto avveniva sulla scena. Insomma, tutto veniva presentato come se i trecentocinquanta anni buoni che ci separano da Monteverdi non fossero mai passati (leggi mio post precedente). Ragion per cui stonavano assai (ma solo in senso figurato, al contrario degli altri) gli strumenti moderni che ogni tanto ci allietavano con (troppo) brevi intermezzi e sinfonie (un mistero, poi, privarci in ciò di strumenti a fiato – che all’epoca certo esistevano – dato che i manoscritti sono privi di indicazioni in merito).
Per quanto ne so io un vero artista del canto è colui che mediante le corde vocali amplifica le vibrazioni e i moti di un’anima ricca e profonda, suscita così una nostra consonanza interna, provocando, insieme al piacere estetico della musica, la commozione che deriva dal riconoscimento di una fratellanza interiore. Orbene, una sola ce n’era, in grado di questo: la celebre americana Susan Graham, che da sola valeva l’intera compagnia di canto, ed era tra l’altro l’unica (ma guarda un po’) a non occuparsi più di tanto di questioni di prassi esecutiva vocale dell’epoca, mentre altri cercavano (alcuni invano) di districarsi tra messe di voce e suoni fissi.
Le messe in scena di Pizzi le conosciamo, puntano quasi tutto sull’aspetto visivo, in questo caso cromaticamente compresso tra bianco, grigio e nero; i personaggi si muovono preordinatamente e secondo un programma essenzialmente estetico ed astratto (ma questo non stona con Monteverdi), e senza particolari emozioni. In questa versione sono stati fortemente esaltati gli elementi erotici, e sopratutto omoerotici: Nerone si struscia evidentemente assai infoiato sul corpo di Poppea (che gradisce); La sposa virtuosa Ottavia convince Ottone ad uccidere Poppea con una vistosa e volitiva mano sulla patta di lui; il poeta Lucano, in scena in mutande (eleganti, ma sempre mutande), porta Nerone all’estasi in una evidente manipolazione (more antiquo Nerone non fa distinzione tra uomini e donne); durante l’arresto di Drusilla le guardie, pure loro poco vestite, si prodigano in innumerevoli pose plastiche, all’uso dei cultori di body building (apprendiamo in queste ore, dalla autorevole voce di un noto oncologo italiano, che l’amore omosessuale è più puro degli altri, in quanto libero dalla necessità naturale della procreazione. Forse è un segno dei tempi). Ma l’unica, però, che anche nelle scene più hard rimaneva veramente elegante e a proprio agio era, di nuovo, la bellissima Graham. Ora, va bene che il prologo dell’opera ci avverte sin dall’inizio che Amore è il dio più potente, e che Virtù e Fortuna nulla possono contro di lui, ma una distinzione tra sesso e amore ha ancora senso? E che ne direbbe Monteverdi?